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Doppiatori di menare: storia delle "voci" del cinema marziale

Donnie Yen in “Rogue One: A Star Wars Story” (Photo by Jonathan Olley © 2016 Lucasfilm LFL)


L’arrivo nei nostri cinema di Star Wars: Rogue One, lo scorso 15 dicembre, ma anche l’uscita il prossimo 19 gennaio 2017 di xXx: il ritorno di Xander Cage, costringerà il grande pubblico italiano a fare i conti con quell’attore cinese cinquantenne presente in entrambi i titoli in ruoli importanti, lo stesso attore che pare abbia fatto slittare l’uscita di Star Wars VII in Cina perché lui doveva presentare un proprio film e non voleva “dispersioni” di pubblico. L’Occidente l’ha scoperto tardi, e l’Italia più tardi di tutti, ma Donnie Yen è la più grande star marziale mai vissuta, ed ha stracciato ogni record imposto dai suoi “colleghi” precedenti.
Il problema è che la prima volta che si è affacciato in Italia, nel 2001, ha subìto uno smacco che mai i precedenti divi marziali hanno avuto: è stato doppiato malissimo. Perché se da una parte il nostro Paese è tra i più distratti a livello cinematografico, e discutibili politiche di distribuzione fanno sì che si importino preferibilmente i prodotti più economici – cioè i peggiori, che rovinano il mercato e il gusto – dall’altra abbiamo un grande pregio: a livello di doppiaggio siamo stati fra i pochi al mondo ad avere una qualità altissima in campo marziale.
Vi invito ad un viaggio alla scoperta del fenomeno marziale in Italia e di come le grandi star asiatiche di questo genere siano state doppiate.

Doppiatori di menare


Indice:


Le cinque dita di Lo Lieh

Il 27 gennaio 1973 la cultura popolare italiana cambia per sempre. In un cinema di Roma, il Royal di San Giovanni, viene proiettato per la prima volta un film di genere totalmente inedito, qualcosa mai visto nel nostro Paese: Cinque dita di violenza (King Boxer, 1972). È un filmetto che sarebbe già dimenticato se non avesse infiammato il mondo con la sua violenza di grana grossa – rimarrà paradigmatica la scena dello strappo degli occhi – e un’altra particolarità che nessuno spettatore aveva mai visto prima: c’è gente che si picchia a mani nude usando strane mosse. (In realtà un altro film era già stato proiettato, ma ne riparlerò più avanti.)

Le arti marziali orientali erano ben note in Italia sin dagli anni Sessanta ma erano viste come qualcosa di particolarmente violento e volgare: per i ben pensanti sono i criminali e i poco di buono ad alzare la mano verso qualcuno, non i gentiluomini, mentre per i giovani sessantottini era identificata come roba da fascisti. Si perdonava agli agenti segreti, da James Bond a Matt Helm, di usare ogni tanto tecniche marziali, per “esigenze di servizio”, le stesse che poi avrebbe usato il criminale a fumetti Diabolik per anni, così come era socialmente accettata la scazzottata virile che si vedeva nei film americani: tutt’altro discorso era usare tecniche “mortali” di karate o kung fu.

«Con un cartello si avvisa lo spettatore facilmente influenzabile che l’imitazione del “Kung-Fu”, la forma di lotta in uso nell’Oriente e reclamizzata nel film, condurrebbe a gravi e irreparabili lesioni se non alla morte dell’avversario. La potenza didattica del cinema, la sua foza di convinzione!»
da “L’Unità”, 27 gennaio 1973

Disprezzato da ogni forma di comunicazione, con l’accompagnamento di cori indignati e di richieste di bando, il cinema marziale entra prepotentemente in Italia e il primo divo marziale della nostra storia è quello meno abile: Lo Lieh, divo assoluto di Hong Kong sebbene sia mono-espressivo ed abbia solo vaghe conoscenze marziali imparate sul set.

Il cinema di Hong Kong nel venir esportato negli Stati Uniti ha conosciuto un doppiaggio pieno di caratterizzazioni e scelte di cattivo gusto, però questo l’ha reso parte integrante della cultura popolare. Ancora negli anni Ottanta il comico Michael Winslow nel ciclo Scuola di polizia faceva la gag in cui imitava il doppiaggio fuori sincrono tipico dei film asiatici portati nel suo Paese (una gag che semplicemente non trovava molti appigli nella nostra cultura. NdR). Il folto gruppo rap Wu-Tang Clan – fondato da quel RZA che dirigerà L’uomo con i pugni di ferro (2012) – nel 1993 riversa la propria titanica passione marziale nell’ottimo album Enter the Wu-Tang (36 Chambers), in cui a remixaggi di veri brani originali – come lo straziante splendido tema di Boxer Rebellion (1976) – aggiungono campionature di dialoghi tratti da storici film di Hong Kong. Sono doppiaggi terrificanti ma dimostrano quanto siano entrati nella cultura popolare.

