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CHIAMAMI DOLEMITE, UOMO! (Dolemite is my name, 2019)

Eddie Murphy in Dolemite is my name che mostra un disco di Rudy Ray Moore e dice metti questo disco, uomo

È fatta! Netflix è riuscita nell’impresa, quella di riportare Eddie Murphy ai fasti di almeno 20-25 anni fa, quando non faceva solo commedie leggere per la famiglia. “Dolemite is my name” è infatti il primo film di Murphy in vent’anni a meritarsi una classificazione “R” dalla MPAA, ossia “restricted” (minori solo se accompagnati). L’ultimo degno di tale lettera era stato “Life” nel 1999.

A Netflix è stato sufficiente offrire all’attore carta bianca e spazio, e il nostro è riuscito a realizzare un progetto che aveva in testa da molto, molto tempo. Una biografia in stile scanzonato e spiritoso di uno dei suoi idoli della comicità, Rudy Ray Moore.
Quello di Moore è un nome che in Italia non dice nulla: a differenza di Richard Pryor (altra grossa influenza per Eddie Murphy) non è mai stato protagonista in film noti al pubblico italico (è già di nicchia negli USA) né ha avuto particine in cose come “Superman 3” tali da portare un comico nero a un numero ancora più grande di spettatori.
Rudy Ray Moore nasce figlio di un contadino ma ben presto è chiaro che la vita nello spettacolo è roba per lui. Le ha fatte tutte, da ballerino a cantante R&B a cabarettista e infine star del cinema nero della blaxploitation, nonché influenza fondamentale per tanti rapper della prima ora. I suoi film a basso budget ma ad alto contenuto di divertimento sono diventati dei cult già negli anni ’80 con le prime VHS.

Una vita colorita e colorata, una divertente ascesa alla vetta che Eddie Murphy ha voluto raccontare prendendosi qualche piccola libertà ma rimanendo rispettoso del suo idolo. Ecco dunque “Dolemite is my name”, film ispirato ad una storia vera che vede lo stesso Murphy nei panni di Moore, affiancato da talenti come Wesley Snipes e Keegan-Michael Key. Il film racconta i tentativi di Rudy Ray Moore di pubblicare i suoi album comici molto spinti, nonché la travagliata produzione e il debutto nelle sale della sua prima pellicola “Dolemite” (1975) con protagonista il pappone omonimo che sarà la star di una manciata di altre simili avventure negli anni a venire.

Il debutto in lingua italiana del film arriva in contemporanea mondiale, come avviene per queste produzioni Netflix, ed è a cura della 3Cycle di Marco Guadagno. Il titolo per il pubblico italiano rimane quello originale (in inglese), anche se non è stato così per tutti i paesi (rimane in inglese in Francia mentre per la Spagna Yo soy Dolemite e in brasile Meu Nome é Dolemite).

Locandina brasiliana di “Dolemite is my name”

Una piccola premessa: la persona che scrive questo pezzo [se vi è sfuggita la firma sotto al titolo di questo articolo, non è quella di Evit] guarda zero film contemporanei, semplicemente per poco tempo e/o interesse. Il risultato purtroppo è la scarsa preparazione allo stile recitativo di oggi ma soprattutto al tipo di adattamento che si fa di questi tempi, e non essendovi avvezzo c’è da mettere in conto un minimo di shock culturale nell’entrare in contatto con certi doppiaggi quando le mie sensibilità sono praticamente ferme agli anni ‘90. Riguardo Eddie Murphy nello specifico, l’ultima volta che vidi un suo film risale al 2003 con “L’asilo dei papà”, ovvero 16 anni fa, un’era geologica per il mondo del cinema doppiato. Il ritorno alle scene di Eddie, di nuovo sorridente ed in piena forma, ha risvegliato una curiosità che “Tower Heist” (2011) non era riuscito a destare. Rimaneva un’unica incognita però: l’adattamento italiano.

Quelle frasi non doppiate che distraggono

Come è stato detto fino allo svenimento, il doppiaggio è un artificio necessario in cui la pratica dell’adattamento ci permette di fruire di un film straniero camminando una sottile linea tra il letterale e l’accessibile, restando sempre consci che spezzare l’illusione è maledettamente semplice. Frasi come “parli la mia lingua?” (Pulp Fiction, 1994) ad alcuni potrebbero sembrare goffe o forzate, ma sono di gran lunga una migliore alternativa al letterale “parli inglese?” che demolirebbe completamente l’illusione del guardare un film in cui gli attori parlano la nostra lingua.

Se stiamo guardando un film originariamente in inglese ma doppiato in italiano e sentiamo una frase lasciata intatta dalla colonna sonora originale, a meno che non sia una voce alla radio completamente nello sfondo e del tutto slegata dalla trama, il risultato sarà straniante. Perché, ci si può domandare, quella voce è rimasta non doppiata? Peggio ancora se i personaggi doppiati in italiano reagiscono ad essa! Qualunque sia la ragione e per quanto buona essa sia, il risultato purtroppo è sempre lo stesso: abbiamo potenzialmente perso la concentrazione, ci siamo distratti, ci siamo ricordati che stiamo guardando un film! È un po’ come se al cinema ci passasse davanti qualcuno all’improvviso, avrà avuto i suoi buoni motivi per alzarsi ma ha distolto la nostra attenzione dallo schermo e dalla storia.

Questo in “Dolemite is my name” avviene due volte: prendiamo in esame la prima.

