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Gli Aristogatti, “note” sulla versione italiana

 

Prendo lo spunto delle feste appena trascorse – a proposito, tanti auguri! – e mi sostituisco ad Evit, l’autore del blog, per parlare di un film Disney tanto caro a noi appassionati del Topo, uno di quelli, per intenderci, della vecchia collana dei classici in VHS che mi auguro abbiate visto anche voi fino alla nausea: sto parlando de’ Gli aristogatti (The Aristocats, 1970) di Wolfgang Reitherman e del suo adattamento italiano.

Antefatto sulla canzone di apertura

Durante la messa in onda della sera di San Silvestro, il nostro caro Evit si ricorda di non aver mai visto prima questo classico d’animazione (sull’animazione Disney è – per sua stessa ammissione -scarso, per questo mi tiene a portata di mano) e mi sveglia dal torpore del cotechino facendomi notare come la canzone d’inizio del film sia in lingua inglese. Ma negli anni ‘70 non le cantavano in italiano? – mi domanda – Si tratta del solito parto di sconsiderate edizioni home video moderne dove si perdono le canzoni italiane del maestro Pietro Carapellucci?

Sebbene tali dubbi siano solitamente più che legittimi, questa volta bisogna correggere la mira leggermente e tornare indietro. Siediti orsù, che ti racconto una storia di gatti jazzisti, scimmie, cantanti, pittori e compositori…

L’adattamento italiano e il doppiaggio di Gli aristogatti

Maurice Chevalier e la pensione interrotta

Chevalier era un cantante e attore francese che ebbe un bel successo in Europa e negli Stati Uniti nella prima metà del ventesimo secolo. Interpretò numerosi film musicali entrando di diritto, paglietta in testa e accento francese, nella cultura popolare americana. In Monkey Business (1931) i fratelli Marx si spacciavano per lui dopo avergli rubato un documento; due anni dopo appare una sua caricatura a introdurre, cantando, Topolino in Mickey’s Gala Premier insieme agli stessi Marx e tanti altri attori Hollywoodiani; l’eco della sua fama si sente ancora agli inizi degli anni ‘80 in La pazza storia del mondo (1981) di Mel Brooks nel quale i personaggi del segmento sulla rivoluzione francese, in una delle tante battute meta-linguistiche del film, lamentano con accento “franscioso” che:

– Siamo talmente poveri che hélas non abbiamo neanche una lingua! Sentite che stupido accento!
– Ha ragione! Ha ragione! Parliamo tutti come Maurice Chevalier!! Hon Hon Hon!!”

Rimanendo sempre in campo Disney, il personaggio di Lumiére nel La bella e la bestia degli anni ’90 è un chiaro omaggio a lui.

Insomma il cantante con la paglietta in testa era il primissimo nome che sarebbe venuto in mente a un americano sul finire degli anni ‘60 se gli avessimo chiesto di nominare un famoso intrattenitore francese. Nella stessa epoca in Italia, alla stessa domanda, magari avreste avuto come risposta Charles Trenet, Aznavour oppure ancora Yves Montand… che però era di Monsummano Terme.
Proprio al famoso Chevalier i fratelli Sherman, compositori storici di Walt Disney, chiedono di prendersi una piccola pausa dal pensionamento per cantare il tema di un film animato che parla di alcuni gatti parigini canterini!

Non che Chevalier fosse sconosciuto alla famiglia Disney visto che proprio nel 1967 (quando Gli aristogatti era già in produzione) uscì uno dei tanti mezzi flop della Disney con attori in carne e ossa, Scimmie, tornatevene a casa! (Monkeys, Go Home), che aveva Chevalier proprio come protagonista. Assicuratogli che non si trattasse di un altro film con le scimmie, Chevalier accettò di prendersi una piccola pausa dalla pensione per registrare la canzone “Les Aristochats”, sia in francese che in inglese “francioso”.

Ora, evidentemente il contratto con Disney prevedeva che cantasse solo quelle due versioni (e chiedergliene di più suppongo sarebbe stato eccessivo visto come si è sforzato per decenni di onorata carriera a cantare in inglese con quel suo forte accento) perché le altre versioni della canzone nelle altre lingue di cui abbiamo testimonianza non sono cantate da lui. Quella tedesca infatti è cantata da un certo Paul Kuhn, cantante e pianista evidentemente molto noto in patria. Più di Chevalier? Forse. Fatto sta che in Germania la canzone ha pure il suo “credit” sotto al titolo del film. Nella versione italiana c’è scritto invece “La canzone dei titoli è cantata da MAURICE CHEVALIER” quindi si presume che ci fosse del prestigio associato al suo nome anche nel Bel Paese, sicché qualunque sostituzione con un cantante italiano (in un film così legato a Parigi, poi!) sarebbe stata fuori luogo.