Per fortuna nel nostro Paese, che non aveva problemi a caratterizzare eccessivamente i personaggi – si pensi all’immancabile vecchietto nel Far West – sin da subito il genere marziale viene trattato con i guanti, e la star Lo Lieh ottiene la voce di Michele Kalamera, autorevole doppiatore di grandi attori come Clint Eastwood, Michael Caine e tanti altri. Credo che nessun Paese “doppiante” abbia dedicato tanto ad un piccolo filmetto marziale.

Malgrado Cinque dita di violenza sia pessimo, entra di prepotenza nell’immaginario popolare italiano. Nel dicembre di quell’anno esce al cinema Furto di sera, bel colpo si spera di Mariano Laurenti, dove il noto comico Pippo Franco, sentendosi minacciato di botte, esclama: «Ahò, che mi fai: cinque dita di violenza?» Questo fa sì che l’inespressivo Lo Lieh diventi un nome amato dagli italiani e diversi registi lo chiameranno ad interpretare prodotti nostrani spacciati per americani, affiancandolo addirittura a decani come Lee Van Cleef: non pago di aver introdotto il kung fu sugli schermi italiani, Lo Lieh si ritrova ad essere valido esponente dell’italianissimo kung fu western (o come lo chiamo nel mio saggio, “spaghetti marziali”) con un film come Là dove non batte il sole (1974) doppiato da Adalberto Maria Merli. Ma questa è un’altra storia…


Il furore di Bruce Lee

Il successo travolgente spinge i distributori nostrani a battere il ferro finché è caldo, così pressano Hong Kong per farsi mandare qualsiasi altro prodotto abbiano sotto mano. C’è la Shaw Bros, leader incontrastata del mercato che offre prodotti di altissima qualità ma a prezzi non economici, e poi c’è la neonata Golden Harvest, che cerca di sopravvivere all’ombra della titanica concorrente offrendo prezzi più abbordabili. Ovviamente i prodotti sono quello che sono, ma guarda caso è disponibile il nuovo film di quell’attore che non è riuscito a sfondare in America ed è tornato in patria con la coda tra le gambe: per caso interessa? Si menano come fabbri dall’inizio alla fine. Ok, andata. Il 1° marzo 1973 la Titanus presenta in ben tre cinema di Roma il film Dalla Cina con furore (Fist of Fury, 1972), e la mania per il cinema marziale raggiunge livelli inarrestabili.

La recitazione di Bruce Lee è problematica. È un attore consumato, recita da quando aveva sei anni, ha provato a conquistare Hollywood ma ha capito che nessun colpo di kung fu può nulla contro il razzismo, così è tornato in patria a fare quello che la classe popolare adora: il bullo. È pieno di attori impegnati in commedie musicali o romantiche, ma nessuno sa fare lo smargiasso altezzoso come Bruce, così si veste dell’orgoglio nazionale e interpreta un cinese medio alle prese con i nemici più acerrimi e disprezzati: giapponesi ed occidentali. Nasce dunque un problema: come lo doppi un attore che volutamente fa espressioni contratte in continuazione ed esagera ogni gesto?

Per fortuna in Italia si gioca una carta di altissima classe: Cesare Barbetti, che con la sua voce potente ma vellutata regala a Bruce Lee la migliore resa possibile e immaginabile. Lo studio romano di doppiaggio CD in generale dedica una particolare cura a tutti i personaggi del film, anche di quelli minori: quei caratteristi cioè che di solito il cinema di Hong Kong riserva per i momenti comici o buffoneschi. Ogni personaggio ha un’ottima voce, e per fortuna lo stesso studio viene coinvolto quando – dato l’enorme successo della pellicola – i distributori corrono a cercare qualsiasi altro film sia interpretato da quel tizio che fa le boccacce e i versi strani. Purtroppo, ne esiste solamente un altro.

Stavolta l’eco mediatica è di livello basso, così quasi senza lancio pubblicitario il 14 aprile 1973 la Titanus presenta a Torino Il furore della Cina colpisce ancora (The Big Boss, 1971), che arriverà nei cinema romani solamente ad ottobre: la voce è sempre dell’ottimo Cesare Barbetti. Lo studio CD ha mandato di ribattezzare il protagonista Chen, perché per gli italiani Bruce Lee sarà sempre Chen su grande schermo, così un allievo di una scuola marziale di inizio Novecento e un contadino ignorante emigrato in Thailandia negli anni Settanta si ritrovano ad essere in pratica sempre lo stesso personaggio…

Il 18 gennaio 1974 sempre la Titanus porta nei cinema romani L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente (Way of the Dragon, 1972), chilometrico titolo che ancora una volta ci fa credere che il protagonista sia quel Chen. Stavolta è Bruce Lee stesso il regista e aver girato alcuni esterni a Roma l’ha reso così simpatico… che ancora oggi i romani sono convinti che il combattimento finale sia girato davvero al Colosseo, dimostrando quanto gli abitanti della Capitale non conoscano quel monumento! Torna lo studio CD e anche qui abbiamo una splendida gestione del doppiaggio, con il consueto Barbetti che dà la voce a Lee. Per l’ultima volta.