Il disco comico di Redd Foxx, beato chi ci capisce qualcosa

All’inizio del film Rudy e il suo collega del negozio di dischi ascoltano un album di Redd Foxx, un comico noto per monologhi audaci che recitava nei night club per soli neri. Nella versione italiana l’audio del disco rimane in lingua originale, sottotitolato. I sottotitoli sono lontani da quello che dice Foxx, e bisogna qui ammettere che ciò che sentiamo nel film si tratta di uno sketch (intitolato “All’ippodromo”) non semplice da rendere in un’altra lingua senza stravolgerlo, basato com’è su giochi di parole e doppi sensi piuttosto spinti per l’epoca. Appurata la difficoltà del compito, il fatto che subito dopo uno dei personaggi doppiati ripeta una parola dello sketch, ed essa non coincida affatto con quello che indicavano i sottotitoli… è spiazzante.

“Signore e signori, vorrei riportarvi in pista un’ultima volta, ecco un ultimo struscio. Si sono strusciati addosso ad Anna. Non è la prima volta che si strusciano, ma la scorsa è stata un peccato perché avrei voluto vedere il suo culo contro la mia Asta.”

Così recitano i sottotitoli italiani nella scena in questione. Da qui il film riprende doppiato con questo scambio di battute:

– Quanto mi fa ridere…
– Non fa ridere, sono solo un mucchio di parolacce.
– Non sono parolacce, è… brillante, non so, è… ecco: “Il mio uccello” non è il suo uccello, “Il mio uccello” in realtà è il suo cavallo!

Ci avete capito qualcosa? Dov’erano le parolacce? Cosa c’era da ridere in quella registrazione di Redd Foxx? Allo spettatore non è stato dato alcun contesto, né sul comico che parla, né sul disco che stanno ascoltando, questo perché in lingua originale, anche non conoscendo Redd Foxx, si presume che lo spettatore capisca i giochi di parole al volo. Ed eccovi il contesto:

Lo sketch “All’ippodromo” gioca su doppi sensi al limite del legale in una radiocronaca di una corsa di cavalli dai nomi molto ambigui, fino a chiamarne uno “My Dick”, che in un ambito innocente potrebbe essere “Il mio Riccardo”, ma affiancato a verbi come “spingere” e “allungarsi” è chiaramente da intendersi “Il mio cazzo”.

Well ladies and gentlemen I’d like to take you to the race track, one more time… And here’s the late scratch ladies and gentlemen, “Anna’s Ass” has been scratched! And it’s not the first time “Anna’s Ass” has been scratched, this last one was a shame because I’d have loved seeing “Anna’s Ass” up against “My Dick” today!

Questo il pezzo che sentiamo nel film, lo sketch intero è un po’ più lungo ed è molto carino. Ma analizziamo ciò che nel film doppiato sentiamo solo in inglese e di cui proporrò io una traduzione tra parentesi:

Well, ladies and gentlemen, I’d like to take you to the race track, one more time

(Signore e signori rieccoci in pista ancora una volta)

And here’s the late scratch

(Ci arrivano adesso le informazioni sull’ultimo scarto.)
“Scratch” in ippica è semplicemente un cavallo che avrebbe dovuto correre ma è stato, appunto, scartato. “Scratch” nell’inglese comune è anche una grattata (di culo? di palle?). E cosa arriva dopo…?

“Anna’s Ass” has been scratched!

Ed ecco un perfetto esempio di double entendre o doppio senso. Se la intendiamo in un contesto ippico trattasi di un cavallo di nome “Anna’s Ass”, ovvero “Il ciuco di Anna”, che è stato scartato. Ma il doppio senso volgare è che “Il culo di Anna” è stato grattato.

This last one was a shame because I’d have loved seeing “Anna’s Ass” up against “My Dick” today!

Ed è un peccato che sia stato scartato/grattato anche questa volta perché – dice il personaggio del commentatore della corsa – avrei voluto vedere “Anna’s Ass” contro “My Dick” (cavallo che era stato già introdotto prima, nel disco, ma noi nel film non lo sentiamo), ovvero veder gareggiare “Il ciuco di Anna” e “Il mio Riccardo”… o vedere “il culo di Anna” contro “il mio cazzo”.

Vedete bene che è praticamente quasi impossibile rendere questo pezzo senza riscriverlo daccapo in italiano e di sana pianta. I sottotitoli forniti da Netflix hanno provato a dare un senso a modo loro, senza che però sia poi del tutto chiaro perché chi sta ascoltando il disco ride come un matto, per poi fare riferimento a un fantomatico “Il mio uccello” che nei sottotitoli non c’era.

Ribadiamo ancora che il pubblico americano che vede questo film ha buone chance di conoscere già quel pezzo, e ad ogni modo in inglese quei giochi di parole funzionano e quindi non hanno bisogno di troppe spiegazioni. Sono immediati.

Il fatto che chi lavora ai sottotitoli non comunichi con chi lavora al doppiaggio è evidente ed è da accettare come dato di fatto in questa era di lavoro a camere stagne, tempi ristretti e di distributori stranieri terrorizzati da possibili fuoriuscite “pirata” di materiale. I direttori di doppiaggio e i doppiatori stessi commentano sempre più frequentemente con rammarico di come non riescano a vedere il film, a volte, finché non esce nei cinema, visto che molti distributori li fanno lavorare con copie “censurate” in cui sono visibili solo le bocche dei personaggi. Chi sottotitola poi solitamente ne sa anche meno oppure non gli viene dato abbastanza tempo per saperne (e così si finisce per rimpiangere i “fansub” amatoriali).

