• #AlienDay 26/4 (o 4/26?)


    Il reparto vendite della 20th Century Fox ha decretato che oggi è la giornata mondiale della saga di Alien, o #AlienDay (se vi chiedete “ma perché oggi?” ve lo spiego nei commenti dato che si tratta di una cosa così scema da non necessitare di ulteriore spazio o approfondimenti. Suggerimento: riguarda la data di oggi scritta all’americana), e per festeggiarla ci anticipano che nel prossimo Alien 5 il regista Blomkamp (Chappie, Elysium) stuprerà anche il personaggio di Newt (because fuck Alien3!).
    Per festeggiare insieme a Doppiaggi Italioti vi invito a scoprire (o riscoprire) i miei articoli sugli adattamenti italiani di Alien (-> Alien (1979) – L’alieno è siliconato) e di Aliens (-> Aliens – scontro finale (1986)) e per l’occasione vi ricordo che spariamo scemenze anche su Twitter (@doppita) e, controvoglia, persino su Facebook.
    Quindi buona giornata mondiale di Alien che serve ad alimentare la campagna pubblicitaria delle prossime porcate, ehm, capolavori indiscussi di Scott e Blomkamp.

  • Videocommento a Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug

    lo-hobbit
    Siamo arrivati al trentaseiesimo episodio della serie “i videocommentatori”, un nostro divertissement, pubblicato saltuariamente su YouTube, nel quale guardiamo un film e lo commentiamo in diretta… e che non ha niente a che fare con doppiaggi e adattamenti.
    Per vedere l’episodio basta fare click sull’immagine di copertina.
    Il precedente commento a Lo Hobbit 3 lo trovate qui.

  • Django Unchained – La D è muta ma l’adattamento lascia ammutoliti

    Vignetta di introduzione sull'adattamento italiano nel doppiaggio di Django Unchained

    Quando Django Unchained uscì nei cinema italiani, il popolino di internet ebbe un moto intestinale e cacò fuori l’argomento più arido e ritrito dal 2005 a questa parte e che ciclicamente torna a far parlare di sé grazie ai social network e grazie ad articoli acchiappaclick: versione originale o versione doppiata?

    Casus belli: la notizia internettiana che descriveva di come, nei primi giorni di proiezione a Roma, il film avesse incassato di più nelle sale dove veniva proiettato in inglese (sottotitolato in italiano) rispetto a quelle in cui girava la versione doppiata del film; da questo “fatto” poi ogni articolista/blogger (chiamarli “giornalisti” sarebbe un offesa persino per il giornalismo italiano) ci aggiunse considerazioni personali sottolineando come questo fosse significativo di qualcosa (lasciamo perdere che a questo “qualcosa” ci arrivavano con ragionamenti in stile teologia medievale) …e l’internet si divise in fazioni: chi sosteneva energicamente che il film doppiato fosse una pallida e indegna versione del capolavoro linguistico di Tarantino, nel quale si possono trovare letteralmente dozzine di differenti modi di parlare l’inglese [ovviamente non tutti “riproducibili” in un doppiaggio italiano] e a chi non gliene fregava assolutamente niente ed è andato a vedere il film nella lingua a lui o lei più comprensibile.

    Come spesso accade, per un po’ i più chiassosi fecero parlare di sé, vendendo l’idea che i film in lingua originale avrebbero venduto sempre meglio perché l’italiano medio era stufo dello spregevole doppiaggio italico che tradisce i sacri dialoghi originali, perché il doppiato non è bello come l’originale, è sempre una piatta reinterpretazione etc, etc… salvo poi necessitare di sottotitoli per capirlo, come dimostrato dalla proiezione di The Hateful Eight all’Arcadia di Milano dove il tardivo annuncio che il film in lingua originale non avrebbe avuto sottotitoli ha causato una corsa alla rivendita, en masse, dei biglietti incautamente acquistati in anticipo.