Il 20 luglio 1973 l’attore muore e il mondo cinematografico rimane orfano di un money-maker d’eccellenza. Sei giorni dopo la sua dipartita, esce l’ultimo film girato dall’attore: Enter the Dragon, evento storico perché per la prima volta una blasonata casa americana si è “abbassata” a co-produrre con una casa asiatica: la giovane ma già talentuosa Golden Harvest, che cerca di fare concorrenza alla blasonata Shaw Bros. Finora i film di Lee sono venuti via a due spicci, ma ora che c’è la Warner di mezzo il discorso cambia: questo film sarà ignoto agli italiani per decenni, semplicemente perché distribuito pochissimo in quanto più costoso degli altri.

Il 28 dicembre 1973 arriva a Torino come I 3 dell’Operazione Drago, un titolo meno “marziale” ma che si riallaccia a temi spionistici più in voga all’epoca, e in effetti il film è una martial spy story. Il doppiaggio è affidato stavolta alla storica SAS (Società Attori Sincronizzatori) che gestisce ottimamente la caratterizzazione dei personaggi di un film corale. Il cinese Lee ottiene la voce di Carlo Sabatini, l’italo-americano John Saxon quella di Pierangelo Civera e il nero superbad Jim Kelly quella di Pierluigi Zollo. Chiude il ciclo il perfido Han con la voce di Emilio Cigoli. Ognuno di questi doppiatori sa fornire al personaggio la giusta connotazione e la giusta differenza etnica senza mai esagerare né cadere nel luogo comune.

Qui finisce il mito di Bruce Lee, ma un ultimo colpo di coda arriva a sorpresa il 25 agosto 1978, quando in alcuni cinema di Roma la Titanus presenta un curioso film: L’ultimo combattimento di Chen (The Game of Death, 1978). È una truffa bella e buona, che racconto con dovizia di particolari (anche inediti) in un lungo speciale che gli ho dedicato, ma per gli italiani quella baracconata firmata da Sammo Hung è davvero l’ultima prova attoriale di Lee. Per l’occasione arriva lo studio CVD e dà al protagonista… va be’, ai vari sosia cinesi che fingono di essere Lee, la voce di Luigi La Monica. Un’ottima voce per un pessimo prodotto.


Le mani di Angela Mao

Cinque dita di violenza a gennaio e Dalla Cina con furore a marzo fanno capire subito quali siano i gusti degli spettatori, e sebbene non esista organo di stampa che non si lanci in mille insulti verso questo cinema barbaro e traviante, i distributori vanno a “colpo” sicuro. Riescono addirittura a portare in Italia un prodotto impensabile ancora per i decenni a seguire: un film dove una donna picchia degli uomini! L’attenta Fida Cinematografica il 6 aprile 1973 porta sugli schermi romani Mani che stritolano (Lady Whirlwind, 1972) dove la brava Mirella Pace dona la voce alla mitica Angela Mao, in assoluto tra le prime donne a combattere a mani nude su schermo.

Forse è per attrarre il “sesso debole”, si chiede lo schifato recensore de “L’Unità” che racconta il film il 7 aprile successivo, facendo ben notare che ad ogni pellicola del genere si apra una nuova palestra di karate in città, in ambienti già fascisti. Al di là di questo immotivato giudizio personale – che comunque rappresenta perfettamente il sentire comune dell’intellighenzia dell’epoca – il critico fa notare che questo è il sesto film cinese di arti marziali dall’inizio dell’anno, ed in effetti i conti tornano: 1) Cinque dita di violenza; 2) Dalla Cina con furore; 3) La morte nella mano; 4) Le 4 dita della furia; 5) Da Hong Kong: l’urlo, il furore, la morte e 6) Mani che stritolano.

Il critico però sbaglia, i film sono sette ma non si può fargliene una colpa: il titolo “dimenticato” lo rimarrà molto a lungo. Quello che già nel 1973 non si ricordava più era che il genere in Italia aveva avuto un inizio anni prima, con l’arrivo di uno dei più famosi wuxiapian del mondo, che solo i più appassionati degli spettatori nostrani hanno poi saputo apprezzare…


Il braccio di Wang Yu

Con un divieto ai minori di 18 anni, il 2 dicembre 1969 si affaccia timidamente nei cinema di Torino il film Mantieni l’odio per la tua vendetta (One-Armed Swordsman, 1967), storica opera del maestro Chang Cheh che lancia il personaggio di Fang, lo spadaccino monco, che anni dopo viaggerà fino in Giappone per incontrare… Zatôichi, lo spadaccino cieco! (Il personaggio di Fang è così affascinante che io stesso mi sono divertito a rielaborarlo, calandolo nel progetto narrativo “Risorgimento di Tenebra” e trasformandolo in Fango per il mio racconto lungo Fuoco e Fango.)