Accettando questa amara realtà, bisogna guardare in faccia il risultato che ci ritroviamo nella versione italiana del film: avere parti che rimangono in inglese non funziona.

Per quanto possa sembrare un dettaglio insignificante (abbiamo appena disquisito di una scena che dura circa 20 secondi) è un momento importante per la trama perché i personaggi presenti in quella scena vi fanno riferimento, è una fonte di ispirazione per il protagonista, forse il motore del film… e in italiano lascia semplicemente perplessi.

Per fare una parentesi e allontanarci un attimo dal film che stiamo analizzando, non è che questa pratica di lasciare parte dei dialoghi originali inglesi sia del tutto novella. Se andate a vedere “Contact” del 1997 con Jodie Foster, lì ci sono un paio di scene in cui compare l’allora presidente Bill Clinton (inserito nel film in maniera anche un po’ truffaldina) che nel doppiaggio italiano mantiene il suo audio in inglese. Perché? Presumibilmente ha a che fare col fatto che i suoi siano filmati di repertorio presi fuori contesto, e forse vuole evidenziare anche nella versione italiana che, sì, stiamo vedendo il presidente “vero”, autentico, ed è la sua voce che sentiamo. Scene accompagnate da sottotitoli, d’accordo. Resta comunque un momento bizzarro per lo spettatore italiano.

L’Examiner diventa un Esaminatore (e Walter Matthau dice “cazzo”)

Tornando a “Dolemite is my name”, veniamo all’altro esempio di immersione falsata, e cioè una scena in cui i protagonisti, tutti neri, vanno al cinema a vedere “Prima pagina” (The Front Page, 1974) di Billy Wilder con Matthau e Lemmon, per svagarsi un po’. Loro malgrado si annoiano a morte perché è un film “bianco” realizzato per un pubblico “bianco” e uno di loro si lamenta appunto di come non ci siano “fratelli” sullo schermo.

Nella versione italiana di “Dolemite is my name” i neri vanno al cinema a vedere un film completamente in inglese, e l’effetto bizzarro che ne deriva è quasi l’impressione che siano proprio disorientati dalla lingua straniera e non riescano a seguire la storia!

“Prima pagina” uscì nei cinema italiani nel 1975 e fu doppiato dalle voci della C.D. – Cooperativa Doppiatori. Jack Lemmon ha la sua voce ufficiale Giuseppe Rinaldi; Walter Matthau parla invece con la voce di Ferruccio Amendola, al posto del più consueto Renato Turi, insolita ma funzionante scelta.
Il doppiaggio di questo film non è perduto ma per ragioni che possiamo immaginare (costi, diritti, eccetera) non è stato possibile risentirlo in questa occasione, né abbiamo avuto l’alternativa, cioè che fosse ridoppiato ad hoc come accade a volte.

Ci siamo dovuti accontentare invece di sottotitoli in italiano, che non rispecchiano i dialoghi del suo doppiaggio del 1975 (sebbene siano in un piccolo punto più fedeli), e introducono alcuni errori:

– Non parli dell’Esaminatore? Non ci danno crediti?
– È nel secondo paragrafo.
– E chi mai leggerà il secondo paragrafo? Sono 15 anni che cerco di insegnarti a scrivere a comando! Devo fare tutto io? Trovare la storia e scriverla?
– Senti, Sapientone, è meglio quel che mi esce dal cu… dal naso, di quello che scrivi tu.
– Che dilettante del cazzo. Forse Philadelphia fa per te. Puoi scrivere battute per gli spot!
– Ah sì? Chi è che ha scritto Le ultime confessioni di Banducci Tre-dita?

E da qui in poi ritorna il doppiato. Ma chi è questo Esaminatore? E che crediti dà? Ed è mai possibile che in un film “pulito” del 1974 con Walter Matthau qualcuno dica “del cazzo”? Possibile che chi traduce oggi conosca solo “cazzo”, “merda” e “fottuto” a cui ricondurre il 99% delle espressioni americane? Sfumature, eufemismi, questi sconosciuti.
Vediamo com’era lo stesso dialogo tradotto nel 1975:

– Ferma! Non hai nominato l’Examiner! E non è tutto merito nostro?
– Oh sì questo l’ho messo nel secondo paragrafo.
– Sono 15 anni che cerco di insegnarti come si scrive un articolo, devo sempre fare tutto da solo? Trovare la notizia, e dopo averla trovata scrivere anche l’articolo, forse?
– Senti, testone, anche se io scrivo un articolo col sedere, scusa cara, è meglio d’uno tuo!
Piccolo dilettante, forse il tuo posto è proprio Philadelphia, a scrivere slogan per le creme da barba!
– Ah, davvero?? E allora chi scrisse la confessione in punto di morte di Balducci, detto “Tre dita” ? Chi scrisse il diario di Roxy Hart? E dell’alluvione al Dayton? Persino il telegrafista si mise a piangere!

L’Esaminatore non era un misterioso professore universitario con crediti da elargire, ma come correttamente riportato nel doppiaggio d’epoca si parlava dell’Examiner, un giornale, la testata di Chicago per la quale i personaggi di “Prima pagina” lavorano!