Maurice Chevalier citato nei titoli localizzati in italiano

La versione italiana, dunque ha sì i titoli localizzati in italiano con i nomi dei doppiatori a grandi caratteri, ma la canzone è la versione francese cantata da Chevalier. Dunque per tornare alla domanda che mi faceva Evit, “hanno mandato in onda la sequenza sbagliata?”, sì, ma non per il motivo che credi: la canzone nella versione cinematografica italiana è sempre stata in francese e se vi capitasse di sentire una versione cantata in inglese con accento “francioso” (come quella che passa in TV) vuol dire che vi trovate davanti alle solite versioni rivedute e corrette dalla Disney.

Versione tedesca dei titoli di apertura dove viene nominato Paul Kuhn

Vogliamo fare jazz” o “esser gatti”? Una questione di intenzioni.

Ad opera del classico duo Maldesi-De Leonardis, l’adattamento italiano presenta alcune particolarità forse inattese per l’orecchio d’oggi.

Salta immediatamente all’orecchio la presenza di dialetti italiani, in particolare su uno dei protagonisti del film, il gatto randagio Romeo, “er mejo der Colosseo”. Il nome e il nomignolo di “Thomas O’Malley “the swinging cat of the alley” (così descritto nella locandina statunitense) viene adattato in italiano come era tradizione dell’epoca per tutti i personaggi Disney… e non erano vezzi artistici dei direttori di doppiaggio italiani bensì la politica che la Disney applicava in tutto il mondo, ove necessario.

In Italia la rima O’Malley/alley viene resa con Romeo/Colosseo, ma non finisce qui! Quel “catdi alley cat, come viene poi chiamato nel film (alley cat vuol dire gatto randagio), dovrebbe essere scritto tra virgolette così come tanti altri termini “felini” presenti nella pellicola perché l’intero film gioca molto con il gergo da jazzisti dove “cat” definisce un appassionato di musica jazz (sia egli musicista o semplice fruitore) che spesso si riconosce in alcuni dei seguenti tratti caratteristici: parla in gergo jazz, fa uso di cannabis, ha un atteggiamento rilassato, un humor sarcastico, è povero per scelta ed ha una condotta sessuale più libertina.

La cannabis dei “cat” (o “hepcat” o “hipcat”) non è presente nel cartone perché siamo sempre nel regno della Disney ma per tutto il resto Romeo/Thomas è chiaramente quello che in gergo jazzistico (poi ereditato, insieme a tanti altri termini, dai beatnik di qualche tempo dopo) definiremmo un “cool cat”, che non vuol dire letteralmente “gatto ganzo” bensì un “tipo” ganzo o, più appropriatamente, “un tipo jazz”.

gatti jazz, o meglio, tipi jazz

Ed è proprio un jazzman che gli dà la voce in inglese, Phil Harris, già Baloo ne’ Il libro della giungla e in seguito Little John in Robin Hood, che qui come negli altri film interpreta un po’ sé stesso, e il personaggio è quello del “cool cat”, il tipo “swing”, con un orecchio al ritmo (ricordate Baloo?) e un occhio alle “pupe”, che parla con i termini dei neri d’America poi entrati praticamente nel linguaggio di tutti: cool, hip, groovy, chick, square e cat sono solo alcuni di questi (a voi il gusto di ritrovarli nelle canzoni del film).

Qui sta la simpatia di questo classico dell’animazione, approfittare del gergo swing con riferimenti “felini” e riproporlo in un film dove troviamo dei gatti jazzisti, si parla di gatti intendendo il jazz. Ecco quindi il senso di “Everybody wants to be a cat” che non è affatto tradito nella canzone italiana: “Tutti quanti voglion fare il jazz”. Il rispetto delle intenzioni viene anteposto alla traduzione letterale, come la Disney stessa ha sempre professato in quei decenni.

Romeo, er mejo der Colosseo

Abbiamo visto che il randagio irlandese diventa un randagio italiano, più specificatamente romano e l’origine viene giustificata anche all’interno della sua canzone interpretata dall’attore Renzo Montagnani:

“Pe’ arivacce qui da Roma ho fatto l’autostop
e ‘n Francia è già m’ber pezzo che ce sto…
Ma pure da emigrato, mica so cambiato: io so’ Romeo, er mejo der Colosseo!”