Primo film marziale apparso in Italia, passato del tutto inosservato all’epoca

Sicuramente il pubblico occidentale non era pronto a vedere un protagonista che, battuto in combattimento, è costretto a tagliarsi via da solo il braccio destro per poi imparare a diventare fenomenale con il sinistro, così da trovare redenzione. Né ha aiutato la distribuzione traballante, che ha misteriosamente cambiato il nome dell’attore protagonista in… Oswald Gis. Ma che nome è? Anni dopo, però, con Lo Lieh e Bruce Lee nei cinema l’Italia è pronta al vero eroe che nel ’69 era stato mascherato dietro quel ridicolo pseudonimo: Jimmy Wang Yu. (Doppiato in quel film da Massimo Turci.)

L’attore riesce ad essere ancora più incapace di Lo Lieh, è forse la persona meno in grado di combattere che esista al mondo, è un campione di nuoto che un giorno si è trovato davanti alla telecamera e ha scritto da solo la storia della cinematografia di Hong Kong… semplicemente perché ha avuto la fortuna di lavorare per titani che hanno saputo mascherare la sua totale inettitudine. La casa distributrice italiana Astor non bada certo a questi particolari, così il 9 marzo 1973 – a soli otto giorni di distanza da Dalla Cina con furore – porta nei cinema di Roma La morte nella mano (The Chinese Boxer, 1970), non sapendo che si trattasse di uno dei grandi capolavori del genere: è probabilmente il primo film che mostra combattimenti a mani nude, cioè l’origine del genere gongfupian.

La Nuova Linea Cinematografica porta nelle sale di Torino il 17 aprile successivo lo storico Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo (One-Armed Boxer, 1972), con Wang Yu che interpreta sempre un monco ma stavolta non uno spadaccino bensì un semplice lottatore. L’attore diventa in breve tempo molto famoso, tanto che la Euro International Films porta nei cinema di Torino il 18 agosto 1973 Wang Yu l’imbattibile (The Invincible, 1972), mentre il 28 maggio 1974 la Cervino distribuisce a Roma Wang-Yu il violento del karate (Knight Errant, 1973).

Purtroppo non sono riuscito a trovare informazioni sui doppiatori di questo attore: le rare edizioni italiane rimaste di questi film non hanno titoli esaustivi.


La “y” di Jackie Chan

L’Italia degli anni Settanta era un’altra Italia, oggi irriconoscibile, così dopo la morte di Bruce Lee addirittura i quotidiani si chiedono chi riempirà il vuoto lasciato dall’attore marziale, e il 15 marzo 1979 “La Stampa” fornisce la risposta: Jacky Chan, con la “y”.

Scoperto da Sze-Yuan per alcuni suoi film, scopriamo che l’Italia del ’79 addirittura cita l’opera del decano Siu Tin Yuen, il mitico drunken master del film omonimo, il papà di quel Yuen Woo-ping noto ad Hollywood per le sue coreografie di Matrix e Kill Bill. Non pago di questa sorpresa, il giornale ci rivela gli ultimi due film girati da “Jacky”: La iena senza paura e Il serpente all’ombra dell’aquila. Entrambi i titoli sono rarità sconosciute: Fearless Hyena apparirà e scomparirà in Italia con la velocità del lampo, mentre bisognerà aspettare il 2003 per riscoprire il secondo titolo in DVD. Per poter apprezzare cioè qualcosa che nel 1979 era dato per scontato.

Al di là di questo, l’Italia del dopo-Bruce Lee è pronta ad accogliere un nuovo “re del kung fu”, e quindi – per citare l’avv. De Marchis di Febbre da cavallo (1976) – basta «il primo stronzo che passa» per dargli la corona. In mezzo al guazzabuglio di nomi farlocchi e filmacci pencolanti che arrivano da Hong Kong, nella stragrande maggioranza wuxiapian (film fantasy con cavalieri svolazzanti) mascherati da gongfupian (film dove si combatte a mani nude), non c’è un solo nome che possa avere un minimo di attenzione: l’unico è Jackie… stavolta senza “y”.

Qual è il sistema italiano usato per lanciare Bruce Lee? Si prende il primo film che capita e lo si lancia come fosse un capolavoro, poi si prende un titolo precedente e lo si rimaneggia in attesa che l’attore produca qualcosa di nuovo. E così avviene… solo che il risultato è che l’attore non è stato lanciato bensì bruciato.