Ora, non si può pretendere, come detto sopra, che le cose funzionino “come una volta”. Non si può pretendere nemmeno che gli incaricati ai sottotitoli su Netflix si vadano a cercare “Prima pagina” e leggano di che si tratta e cosa sia l’Examiner per scrivere 10 secondi di sottotitoli (o si può? Ditemi voi).
Ma comprese le possibili ragioni di queste ed altre scelte… tutto questo continua a non funzionare!

Non adattare “uomo”, uomo!

Parliamo adesso di una scelta nei dialoghi che potrà più facilmente saltare alle orecchie di chi segue il film, anche quelle meno attente, ovvero il fatto che Rudy, in italiano, chiami “uomo” praticamente chiunque, per tutto il film.

Una vera battuta del film.

 

In inglese è normale che un nero chiami altre persone “man”, e la cosa è nata in reazione a chi li chiamava “boy” in maniera autoritaria, quale che fosse la loro effettiva età, prima e dopo la schiavitù —e purtroppo è un comportamento che ancora oggi persiste seppur in piccola parte— in virtù di una presunta superiorità razziale. I neri americani hanno dunque reagito introducendo “man” nel loro linguaggio perché loro non sono dei “ragazzi”, subordinati, loro sono degli “uomini”!
Compresa questa premessa storica, si può intuire forse perché “man” sia stato lasciato come “uomo” nella versione italiana di questo film.

È italiano scorrevole? No, per niente. Risulta curioso che per tutto il film si senta questo “uomo” a destra e a manca usato come appellativo, qualunque sia il motivo che ha portato a tale scelta di adattamento.
Come regola generale (almeno secondo i metodi “di una volta”) un buon adattamento si vede quando si riesce a rispondere di sì alla domanda: diremmo così nella vita di tutti i giorni, in italiano?

Come si traduce “motherfuckers”? Dipende…

Questa domanda va posta anche e soprattutto quando si mette in ballo il turpiloquio, che l’adattamento di questo film tratta in maniera scostante: ci sono momenti in cui viene omesso, sono i punti in cui la sua presenza suonerebbe male in italiano. Questo è bene. Viceversa momenti in cui viene tradotto pedissequamente, e mai come nel caso dei dialoghi del protagonista del film che parla costantemente di “motherfuckers“, tutti traslati indifferentemente in “figli di puttana” fino ad arrivare a momenti di assoluta cacofonia.

Giusto, sì, che si voglia tenere il più possibile la volgarità del personaggio, perché questo attributo lo contraddistingue. Meno giusto invece che si metta in secondo piano la scorrevolezza della lingua, il cui suono non deve essere artificiale o artificioso ma deve sembrare il più possibile la voce italiana di una persona reale, per quanto stravagante possa essere il personaggio!

Nei primi secondi del film sentiamo queste parole, pronunciate dalla nuova voce di Eddie Murphy, Fabrizio Vidale:

È così, uomo, la gente mi adora! Ehi, tu metti questo e i figli di puttana cominciano a dimenarsi e a contorcersi. Quando suonavo questo disco dal vivo, i figli di puttana svenivano! Te li ritrovavi sul pavimento e ci voleva l’ambulanza per farli rimettere in piedi, okay? Anzi, quando suonavo questo chiamavano prima l’ospedale, e gli dicevano “C’è Rudy che suona stasera, tenetevi pronti a portare via i figli di puttana dal locale”.

Chi sono questi figli di puttana? Pensate che si riferisca a un gruppo specifico di persone che conosce, che sa essere letteralmente figli di buona donna o più semplicemente persone poco gradite?
No, “figli di puttana” qui è usato come equivalente della parola “motherfuckers” che, per quanto possa sembrare assurdo, non solo non vuol dire figli di puttana (questo si sapeva già, se ricordate dall’articolo di Evit su Die Hard, Maldesi lo aveva trasformato in “pezzi di merda” ad esempio, e in un altro sottolineava proprio l’impossibilità di una traduzione univoca della parolaccia americana) ma non è necessariamente un insulto in situazioni come questa!

Nel linguaggio afroamericano “mothafucka” è usato con disinvoltura per riferirsi a chiunque, in senso negativo e positivo. Qualunque giudizio di carattere è dato da altre cose, contesto, tono di voce… ma di per sé la parola “motherfucker” in questo frangente è praticamente appellativo neutro. Per fare un paragone forse un po’ azzardato si può scavare nella storia europea e rammentare come anticamente si chiamava “cristiano” chiunque, e la parola era usata come useremmo oggi “persona” o “essere umano” perché si riferiva ai battezzati. La cosa è sopravvissuta in parte in espressioni antiquate tipo “parlare come un cristiano” o addirittura rimane tale e quale a se stessa nel sud Italia, nella sua accezione originale.

Dunque ci sta che potremmo anche dire a un nostro amico “motherfucker, chill!” per dirgli di star calmo e non si offenderà perché non lo abbiamo chiamato — letteralmente — un fotti-madre.

Riporto il testo originale per riferimento:

I ain’t lyin’, man, people love me! Hey, if you play this song I guarantee you mothafuckas start hoppin’ and squirmin’. When I used to play this record live, mothafuckas would actually faint. They would faint on the floor, I had to call an ambulance to pick all these mothafuckas up, okay? Everytime I played, in fact they’d start calling the hospital in advance and tell them “Rudy gon be singin’ tonight, make sure you’re ready cause we finna be carryin’ mothafuckas out the club”.