Rimane una sola domanda: perché proprio Roma? Qui entriamo nel regno delle supposizioni, le mie.

Ci vedo una eco di cinema italiano, il personaggio ricorda vagamente quello del pappagallo romano, penso ai protagonisti di Poveri ma belli, o il Gassmann di I soliti ignoti, il classico giovanotto con le mani in tasca che racconta una barzelletta alla ragazza di turno e la conquista coi suoi modi magari rozzi, ignoranti, ma spesso sinceri. Un carattere che in fondo viene dalla vita reale e che ha trovato posto nell’immaginario collettivo/culturale italiano.

Un parallelo più che accettabile per il nostro “cool cat” irlandese giramondo che invece non avrebbe corrispettivi culturalmente comprensibili (un conquistatore irlandese non ha basi in Italia). Quel “er mejo” può essere dunque una trasposizione di quel “cat” (spiegato prima) di “alley cat”.
Inoltre il Colosseo è noto per essere casa di numerosi gatti randagi, quindi quale miglior provenienza per un gattone piacione? Romeo è il nome dell’innamorato per antonomasia, si adatta bene alla storia di due gatti che si conoscono e si innamorano e, per inciso, il nome Thomas non è scelto a caso, visto che tomcat (il gatto Thomas -> Thomas the cat -> tom-cat… l’avevate capita?) è il nomignolo che si dà in inglese al gatto maschio ma che in gergo significa anche, provate a indovinare… “sciupafemmine”.

Romeo, il gatto “pappagallo”.

Doveva essere proprio romano? Non poteva essere semplicemente un gatto piacione doppiato “normalmente”? Potremmo rivolgere la stessa domanda all’originale, doveva essere proprio un gatto con cognome irlandese che parla come l’americano Phil Harris?

La mia è una contro-domanda volutamente provocatoria perché se parliamo di accenti, da questo punto di vista la versione originale ha anche meno senso. Perché mai, difatti, Duchessa in lingua originale dovrebbe parlare con un accento ungherese se in teoria sono tutti parigini o in generale francesi? Semplicemente perché la doppiava Eva Gabor e lei parlava così. Per gli americani il discorso finisce qui (ma ci ritorneremo).

Quei cani dei milanesi!

Un altro dialetto presente nel film è quello milanese con cui parlano i cani di campagna Napoleone e Lafayette ed è probabile che si tratti di una scelta presa (rimanendo nell’ambito delle supposizioni) per assonanza. Ascoltando le voci americane infatti non è del tutto strampalato riconoscerci suoni e vocalità del dialetto meneghino.

Lafayette e Napoleone nella nebbia padana

Le voci in questione, nella versione originale, sono fornite da Pat Buttram (che poco dopo ritroveremo come Sceriffo di Nottingham in Robin Hood) e George Lindsey (anche lui tornerà in Robin Hood nel ruolo di uno degli avvoltoi) e le loro caratterizzazioni sono una continuazione dei ruoli che li hanno resi popolari in America.
Il primo noto per il ruolo di Mr. Haney nel telefilm La fattoria dei giorni felici (dove ritroviamo Eva Gabor), il secondo noto per avere interpretato Goober, il cugino scemo nella serie The Andy Griffith Show (mai arrivato in Italia). Entrambi attori originari dell’Alabama, e quelli di voi che hanno qualche nozione del panorama statunitense sapranno già che è uno degli stati del sud dell’unione, orgogliosa patria di contadini, zotici, incesto, Forrest Gump, ma sopratutto di gente che lavora sodo. L’accento dell’Alabama, scherzi a parte, è da sempre percepito dai parlanti inglese come un accento “incolto”. Non a caso è anche il modo di parlare “da cowboy”.

Trovare un corrispettivo italiano per l’accento incolto sarebbe stato di cattivo gusto per qualsiasi regione che si fosse sentita rappresentare in tal maniera, per questo (e qui siamo sempre nel regno delle supposizioni) si è puntato alla città d’Italia meno incolta per antonomasia, Milano. Il milanese su due zotici campagnoli fa ridere per contrasto e non offende nessuno… ma queste sono soltanto altre supposizioni, probabilmente era solo una questione di assonanza tra milanese e alabamanese, come detto prima. Del resto esisteranno anche Milanesi zotici, no? Chiedete al ragazzo di campagna.

Dite che ha comunque poco senso far parlare i cani della campagna parigina come dei milanesi? È una domanda tanto lecita quanto l’idea di gatti che parlano e suonano il jazz.