Il 24 gennaio 1981 la PIC porta nei cinema torinesi Chi tocca il giallo muore (Battle Creek Brawl, 1980): «Jackie Chan, il kung-fu che fa morire dal ridere» è il titolo del pezzo che gli dedica “L’Unità” quando il film arriva a Roma, il 3 marzo successivo. Al di là del ridicolo titolo, in perfetto stile italiano, all’epoca ancora non si sa che la Golden Harvest, orfana di Bruce, sta provando a lanciare Jackie in America e che per farlo si affida al peggior regista dell’epoca: Robert Clouse. Tutti quelli che hanno lavorato con lui in Asia lo disprezzano, ma ha contatti con la Warner Bros e dopo il grande successo de I 3 dell’Operazione Drago e L’ultimo combattimento di Chen è il regista di Bruce Lee. (Non è vero, ma tutti lo pensano.) Clouse dirige una porcata inguardabile dove un gruppo di attori funamboli cinesi va in America a fare il verso agli americani: una roba da picchiare Jackie con un giornale arrotolato. Ok, il primo brutto film è fatto.

Gli italiani procedono spediti e la Medusa il 24 luglio 1981 porta su schermo Jacky Chan: la mano che uccide (1979), che verrà rilanciato con più enfasi dal 5 maggio 1982. Un classico gongfupian come ormai però ce ne sono tanti: così un altro bel buco nell’acqua l’abbiamo fatto. Malgrado Jackie sia famoso per aver recitato nel The Hand of Death di John Woo, stando ai credits italiani della locandina italiana del film – che va sempre presa con beneficio d’inventario – Jacky Chan: la mano che uccide è probabilmente la versione italiana (dimenticata) di Fearless Hyena (1979), ma è difficile stabilirlo con assoluta certezza e per il fumoso cinema asiatico i database occidentali non sono completamente affidabili.

Jackie non ha il successo sperato nei cinema italiani e viene in pratica quasi dimenticato. Nel 1985 prova di nuovo a conquistare l’America con Protector – che decenni dopo verrà ricalcato da Rush Hour – un filmetto da dimenticare, un finto poliziesco all’americana che arriva nei cinema romani il 23 maggio 1986: solamente nel 1995 Jackie riuscirà a sfondare, arrivando ad avere una buona distribuzione anche da noi. Solamente dopo che Van Damme dal 1989 avrà fatto esplodere una richiesta titanica di film marziali. Solamente con Terremoto nel Bronx (Rumble in the Bronx, 1995) Jackie diventerà quello che è oggi, dopo quasi vent’anni di gavetta.

Jackie è un attore che ha sempre recitato in cantonese e, per sua stessa ammissione, non si è mai sentito a proprio agio a recitare in inglese. Se dunque nelle versioni anglofone dei suoi film la parlata un po’ buffa aiuta nella recitazione gigionesca, in Italia ha avuto la fortuna di ricevere la voce di Giuliano Giacomelli, che lo doppia sia nei primi film che arrivano al cinema – Chi tocca il giallo muore e Jacky Chan: la mano che uccide – sia nei mitici film che hanno scritto il suo successo (quelli sì che andavano proiettati!) arrivati da noi solo in home video negli anni Ottanta e riscoperti poi nel 2000 in DVD – Il ventaglio bianco (The Young Master, 1980), I due cugini (Dragon Lord, 1982), Project A (1983) e via dicendo. Il doppiatore sa essere frizzante o serio all’occorrenza e dona a Jackie una splendida resa italiana, priva di qualsiasi inflessione o stortura.

Quando poi finalmente Jackie sfonda in Occidente, al doppiaggio arriva Oreste Baldini che copre alcuni dei film di cassetta di quel periodo: Terremoto nel Bronx (1995), Thunderbolt (1995) e First Strike (1996). Il successo fa portare nelle nostre videoteche altri ottimi titoli, doppiati da Vittorio De Angelis: Drunken Master (1978), Supercop (1992), Mr. Nice Guy (1997, il mio film preferito di Jackie del periodo) e Senza nome e senza regole (Who Am I?, 1998).

Raggiunto il culmine, Jackie perde totalmente l’interesse italiano: sia perché negli anni Duemila comincia ad essere un po’ imbarazzante nel suo ripetere ossessivamente coreografie nate negli anni Settanta, sia perché sul finire dei ’90 nel mondo occidentale – e nel nostro Paese in particolare – si comincia a rifiutare violentemente ogni tipo di marzialità. Il genere “arti marziali” scompare dai cataloghi e il massimo consentito nei film è una scena fatta male, di pochi secondi, in un film d’azione: non di più. Il film più “marziale” di questo periodo è Matrix, con un legnoso e incapace Keanu Reeves che fa cose che farebbero morire di vergogna l’ultimo scarto di palestra, ma quello è il massimo che l’Occidente offre alle arti marziali.


Il cinese Jet Li

Per fortuna esiste una Resistenza che, di nascosto, continua ad apprezzare i buoni prodotti. Così se il grande schermo è assolutamente vietato a chiunque sappia combattere… c’è sempre il mercato home video. Nell’indifferenza più totale e nel disinteresse più profondo arriva in Italia in questi anni la più grande star marziale dell’epoca: Jet Li. Ormai in Italia il genere marziale è prerogativa di pochi rivoluzionari isolati, a cui rimane solo la pessima Cecchi Gori che porta in videoteca film che in Asia sono considerati di culto.