Quelli di voi che conoscono un po’ di inglese noteranno che l’ambulanza non serviva per “farli rimettere in piedi”, come dice l’adattamento italiano del film, ma per “portarli via”… in barella (NdR: vedi che guai a tradurre “pick up” alla lettera?), e chi ha un po’ di familiarità col vernacolo dei neri americani riconoscerà che usano certe parole come “motherfucker” e “shit” come punteggiatura nonostante siano parolacce, in maniera analoga a come un siciliano usa la parola “minchia”, per esempio.

Vediamo una possibile alternativa all’adattamento sentito su Netflix, questa è una proposta:

Non ti prendo in giro, la gente mi adora! Se metti questo disco è matematico, qualunque stronzo salta e si dimena. Quando suonavo dal vivo questo pezzo, credimi, la gente sveniva. Finivano in terra e mi toccava chiamare l’ambulanza per portare via tutti quegli stronzi, chiaro? Anzi, ogni volta che suonavo, chiamavano in anticipo l’ospedale e dicevano “Stasera canta Rudy, preparatevi perché qui tra poco svuotiamo il locale”.

L’adattamento italiano di questo film invece sembra concentrato solo a rendere pari-pari molte di queste espressioni che in americano hanno senso, ma in italiano non diremmo mai. E quindi sentiamo frasi tipo “ma che è quella merda?” o “vanno pazzi per quella merda”.

Ecco un esempio di una frase riportata così com’è e che avrebbe forse giovato di un ritocchino. Se Wesley Snipes nel film, stizzito d’essere stato schizzato da una pozzanghera, dice…

“I’m brown sugar, I melt!”

…questa frase non va tradotta letteralmente con:

”Sono zucchero di canna, mi sciolgo!”

per quanto divertente sia recitata da Pino Insegno (bravissimo in quel ruolo). La ragione è che “brown sugar” è una espressione idiomatica legata agli afroamericani, vuol dire sì “zucchero di canna” ma vuol dire anche “donna nera molto attraente”. Nel caso vi chiedeste perché è detta da Wesley Snipes, nel film interpreta il regista D’Urville Martin, un personaggio un po’ eccentrico e quantomeno ambiguo (in tutti i sensi). Il fatto che sia un’espressione idiomatica dovrebbe dissuadere immediatamente dall’idea di tradurlo alla lettera, tra l’altro in italiano il concetto di “zucchero di canna” in quella battuta non è altrettanto immediato, la prima cosa che viene in mente dello zucchero non è il fatto che si sciolga ma che sia dolce; “caramello”, invece, è una parola molto più evocativa, immediatamente fa pensare a qualcosa del colore giusto, che in acqua si squaglia e che è anche possibile associare all’erotismo (di certo più dello zucchero di canna), sarebbe stata un’alternativa azzeccata per questa simpatica gag. Zucchero di canna è una traduzione, caramello è un adattamento. Per fortuna la battuta “Sono zucchero di canna, mi sciolgo!finisce per far ridere lo stesso grazie alla recitazione di Pino Insegno, quindi la noteranno in pochi.

A proposito, questo è il cast di doppiaggio di Dolemite is my name, con Fabrizio Vidale, Domitilla D’Amico, Pino Insegno, Roberto Gammino, Mauro Gravina, Massimo Bitossi, Francesco Cavuoto, Antonio Palumbo.

Dolemite molto piacere, fare il culo ai figli di puttana è il mio mestiere!

Sempre in tema di linguaggio e ancora una volta circoscritto al protagonista, ecco la frase ricorrente che dà il titolo al film:

“Dolemite is my name, and fuckin’ up mothafuckas is my game!”

Che viene resa letteralmente in

“Dolemite molto piacere, fare il culo ai figli di puttana è il mio mestiere!”

E per quanto si possa apprezzare il fatto che questa e altre frasi siano rimaste in rima, perché parte del personaggio, ancora una volta sembra valere questa equivalenza “motherfuckers” = “figli di puttana” che non funziona perché ignora, come già detto, l’uso indiscriminato che ne fanno i neri più sboccati con tanta disinvoltura.

Senza contare poi che come tanti altri omaggi, il fatto che Moore dica quella frase, data senza contesto e quasi come se fosse la catchphrase del personaggio, in realtà è un richiamo a una scena del suo film “Dolemite” in cui fa un discorso d’incoraggiamento alle sue ragazze. Qui la scena da cui origina la frase:

“Girls, we gonna give one of the damndest parties this city has ever seen! Queen Bee is gonna send out invitations to all of our friends and associates from all over the country. And I’m gonna let em know that Dolemite is back on the scene!
I’m gonna let ‘em know that Dolemite is my name and fucking up mothafuckas is my game!”

Che adattato potrebbe essere reso più o meno così:

“Ragazze, daremo una delle feste più toste che questa città abbia mai visto! Queen Bee manderà inviti a tutti i nostri amici e conoscenti in tutto il paese. E io dimostrerò loro che Dolemite è tornato in pista!
Dimostrerò loro che Dolemite è il mio nome e rompere il culo a tutti è il mio cognome!

Scelta che sacrifica a prima vista un po’ dei toni del linguaggio colorito, ma all’improvviso sembra già qualcosa che una persona vera potrebbe dire nella nostra lingua. L’idea nell’adattamento italiano di fare la rima molto piacere / il mio mestiere in sostituzione di my name / my game è indubbiamente buona ma non tiene conto del contesto perché quando Dolemite la dice non si sta presentando a degli sconosciuti, sta ribadendo chi è alle sue prostitute.

