• TITOLI ITALIOTI (19^ PUNTATA) – Titoli italiani tradotti in inglese

    No, in Italia non siamo i soli ad alterare vistosamente i titoli originali. Succede anche l’inverso, ovvero che i titoli italiani (così come di film di tanti altri paesi) vengano alterati in inglese. Sebbene io vi possa offrire una ben minor gamma di esempi (sono ben pochi i titoli italiani esportati all’estero se comparati con la marea di film in inglese che viene importata in Italia) è comunque possibile farsi un’idea leggendo la seguente lista:

    Fantozzi ⇒ White Collar Worker (o White Collar Blues?)

    Purtroppo mi sfugge il presunto significato del titolo inglese White Collar Blues, azzardo un “depressione da impiegato“. Mi viene suggerito nei commenti che potrebbe essere inteso come “ballata dell’impiegato”, il che è probabile visto ciò che vi dirò a breve. Mi sono sempre chiesto chi abbia scelto di cambiare il titolo originale, che sia una proposta nostrana per i mercati esteri o una scelta arbitraria da parte dei distributori stranieri per un pubblico che si sarebbe trovato davanti ad un cognome sconosciuto e, anzi, forse non avrebbero neanche compreso che si trattasse di un cognome. Per complicare il tutto, ho scoperto che White Collar Blues è molto probabilmente un errore propagato via Internet, il titolo in inglese con cui approdò all’estero sembra che fosse in realtà White Collar Worker, cioè “impiegato”, e penso che quel “blues” si riferisse invece alla canzone finale di cui ho trovato traccia persino in India!

    Certo, il titolo “Fantozzi” in Italia all’uscita del film si presentava da solo in quanto era stato un fenomeno editoriale già cinque anni prima, senza contare che il personaggio era ben noto dai vari sketch televisivi a partire dal 1968. È chiaro che per un paese che non ha mai sentito parlare del personaggio, il cambiamento di titolo era indispensabile.

    La versione in inglese esiste (ovviamente sottotitolata) ma purtroppo con la sua sottotitolazione viene meno gran parte dell’ironia del film che si basa prevalentemente proprio su un linguaggio ricercato, inventato o arcaico. Non sorprendentemente, Fantozzi è assai poco conosciuto nei paesi di lingua inglese e a buon ragione, difatti se vi andate a leggere i sottotitoli in inglese disponibili on-line vi renderete subito conto di quanto la loro traduzione sia povera o, più precisamente, impoverita dalle iper-semplificazioni.

    Al momento sto lavorando (a tempo perso) alla sottotitolazione del Secondo tragico Fantozzi (30 min ancora da finire). Questo perché il Secondo tragico Fantozzi non esiste sottotitolato e a mio avviso è un peccato avere la disponibilità del primo ma non del secondo, considerando poi che quest’ultimo è forse il più divertente della serie. Serie che purtroppo in quanto a divertimento arranca al 3° capitolo e lì termina.

    I soliti ignoti ⇒ Big deal on Madonna Street

    Questo il titolo estero mentre il suo seguito è arrivato all’estero come “Hold-up à la Milanaise” o “Fiasco in Milan“, con nessun riferimento né al titolo originale (L’audace colpo dei soliti ignoti) né alla fantasiosa “Madonna street” del suo titolo internazionale. Tra l’altro quel “Madonna Street” è un po’ come se noi chiamassimo un film americano “Grosso guaio in via Awanagana” o “Colpo grosso in via Fast Food“, ma va be’.

    Un altro abominio è accaduto con “I mostri” di Dino Risi, noto nel mondo anglosassone come “15 from Rome” (che voglia fare il verso a “A 45 minuti da Hollywood“?) o anche “Opiate ’67“. Il film difatti è del ’63 ma fu distribuito in America soltanto nel ’67/’68 (e così si spiega l’anno ’67 del secondo titol). Al suo sequel “I nuovi mostri” venne dato invece il titolo di “Viva l’Italia!“. Viva la fantasia più che altro. Per un americano sarà stato difficile tenere traccia dei seguiti nell’era precedente a internet.

    Amici miei” è sbarcato in America come “My Friends“, anche se io personalmente lo avrei forse tradotto con “My dear friends“, opzione invece adottata da altri paesi come quelli di lingua portoghese, spagnola e dai francesi. Lo si trova in inglese anche come “All my friends” che secondo me è anche peggio di “My friends“.

    Sempre di Monicelli, “I compagni” è conosciuto come “The Organizer“. Viene eliminato dunque qualunque riferimento al comunismo (almeno dal titolo), argomento molto scottante nel ’63 per gli Stati Uniti. Nel film infatti, Mastroianni aiuta i lavoratori ad organizzare uno sciopero e quindi “the organizer” è a lui riferito.