Jet Li – che da bambino si esibì in uno spettacolo marziale alla Casa Bianca davanti a Nixon – è dal 1980 che sforna film marziali di altissimo profilo nella totale indifferenza del nostro Paese. Quando però nel 2000 la Dimension Films compra alcuni spettacolari film che definire capolavori è riduttivo, l’Italia è lì che scalpita… Che facciamo, lo distribuiamo il più grande divo marziale dell’Asia? Però in Italia c’è il divieto assoluto di presentare film che abbiamo più di trenta secondi di marzialità: in questo curioso Paese si chiama “combattimento” la scena di Mission: Impossible 2 (2000) con Tom Cruise che fa le capriole sulla spiaggia… gli spettatori non sono pronti per un dio marziale come Jet Li. Alla fine, il compromesso arriva: i capolavori marziali arrivano nelle nostre videoteche nel 2001… ma in lingua originale sottotitolati!

Perché la Dimension Films ha distribuito in Occidente un gruppo di film di altissimo livello di Jet Li? Semplice, perché nel 1998 gli spettatori occidentali hanno scoperto l’attore come cattivo di Arma letale 4. Il celebre produttore Joel Silver sta dicendo a tutti di aver “scoperto” un divo d’azione a cui affiderà prossimi titoli da protagonista (e purtroppo manterrà questa insana promessa) ma si sa che ad Hollywood esiste una legge ferrea per gli stranieri: prima muori, poi fai il protagonista. Jet Li non è MAI morto nei suoi film, addirittura ha girato il remake di Dalla Cina con furore – storico film dove il protagonista muore – ed è sopravvissuto alla fucilazione finale! Jet, come Jackie e come tanti altri attori, impone per contratto di non morire MAI… ma in quel 1998 Silver deve aver messo sul tavolo così tanti soldi che Jet prende e muore.

Subito dopo Arma letale 4 – dove ha la voce di Enrico Di Troia – i suoi film girano per i mercati occidentali e la Cecchi Gori va a raschiare il barile, portando in videoteca La vendetta della Maschera Nera (Black Mask, 1996), dove Jet è doppiato ottimamente da Vittorio Guerrieri. Purtroppo gli italiani devono assolutamente rimanere all’oscuro che c’è un divo marziale in circolazione, perché ufficialmente il genere non esiste più, così scatta un piano diabolico degno del Dottor Male: ogni film di Jet Li… deve avere un doppiatore diverso!

Così nel 2000 si avvera la profezia di Joel Silver ed ecco il film da protagonista Romeo deve morire (Romeo Must Die, 2000) con la voce di Francesco Prando; Luc Besson, che c’ha l’occhio lungo e in Francia gli attori marziali sono molto amati (pensa che strano Paese…) chiama subito Jet e gli fa girare lo spy action Kiss of the Dragon (2001), con la voce di Francesco Pezzulli; visto che Romeo è stato un flop, Jet prova con la fantascienza e gira l’orripilante e sbagliatissimo The One (2001), con voce di Antonio Sanna – che lo doppia anche nell’ottimo C’era una volta in Cina e in America (Once Upon a Time in China and America, 1997), che la Cecchi Gori prontamente porta in videoteca – e dopo l’imbarazzante Amici X la morte (Cradle 2 the Grave, 2003), con voce di Gaetano Varcasia, per fortuna la carriera americana di Jet può dirsi conclusa.

Nel 2002 gira quell’immenso capolavoro di storia falsa e revisionistica che è Hero, che alterna immagini potenti ad un revisionismo storico degno del peggior regime, in cui le poche battute dell’attore sono rese in italiano da Fabio Boccanera, lo stesso che doppia il fugace ritorno di Jet negli USA con Rogue Il solitario (War, 2007). Dopo il francese Danny the Dog (2005) con la voce di Riccardo Rossi, la carriera di Jet conosce l’apice e il pedice: Fearless (2006), con di nuovo Fabio Boccanera al doppiaggio, è sia il film più famoso di Jet che l’ultimo decente da protagonista. Possiamo dire che la sua carriera finisce qui.

Intanto in videoteca fa furore. Nel 2002 la Elleu porta Le sette spade della vendetta (The Evil Cult, 1993) con la voce addirittura di Claudio Capone; nel 2003 la Columbia esagera e presenta una tripletta di film in pregiate (e costose) edizioni DVD: il wuxiapian classicissimo La leggenda del drago rosso (Legend of the Red Dragon, 1994) con la voce di Vittorio De Angelis, la versione cinese di Die Hard Meltdown (1995) con Massimo De Ambrosis e Contract Killer (1998) con Simone Mori.