Il fatto che il nuovo film la usi a iosa come se fosse una catchphrase è una scelta degli sceneggiatori che tiene conto dei tanti appassionati del film originale: essi hanno sentito la frase in contesto, la riconoscono e magari pensano “ah, ecco la dice sul palcoscenico e poi la userà nel film!”. Sono chicche buttate lì per i fan che le sapranno apprezzare, come la comica scena di sesso in cui finisce per crollargli il soffitto in testa e che in realtà appartiene al seguito (The Human Tornado, 1976), o la scena in cui Rudy propone di inserire una possessione demoniaca nel copione ma rinuncia subito al pensiero di dover ripulire il vomito verde, e nondimeno aggiunge: “il demonio lo metteremo in un altro film” alludendo al film intitolato Petey Wheatstraw (1977) che produrrà qualche anno più tardi [nessuno di questi film è mai arrivato in Italia].

Adattare frasi ricorrenti ex novo è, giocoforza, un rischio perché se non si conosce l’argomento o un eventuale contesto pregresso si rischiano incomprensioni come questa. Poi mettiamoci in mezzo l’uso di un linguaggio forzato, come si è già detto, ed ecco una frase che risulta bizzarra ogni volta che la si sente.

Brodo di topi e chi se lo mangia

Rudy ha un particolare insulto per la gente che disprezza, e che utilizza più volte nel film: “rat soup-eatin’ mothafucka”, ed è anche questo preso direttamente dal suo film “Dolemite”, è praticamente la prima battuta che il personaggio omonimo pronuncia sullo schermo. Gli sceneggiatori di Dolemite is my name hanno scelto di fargliela ripetere più volte per far intendere che era la “sua” frase e che l’avesse inserita nel suo film perché era una cosa che diceva nella vita reale.

Nel doppiaggio italiano viene resa pedissequamente con “mangia brodo di topi” all’interno di discorsi o stringhe di epiteti anche abbastanza lunghi, con risultato non proprio ottimale.

“Stronzo mangia brodo di topi”

(in originale: “Rat soup-eatin’ mothafucka”.)

“Stronzo buono a nulla mangia brodo di topi cacasotto nato per sbaglio!”

(in originale: “No business-born, rat soup-eatin’, insecure mothafucka!”. Tra l’altro l’unico caso in cui mothafucka diventa stronzo invece di figlio di puttana, perché non c’è modo di farcelo entrare in una frase già così lunga)

E così via con un paio di variazioni simili. Il senso di quella battuta è il seguente: avendo Moore visto coi propri occhi cosa vuol dire fare la fame, l’essere tanto poveri e malmessi da accontentarsi (idealmente) di un brodo di topi! Un po’ classista forse come insulto da parte di uno che dal fango ci è venuto ma ahimè questi atteggiamenti sono quelli di chi ha una paura matta di tornarci, e per un uomo nero negli anni ‘70 la paura fa novanta. Il film sembra voler accennare che fosse il modo in cui il padre lo chiamava da bambino per sminuirlo e quindi Moore da grande riutilizzava questa frase con la stessa rabbia covata verso la sua figura paterna.

Che sia una cosa che dice solo lui nel film è stabilito, serve però un modo fluido e originale di renderlo in lingua italiana. Mangia-ratti? Mastica-ratti? Ciuccia-ratti? Qualunque sia la soluzione si potrà far meglio di questo “mangia-brodo-di-topi” detto ogni volta per intero. Alle volte girare attorno a un concetto è meglio dell’essere letterali a discapito della naturalezza.

Si scrive Moore, si pronuncia “Mor” ma diventa… Mur (?)

È a questo punto della discussione sull’adattamento italiano di “Dolemite is my name” che bisogna puntualizzare: il cognome del protagonista del film, Moore, fa rima con la parola inglese door, o con la parola italiana amor. Non si pronuncia “Muur” come invece sembrano essere convinti tutti i personaggi nella versione doppiata, incluso il diretto interessato.

Ora, errori di pronuncia sui nomi dei personaggi di un film non sono novità, esistono dalla preistoria del doppiaggio, e perfino in un film la cui versione italiana è tanto carina e ben fatta come quel “Prima pagina” sopracitato dove c’è un grosso errore su “Earl” pronunciato “Irl” (la pronuncia corretta è “Erl”). Ma, mentre potremmo passare con molta clemenza sugli errori del passato perché non tutti parlavano l’inglese una volta, né avevano a disposizione gli strumenti che abbiamo oggi, adesso siamo nel 2019: abbiamo tutti uno smartphone in mano al quale possiamo chiedere, volendo, anche come si pronuncia il nome di un personaggio davvero esistito, o tirar fuori in 0,38 secondi circa un migliaio di video su YouTube nel quale tale nome si sente chiaro come il canto del gallo al mattino.

Com’è che un doppiaggio che mira ad una fedeltà anche troppo alla lettera poi non si cura della pronuncia dei nomi e Moore (pronunciato Mor) può diventare arbitrariamente Muur? Strane scelte di doppiaggio per un film che mira ad essere biografico.

Ti ho pizzicato sul nome, eh?

 

La scimmia lingualunga

Il film inoltre accenna vagamente al concetto di “Signifyin’ Monkey” che è una figura della tradizione afroamericana dalla quale attinge a piene mani Rudy Ray Moore. Praticamente Moore ha preso una sorta di Pulcinella (per fare un altro paragone azzardato) e l’ha vestito con abiti moderni, facendolo suo.