“Gli aristogatti” secondo i puristi

Diciamocelo, in originale abbiamo il personaggio di Duchessa che parla con un accento ungherese semplicemente perché la Disney aveva assegnato tale ruolo a Eva Gabor, la quale avrebbe fornito al personaggio una dose di eleganza e, azzarderei, sensualità! Perché la sua voce era popolarmente associata a tali attributi. Come dice anche la linguista Rosina Lippi-Green nel suo English with an Accent: Language, Ideology and Discrimination in the United States:

“la Disney probabilmente sperava che il pubblico associasse il personaggio [di Duchessa] con l’immagine pubblica dell’attrice, scavalcando qualsiasi considerazione logica”

e sebbene all’epoca un critico poco perspicace (miope, direi io) fece notare proprio questa incongruenza logica della gatta parigina che parla con accento ungherese, possiamo dire che il resto del mondo anglosassone abbia accettato da subito l’associazione attrice-personaggio senza soffermarsi sulla coerenza, così come hanno accettato che i personaggi di Schwarzenegger possano parlare con un forte accento austriaco pur passando da eroi americani con nomi quali John Kimble, Howard Langston, Ben Richards e John Matrix. È il classico caso del personaggio definito dagli americani come “bigger than life”, il sopra le righe che per qualche motivo funziona lo stesso.

Mettetevi dunque nei panni del pubblico americano adulto che portava i figli al cinema a vedere The Aristocats e sul poster del film vedeva nomi come Eva Gabor, Phil Harris, Pat Buttram e George Lindsey, tutti attori (e voci) a loro stranoti, sapevano già cosa aspettarsi. Nessuno si domanda quindi perché Duchessa abbia un accento ungherese o perché i cani francesi parlino come dei bifolchi dell’Alabama.
Inutile dire che questo discorso vale per qualunque altro film animato dove recitano voci note al pubblico USA.

Di tutti i casi storici in cui viene usato il dialetto nel doppiaggio questo è di sicuro uno dei film che più si presta a simili scelte. La linea editoriale della Disney di quegli anni era trovare un’equivalenza e la scelta degli adattatori italiani ha semplicemente seguito tale politica. Che vi faccia storcere il naso ora, da adulti, nel 21° secolo è lecito, ma non ci venite a dire che in originale era migliore o più sensato. Perché non lo è mai stato.

“Gli Aristogatti” secondo i puristi

Nomi originali e nomi adattati

Sempre seguendo la politica Disney, anche i nomi di altri personaggi animali sono “adattati” per la cultura italiana dell’epoca. Prima di, permettetemi di inventare un modo di dire, “lamentarsene Wikipedia alla mano” bisognerebbe forse considerare il contesto storico, cosa che facciamo sempre qui a Doppiaggi italioti.

Passiamo dunque in rassegna i personaggi con nomi alterati per la versione italiana:

Matisse, Minou e Bizet

 

bozze preliminari

Matisse vs. Matisse

 

Soltanto i nomi degli animali sono stati adattati. Trattamento diverso per personaggi umani come il maggiordomo Edgar, la padrona di casa Madame Adelaide Bonfamille ed il notaio George Hautecourt a cui sono riservati una parvenza di realismo, contestualmente alla città in cui vivono.
È palese che in queste scelte ci sia una coerenza interna, il cambiamento dei nomi o la loro italianizzazione non avviene a caso ma è riservato agli animali parlanti, protagonisti della vicenda. La parvenza di realismo data agli umani del film non è una mera supposizione, se fate caso alle scene in cui gatti e umani appaiono insieme è possibile notare che i gatti sono disegnati in modo leggermente meno cartonesco, meno antropomorfo.

L’adattamento italiano (e il doppiaggio) semplicemente si adegua alla visione Disney. Quindi buona visione.

Se vedemio, tigri.


LETTURE CONSIGLIATE (tutte in inglese purtroppo)

From the US to Rome passing through Paris, accents and dialects in The Aristocats and its Italian dubbed version della Prof.ssa Silvia Bruti (Università di Pisa), un articolo fondamentale pubblicato sulla rivista Intralinea On-Line Translation Journal, 2009.

Jive Talkin’: The Origins of Cool Dudes, Groovy Chicks and Hip Cats, articolo breve che esplora l’origine e il significato di alcuni dei termini del gergo jazzistico, molti dei quali oggi comunemente usati in America. Di Bill Demain, 2012.

English with an Accent: Language, Ideology and Discrimination in the United States, della linguista americana Rosina Lippi-Green, 2011. Dall’estratto che ho letto on-line sembra davvero un libro fenomenale. Costicchia un po’, un bel po’, ma c’è anche una versione kindle leggermente meno costosa.

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