Quasi ritirato, Jet pensa bene di provare a sparare qualche cartuccia facendo capolino nella saga degli Expendables di Stallone, giusto una comparsata inutile per farsi prendere in giro e finire in pernacchia un’onorata carriera. (Sempre meglio di Jackie, che continua a fare il clown nei suoi insopportabili filmetti invece magari di fare il produttore e scoprire altri Jackie, come fecero i suoi maestri negli anni Settanta.) Quando così il 1° settembre del 2010 I mercenari arriva in Italia, il direttore del doppiaggio scopre qualcosa che nei vent’anni precedenti era sfuggito a tutti: Jet Li è cinese…

Tutti i doppiatori sin qui citati hanno fatto un lavoro eccezionale, donando una voce perfetta all’attore e soprattutto rendendola adatta al personaggio: Jet Li nei suoi film interpreta sempre e solo e rigorosamente l’eroe sì buono ma risoluto se non proprio brusco, che combatte per il bene con la serietà e la seriosità di un maestro di arti marziali. La voce italiana si è sempre adattata alla perfezione a questo ruolo, anche negli inevitabili siparietti comici tipici di Hong Kong. Quando ha recitato con attori occidentali, e gli è capitato spesso, il doppiaggio italiano non ha fatto alcuna distinzione o discriminazione, guadagnandosi le lodi più sentite. Poi però…

Siamo d’accordo, un omino di un metro e 68 stona un po’ in mezzo a cristoni “ammericani” cresciuti a steroidi, ma è proprio questo il motivo della sua presenza: farlo litigare con i due metri di Dolph Lundgren è appunto il contrasto che voleva Stallone. Siamo d’accordo, è cinese – non della anglofona Hong Kong, proprio della Cina comunista! – e sicuramente avrà un po’ di cadenza malgrado da trent’anni sia un divo del cinema internazionale… ma dargli la voce di Mino Caprio è stato davvero inappropriato. Con tutto il rispetto per il bravo doppiatore romano, il cui lavoro con Peter Griffin meriterebbe un Oscar, il risultato è un distacco troppo forte: sembra che attori veri stiano parlando con un cartone animato!

Perché non chiamare uno dei tanti doppiatori che hanno donato splendida voce a Jet Li? Perché chiamare una voce così caratteristica per un personaggio che non meritava alcuna caratterizzazione? Quel che è peggio è che questa scena indecorosa può vantare un triste precedente…


Il maestro Donnie Yen

Il 3 settembre 2001 la famigerata Cecchi Gori porta in DVD e VHS a noleggio un film funesto, il quarto terrificante episodio di una saga che non doveva conoscere assolutamente seguiti: Highlander: Endgame (2000). È comprensibile che gli allibiti spettatori, con gli occhi bruciati da un film tanto orripilante, non abbiano fatto caso che per la prima volta un film occidentale presentava la più grande star marziale asiatica…

Dal 1984 Donnie Yen porta avanti una grande carriera come attore marziale attraversando tutti i generi che i suoi colleghi più famosi man mano lanciano. Negli anni Ottanta va la comedy kung fu alla Jackie? E lui la fa. Poi va di moda il police drama? E lui ci si specializza. Non dimentichiamo che Hong Kong vive sempre e costantemente di wuxiapian, e lui li fa. E qualsiasi cosa lui tocchi, diventa oro. Quale sarà mai il segreto di Donnie Yen? Credo che sia che non ha mai tentato di arruffianarsi gli americani, come hanno fatto tutti i suoi colleghi, da Bruce Lee in poi. Donnie lavora per i cinesi e l’Asia, e per popoli ultranazionalisti come quelli è un valore che non passa inosservato. Mentre Jackie e Jet si calano le brache davanti ai dollari americani, rovinandosi la carriera, Donnie va a testa alta sfornando film di qualità sempre maggiore, creando prodotti di altissimo livello impensabili per le altre stelle marziali: nessuno dei nomi sin qui citati sarebbe mai stato in grado di interpretare un piccolo gioiello come Dragon Tiger Gate (2006) senza sembrare ridicolmente fuori parte.

L’Occidente lo ignora finché non succede qualcosa di inspiegabile e Donnie, praticamente inedito, comincia a fare stupidi piccoli ruoli inutili: che i dollari americani comincino a piacere anche a lui? La vera domanda è: quanto lo hanno pagato per abbassarsi così tanto?

Lo troviamo dunque nella immotivata comparsata in Highlander: Endgame al suo solito, cioè molto “figo”: Donnie non è un gigione sorridente come Jackie né un serioso taciturno come Jet. Donnie è un cazzuto protagonista che se la comanda ovunque, e piomba in scena come fosse il suo film. Peccato però… che poi apra bocca ed esca fuori la voce di Vittorio Stagni

Siamo d’accordo, anche Donnie è cinese e sicuramente in un film con attori americani la sua cadenza si nota, ma dargli una voce così fortemente caratterizzata è una scelta discutibile, soprattutto perché poi l’attore assume atteggiamenti da duro che contrastano fortemente con la voce italiana.