Il termine è menzionato di sfuggita in una scena soltanto, nella quale i protagonisti, dopo aver sentito un barbone declamare dei versi volgari, ne hanno riconosciuto l’origine in delle rime popolari della loro tradizione orale: sono le rime di Dolemite e anche di “the Signifyin’ Monkey” (a breve vedremo che cos’è) e in italiano questa lista di personaggi viene resa con la frase “Dolemite, scimmia insensata”. Sembra che Dolemite sia definito “scimmia insensata”, ma sono personaggi distinti.

La leggenda della “Signifyin’ Monkey”

È un concetto legato al folklore dei neri americani che non sembra avere una traduzione in italiano, e se esiste è affogata in qualche polveroso tomo chissà dove. La storia di questa “signifyin’ monkey”, trasudata negli anni anche in brani musicali come “The Signifying Monkey” di Smokey Joe del 1955 (chicca, Smokey Joe era bianco!), racconta di una scimmietta che prende in giro il leone, re della foresta, dandogli a bere che l’elefante abbia sparlato di lui.
La scimmia dice al leone “ho saputo che c’è un tale che dice peste e corna di te e della tua famiglia” e il leone si arrabbia tanto che va a minacciare l’elefante, ma le prende di santa ragione. Tornato il giorno dopo tutto ammaccato, il leone subisce ancora le spiritosaggini della scimmietta impertinente che però, dopo averlo sfidato, non riesce a scappare e le prende a sua volta.

È una storia raccontata in tanti modi diversi e discendente da vere tradizioni africane. Alle orecchie di Rudy Ray Moore arrivò grazie ai senzatetto che per due spiccioli ripetevano queste filastrocche volgarissime piene di insulti in rima tanto originali quanto elaborati.

La scimmia “insensata” è una traduzione corretta?

La scimmietta del racconto viene dunque definita “insensata” dall’adattamento italiano. Alla luce di tutto questo, “Signifyin’” potrebbe forse significare più qualcosa come “spiritosa”, “spaccona”, “furba” o addirittura “lingualunga” che sembra racchiudere tutte queste sfumature. Dando per certo che in Italia nessuno ha familiarità con questa figura della Signifyin’ Monkey, quanto sarebbe stato comunque più significativo o almeno evocativo fargli dire “Dolemite, la scimmia lingualunga”! È un nome che ha del fiabesco, capiamo che fanno riferimento ad una qualche leggenda e non che stiano dando della scimmia a questo Dolemite.

Aggiungiamo anche che sul forum del sito wordreference.com, interessante risorsa linguistica, degli utenti spagnoli che si chiedevano la stessa cosa sono arrivati a simile conclusione:

US informal (among black Americans) exchange boasts or insults as a game or ritual.

Me inclinaría por los dos que provees: “choteo” / “vacilón“.

da Wordreference.com

Cioè che prende in giro / spiritosa. Non insensata.

Altre cose lasciate così come sono

La grande, irreprensibile Sandy Duncan…

Nella già menzionata scena in cui il gruppo di amici di Rudy va al cinema a vedere “Prima pagina”, i ragazzi sono perplessi da quello che vedono perché il film è lontano dalle loro sensibilità e si mettono a sussurrare. Finché dalla fila davanti una ragazza con i capelli biondi si gira e fa “ssshhhhh”, infastidita. Al che Jimmy Linch, interpellato, risponde con un “Ehi, non fare sshh a me… Sandy Duncan!

Sshhh!

 

E chi diamine è Sandy Duncan?

Beh, Sandy Duncan era un’attrice all’epoca nota per la sitcom “The Sandy Duncan Show” (già “Funny Face”) andata in onda sulla CBS dal ‘71 al ‘72. La scelta di questo nome è emblematica del ragazzo nero di inizi anni ‘70 che percepisce uno show TV come quello della Duncan come “roba per bianchi”, blanda e insipida, e quindi il nome dell’attrice protagonista ne diventa sinonimo. Non importa nemmeno che la ragazza a cui è rivolto “l’insulto” non assomigli lontanamente a Sandy Ducan.

Per noi, pubblico italiano, è un nome che ha rilevanza? No. Non quanto in America, dove la conoscono per la televisione, su Wikipedia in italiano difatti a stento ha una sua scheda. E allora perché è stato lasciato intatto nella versione italiana del film? Fedeltà assoluta al copione, certo, ma a che pro se la battuta non ci colpisce per niente? Una sostituzione con un nome come quello di Doris Day, per esempio, avrebbe già fornito il risultato sperato: stesso periodo storico, attrice e cantante bianca di successo con i capelli biondi. Voilà! È un nome più noto al pubblico italiano del 2019, per il quale stiamo adattando un film.

Esempio già collaudato: in Ritorno al futuro (1985) il personaggio di Doc Brown nel 1955 chiede sarcasticamente a Marty McFly chi sia il presidente degli Stati Uniti nel futuro e sentendosi dire “Ronald Reagan”, che all’epoca era attore del cinema, rincara la dose dicendo “suppongo che la first lady allora sia Jane Wyman” (perché era stata la prima moglie di Reagan). Ah, non ricordate la battuta su Jane Wyman? Questo perché la versione italiana del film menziona invece Marilyn Monroe, che nella memoria collettiva (anche in quella italiana) era associata al presidente Kennedy già dai primi anni ‘60 pur senza essere anacronistica visto che l’attrice era già stranota in quel 1955 in cui si svolge il film.