    Per rimanere in tema Monicelli, mentre “Brancaleone at the Crusades” è il titolo (correttamente tradotto) di “Brancaleone alle Crociate“. Non altrettanto bene andò al primo film, “L’Armata Brancaleone“, tradotta come “For Love and Gold” che sembra funzionare meglio più come sottotitolo che come titolo, oppure (molto meglio) “The Incredible Army of Brancaleone“. Se non altro non si chiama “Mamma mia, the crusaders!“.

    Infine l’intera produzione di pepla come le serie di Maciste, di Ercole, di Sansone, di Golia etc… hanno quasi sempre un titolo americano alterato. Una curiosità: il genere del “peplum” nel mondo anglosassone è invece definito “Sword & Sandal“, ovvero “spada e sandalo“, una variante di “cappa e spada“. Ma forse questi me li tengo per una prossima volta.

  • Per fortuna non sono il solo ad infastidirsi…

    Chi mi legge spesso avrà notato come ogni tanto mi scagli contro l’uso a sproposito di parole anglosassoni in campo giornalistico, un fenomeno crescente sia in TV sia sui giornali e che personalmente e vivamente detesto.
    Mi sono inbattuto in un articolo di Patrizio Nissirio (corrispondente da Londra per l’agenzia ANSA, esperto di cultura popolare e di massa degli Stati Uniti) sul portale Treccani.it che ha saputo mettere in parole tutta la frustrazione che provo ogni volta che in TV sento parlare di “rumori” (rumors), di Ministero del Welfare, utility car… etc!

    Vi invito dunque a leggere questo articolo intitolato “Giornalisti, ‘falsi amici’” (clicca sul titolo per aprire il collegamento) di cui qui riporto soltanto alcune citazioni che mi sono piaciute particolarmente:

    In una sottomissione culturale non richiesta, alimentata dalla falsa percezione di partecipare così ad un qualche “giro” internazionale, l’italiano viene stravolto con una pioggia di parole inglesi o calchi dell’inglese. Con un risultato: quello di ledere una lingua e promuovere una conoscenza presunta e spesso immaginaria dell’altra, il tutto arrecando grave danno alla chiarezza del discorso.
    Nel giornalismo italiano, in particolare televisivo, l’uso inappropriato, scorretto ed esagerato di parole in inglese si inserisce in un impoverimento generalizzato e in una banalizzazione della lingua utilizzata. Se si ha occasione, si confronti la cifra linguistica di un programma giornalistico o di intrattenimento odierno con quella di programmi degli anni Sessanta o Settanta. Quella televisione era fatta in larga misura da intellettuali attivi nel giornalismo (Andrea Barbato, Sergio Zavoli, per fare due esempi illustri), da comici dalla proprietà di linguaggio straordinaria (Walter Chiari). Quella di oggi ha in larga misura come protagonisti personaggi formatisi nel mondo televisivo, e quindi portatori di una lingua molto più elementare, piatta, ed omogeneizzata.
    “Senza dimenticare le colpe gravissime del doppiaggio di film e telefilm americani, spesso con traduzioni sbagliate e approssimative, che hanno fatto sì che in decine di telefilm i protagonisti mangiassero la pizza con i peperoni, che non esiste: esiste invece la pepperoni pizza, dove pepperoni è un salame piccante simile alla soppressata calabrese, di origine italoamericana.”

    “Qualcuno, nel para-inglese giornalistico, è un fans (plurale!) di questo o quell’artista, mentre una certa scoperta scientifica viene definita eccitante, con un calco sbagliato su exciting (‘entusiasmante’), e una linea telefonica riservata diventa dedicata, quando il traduttore all’impronta ricalca fedelmente e acriticamente la parola dedicated. Dilaga, intanto, l’uso di bipartisan, che fatalmente viene pronunciato com’è scritto, invece che nel modo corretto “baipartisan”.”

    “«Non si tratta quindi – prosegue Scarpa – di una difesa ad oltranza dell’italiano, che sconfina in un nazionalismo linguistico di stampo francese ma, per dirla con Cortelazzo […], di “un giustificato fastidio per l’inerzia e l’incuria con cui molti, anche tra coloro che scrivono per professione, usano la lingua e di un rifiuto di quell’eccessiva spinta all’esterofilia che ha coniato (molti) anglicismi adattati”».
    In Palombella rossa (1989) Nanni Moretti aggrediva la giornalista che gli parlava di trend negativo, tuonando: «Trend negativo? Ma come parli? Chi parla male pensa male. Le parole sono importanti».
    Difficile non condividere anche questa riflessione.