Per fortuna il suo piccolo ruolo successivo, lo spadaccino di Blade II (2002), è talmente inutile che l’attore non ha neanche una battuta, e poi nel suo piccolo (e parimenti inutile) ruolino in 2 cavalieri a Londra (Shanghai Knights, 2003) lo si nota appena, anche se ha la voce “normale” di Pasquale Anselmo. Per fortuna i rarissimi titoli di Donnie che arrivano in Italia hanno un trattamento migliore del primo, sebbene da noi vengano distribuiti solo i film in cui l’attore è particolarmente taciturno, tipo il wuxiapian da mal di testa Seven Swords (2005), con la voce addirittura di Pino Insegno. Purtroppo capolavori inarrivabili come SPL: Sha po lang (2005) non sembrano avere speranze di arrivare nel nostro distratto Paese.

Per fortuna l’enorme clamore internazionale per Ip Man (2008) ha spinto anche i nostri sordi distributori a farlo arrivare in Italia, stupendoci con la scelta coraggiosa di lasciare lo stesso doppiatore – Vittorio Guerrieri – per tutti e tre i film del personaggio, nel 2008, 2010 e 2015.


Le ginocchia di Tony Jaa

Donnie Yen non è mai stato lanciato in Italia come star marziale, anche perché in pratica è stato scoperto solamente nel 2008 grazie ad Ip Man. Che finalmente i distributori nostrani abbiano capito che devono smetterla di etichettare “il nuovo Bruce Lee” chiunque abbia gli occhi a mandorla? Eppure ancora nell’estate 2004 i trailer televisivi usavano quell’espressione per lanciare il thailandese Tony Jaa.

Portato in Francia da Luc Besson e in America dal citato RZA, tutto il mondo – me compreso – dal 2003 aveva gli occhi pieni delle incredibili qualità marziali di Tony Jaa, uno degli allievi del titanico e compianto coreografo Panna Rittikrai. Per un solo mese, quell’agosto 2004, i cinema italiani hanno proiettato il film che invece il resto del mondo ha considerato l’inizio di una nuova èra: Ong-bak. E siccome siamo italiani e siamo famosi per la nostra creatività, gli abbiamo aggiunto il sottotitolo più stupido e banale e sfruttato della storia: nato per combattere.

Chi (come me) ha avuto modo di vedere già prima il film in lingua originale, sa che il thailandese è una lingua che suona davvero urticante alle orecchie occidentali: è una compilation di miagolii irritanti che mal si addicono ad un eroe marziale. Malgrado la pessima distribuzione italiana, è stato lo stesso da elogiare il nostro Paese per aver dato al protagonista l’ottima voce di Stefano Crescentini. Sa rappresentare perfettamente un action hero totalmente diverso dal solito, senza alcuna dote “americana” a cui siamo abituati, ma grintoso ed abilissimo.

Lo studio SEDIF del primo film viene sostituito dal SEFIT-CDC ma rimane Crescentini a doppiare Jaa nella seconda uscita italiana: lo spettacolare The Protector. La legge del Muay Thai (Tom yum goong, 2005), anche qui per il solo mese di agosto 2007.

Malgrado l’Italia ci metta un po’ a carburare, Tony Jaa è un divo internazionale dal 2003 e gira il mondo organizzando spettacoli dove esegue dal vivo le complicate e pericolose coreografie acrobatiche che si vedono nei suoi film, anche per rispondere alle critiche di chi parla di cavi o di computer grafica. Questo nuoce alla sua carriera da attore e così i suoi film cominciano ad essere rari… e purtroppo sempre più approssimativi.

Se Ong-bak 2. La nascita del Dragone (Ong-bak 2, 2008) è un esotico affresco della Thailandia ottocentesca – con la voce di David Chevalier per la Technicolor – Ong-bak 3 (2010) è già una traballante ripetizione di cose già viste e un po’ trite – non ho trovato il doppiatore. L’arrivo di The Protector 2 (Tom yum goong 2, 2013) – con la voce di Massimo Triggiani per la CDR – dove recita al fianco dell’ex rapper RZA, è la prova che non si riesce più a trovare qualcosa da far fare all’attore. L’orripilante Skin Trade. Merce umana (2014) – con la voce di Riccardo Scarafoni per Video Sound Service – è la tomba sulla sua carriera, e ormai il destino dell’attore è fare piccole gustose particine in grandi film: come in Fast and Furious 7 (2015) con la voce Massimo Corvo per la CDC SEFIT. Paradossalmente la sua scena di combattimento con Paul Walker, cioè un attore non marziale, ha una qualità molto più alta degli interi film marziali in cui si è lanciato negli ultimi anni.

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Rimaniamo tutti in attesa del “nuovo Bruce Lee” proveniente dall’Asia, e finora molti bravi atleti si sono attribuiti quella qualifica: peccato che l’aspetto migliore dei loro film… sia l’ottimo doppiaggio italiano.

L.
P.S.
Se simili resoconti vi interessano, vi invito a venire a trovarmi anche sul mio blog Il Zinefilo: viaggi nel cinema di serie Z.

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