    Insomma nel 2013, ad informarsi sul web, sembrava che l’avvento della Grande Lettura Collettiva in Sala Buia fosse quasi alle porte ma, ovviamente, nessuna rivoluzione in questo senso è poi accaduta perché, nel bene e nel male, il cinema straniero è il più venduto in Italia anche in virtù della sua enorme facilità di fruizione data dal doppiaggio, a beneficio di qualsiasi spettatore: dall’ipovedente all’ottantenne, a quello che a scuola ha studiato francese, al dislessico, a chi è semplicemente conscio dei limiti del proprio inglese. Anche loro sono spettatori paganti del resto.

    scena dal film The Blob, la fuga dal cinema

    Come tutte le sterili disquisizioni che nascono da articoli acchiappa-click e finiscono per essere trampolino di lancio per baggianate da sparare su Facebook e su forum non inerenti all’argomento —con i disquisitori che vorrebbero arrivare a discutere dei massimi sistemi a suon di frasi fatte del calibro di: all’estero non doppiano e sanno tutti l’inglese / il doppiaggio in Italia è il migliore del mondo! / I sospiri originali!!! / Luca Ward mi ti farei!— così anche questa discussione su Django Unchained, presunta cartina tornasole dell’Italia che vorrebbe i film solo in lingua originale, si espanse finendo per gravitare su cose che secondo me lasciano un po’ il tempo che trovano, come ad esempio la somiglianza delle voci e delle interpretazioni, l’espressività, il suono delle parole, etc… ma perdendo di vista il vero problema di questo film in italiano: il suo adattamento.

    NOTA: in risposta alla menzionata lamentela sterile esplosa nel 2013 all’uscita del film: sì, certo, la varietà di accenti presenti nel film non è interamente riproducibile in una localizzazione italiana dei dialoghi. Ed è una novità? Guardando Titanic avete provato un’emozione diversa prima di sapere che i ricchi parlavano diversamente dai poveri? È ovvio che l’adattamento linguistico e quindi il doppiaggio, nel suo complesso, abbia limiti intrinseci e per aggirarli c’è solo un modo: imparare la lingua e la cultura del paese di origine del film, ma a livello “nativo”, non abbisognando di sottotitoli per capirci qualcosa!

    L’adattamento italiota di Django Unchained

    Di Caprio con il martello in mano e vignetta che parla dell'adattamento italiano nel doppiaggio del film
    Se il precedente Bastardi senza gloria aveva già fatto parlare di sé in questo stesso blog per via di quei dialoghi multilingue discutibilmente adattati in una singola scena (quella degli italiani ovviamente), a Django Unchained non andrà molto meglio! Questo a causa del suo adattamento incostante (perché non saprei come altro definirlo) che, è vero, ci regala dialoghi splendidamente e canonicamente tarantiniani come “l’unico che ci deve vedere è il cavallo del cazzo!” e “io non vendo i negri che non voglio vendere” (solo Tarantino sa essere così piacevolmente pleonastico) oppure quelle azzeccate scelte linguistiche come il “gnorsì” detto dalla servitù ai propri padroni bianchi, ma tali lodevoli sforzi di adattamento vengono subito deturpati da elementi d’intrusione come gli inutili inglesismi (o “inglesismi superflui”) di cui spesso mi lamento nel blog e appartenenti ad una delle abitudini linguistiche nostrane più infime e deprecabili, quelle degli italiani che subiscono, anche linguisticamente, la globalizzazione invece di cavalcarla per espandere le proprie conoscenze. Scelte lessicali post-moderne che poi fanno a cazzotti con il genere e con l’ambientazione di Django: il western.