Ma niente, in “Dolemite is my name” di Netflix apparentemente è importante che vengano lasciate in inglese cose come “party record”. Che cavolo è un party record, vi chiederete?

Il party record

Sì, nei dialoghi italiani si sente un scambio di battute dove viene nominato un party record.

– Perché diamine c’è la fila? Avevi detto che andavamo a un party.
– Stiamo andando a un party. Registriamo un party record.

E se la parola “party” è entrata nel dizionario italiano, ormai anche da prima degli anni ’70, non si può dire lo stesso di “record” nella accezione che si intende qui, né allora né oggi né mai! In italiano quando parliamo di “record” ci riferiamo a un primato registrato (record viene appunto dal verbo registrare in inglese) in una disciplina sportiva o nel famoso libro sponsorizzato da una nota birra irlandese.

In inglese per “record”, in questo contesto, si intende un disco in vinile! Che è quello che appunto Rudy Ray Moore si prepara a registrare in quella scena. Per chiarire, un party record era un album di genere comico proprio come quello del sopracitato Redd Foxx. Erano detti “party records” quei dischi comici che contenevano materiale un po’ più audace rispetto ai più comuni “comedy records”, che invece erano registrazioni di monologhi dal vivo di materiale comico non vietato ai minori.

Si sarebbe capito di lì a poco cosa fosse un “party record”? Sì, perché viene svelato pochi secondi dopo. È lingua italiana corrente? Mille volte no! In italiano non esiste l’espressione “party qualcosa” (su Google a stento compare qualche risultato pertinente se lo limitiamo alla lingua italiana) e con queste frasi calcate dall’inglese senza ricordarsi il contesto, il destinatario e la fruibilità, siamo al limite della lobotomia ormai.

Era strettamente necessario riportare anche questo concetto, così (lasciatemelo ripetere) pedissequamente dall’inglese? A conti fatti, no. Si poteva benissimo inserire una frase qualunque invece di menzionare “party record”, come si è fatto tante volte nella storia del doppiaggio proprio per evitare che rimanessero discorsi insensati.

Hipster nei dialoghi anni ’70?

In una scena viene pronunciata la frase “Lo ascolta ogni hipster nero”, e in inglese la parola hipster ha motivo di esistere negli anni ‘70, ma non in italiano. Pur essendo una parola che ha origini negli anni ‘30 del secolo scorso, è entrata nel nostro vocabolario solo l’altro ieri, e nel frattempo dalla sua nascita ha cambiato significato tre volte. Negli anni ‘70 avremmo detto che un ragazzo era “in” per indicare che era parte di una cerchia “speciale”.

Sold-out nei dialoghi anni ’70?

Come non è italiano dire che un cinema è “Tutto sold-out per le dieci e mezzanotte” come esclama un organizzatore alla prima di “Dolemite”. Si è sempre detto “tutto esaurito”, qual è la ragione di questo bizzarro “sold-out” in una frase in italiano messa in bocca ad un personaggio di un film ambientato negli anni ‘70? Per non parlare della sciocca ripetizione mettendo un altro “tutto” davanti a “sold-out”, è proprio TUTTO TUTTO esaurito. Non c’è ombra di dubbio.

“Sold out” versus “Tutto esaurito”, nel 1972

 

Aggiungiamoci pure che sentiamo parlare di una “registrazione live” che negli anni ’70, mmmh.

“Stiamo per fare un album, stasera. Una registrazione live

Vediamo l’incidenza di questa definizione rispetto a “registrazione dal vivo” nei primi anni ’70.

Direi letteralmente inesistente.

Qualche complimento finale, mothafuckas!

Che dire? Il film visto in inglese è molto divertente, Moore nella vita reale non ha fatto dei capolavori ma si è meritato di essere ricordato perché è stato d’ispirazione per comici come Eddie Murphy, che ha creduto tantissimo in questo progetto, e per rapper come Snoop Dogg, il quale interpreta nel film il disc jockey del negozio in cui lavora Rudy e che ha affermato: “Senza Rudy Ray Moore, Snoop Dogg non sarebbe mai esistito”. Sul finale del film, Moore viene accreditato come “Padrino del Rap”.

Della versione italiana posso dire che mi sono piaciute le rime che il personaggio di Dolemite decanta sul palcoscenico. Si sente che chi le ha composte si è divertito e riescono a rendere bene tono e intenzione di quelle originali. Fare questo lavoro in rima non è cosa da niente. Apprezzo che, dove possibile, quando i personaggi menzionavano un altro film, sia stato riportato il suo titolo italiano e non lasciato in inglese (né inventato di sana pianta, come abbiamo visto in tanti prodotti doppiati). Anche questo non è scontato e rivela che è stato prestato un minimo d’attenzione.

Pollice in su anche per la voce di Eddie Murphy in questo film, Fabrizio Vidale, ha fatto un buon lavoro nello star dietro all’attore facendo per conto suo pur non disprezzando di replicare (benissimo!) la famosa “risata” che Tonino Accolla aveva inventato tanti anni fa. Un simpatico omaggio ad un artista non dimenticato e indimenticabile.

Sapete di quale risata sto parlando!


Letture consigliate

“Dolemite Is My Name,” the Signifying Monkey and the Black Comedic Tradition, del giornalista Joshua Adams [in inglese]

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