    Perché di deturpamento si tratta quando nei dialoghi italiani viene mantenuto un soprannome come “Big Daddy” (così la schiava nera chiamava il suo padrone) in quanto, non solo un fantomatico rispetto delle fonti risulta insensato nel doppiaggio di un film di questo genere ma, al generico spettatore italiano, il sentire “big daddy” venir fuori dalla bocca di una persona di colore è più facile che possa rimandare alla subcultura rap americana moderna da videoclip, piuttosto che allo schiavismo dell’800.
    Una scelta che fa leva su un linguaggio che, per quanto ovvia a molti di voi che mi leggete, non può arrivare a tutti. Chi non sa l’inglese, né conosce la cultura americana, glissa su quel nomignolo, forse non interpretandolo nemmeno come tale. Lo capisco io come bilingue? Certamente. Lo capisce lo spettatore medio dai 14 ai 45? Molto probabile! Ma c’è una qualche necessità narrativa o linguistica che porti ad esigere che un nomignolo di un personaggio inventato rimanga identico al copione americano? Assolutamente no, specialmente quando lo si accosta poi ad un termine storicamente appropriato: “Gnorsì, Bid Daddy“.

    Locandina italiana del film Big Daddy un papà speciale

    Boh… sarà un western!

    Similmente, non si capisce il bisogno di tanta fedeltà ai nomignoli originali neanche per “Old Ben” (così veniva chiamato il servitore nero di fiducia della famiglia Candie) oppure nella scena in cui gli australiani chiamano il protagonista “blackie” (rimasto “blachi” anche in italiano, la “e” è muta ;D ), specialmente in un film dove poi si nomina Isacco Newton. Il generico pubblico italiano cosa dovrebbe trarne dall’improvvisato appellativo “blackie” (dispregiativo di “black”, nero, ma non forte come “negro”) detto in un paio di battute dirette a Django? (“affare fatto, blackie“)

    Per lo spettatore di lingua inglese, questo appellativo sottolinea un modo di parlare britannico, ma in italiano cosa starebbe a sottolineare? Assolutamente niente. Per questo gli appellativi dovrebbero essere adattati in italiano, perché altrimenti non significano niente; per alcuni finiscono per essere solo suoni vuoti, per altri sono suoni che “forzano” la mente dello spettatore a pensare “ah già, perché in inglese black è nero, quindi sarà stato l’appellativo con cui lo chiamavano in lingua originale”… un brevissimo flusso di pensieri che, per quanto inconsciamente possa avvenire, se avviene, rappresenta il fallimento dell’idea stessa di “doppiaggio”. La differenza è ancora più lampante quando lo confrontiamo col recente The Hateful Eight a cura di Valerio Piccolo dove NIENTE dei dialoghi viene lasciato in lingua inglese (meno che mai gli appellativi!) e in cui nessuno viene chiamato “blackie”, né “big daddy”; in parole povere nessun elemento dei dialoghi di The Hateful Eight vi fa mai pensare a “ah già, ma nella realtà loro parlano inglese!”.

    In italiano, semplicemente, non c’è modo di rendere l’idea che il personaggio che diceva “blackie” parlasse con accento e modi di dire da australiano e questo, come ho detto, è uno dei limiti più noti del doppiaggio. Ma far sì che ciò che dicono i personaggi sia almeno comprensibile a tutti (e sottolineo “a tutti”) o sensato nel suo contesto fa parte proprio delle basi dell’adattamento! Indurre nello spettatore certi ragionamenti del calibro di “blackie sarà black, cioè nero, quindi forse è un appellativo perché Django è di colore” non trovano spazio in un sistema comunicativo che deve essere tanto immediato quanto lo è in lingua originale per l’orecchio anglosassone. Aggiungiamoci poi che in italiano “blacky” è un nome da animale domestico…

    Gatti western
    Mettiamo in questa lista di orrori anche anche un bel “marshal” (“ora potete chiamare il Marshal” / “lo iù-es-Marshal“), perché se non avete familiarità con la giustizia americana, magari non avete idea di che cosa sia uno “U.S. Marshal”! Se però ve lo descrivessi come uno “sceriffo federale” (come lo traducevano nel film Il fuggitivo, 1993) vi sarebbe subito più chiaro e, almeno intuitivamente, chiunque può capire che si tratti di un ruolo di grado superiore a quello dello sceriffo di città. Capisco sempre l’esigenza di rispettare i tempi delle battute ma non la giustifico. Dovremmo forse pensare che il doppiaggio debba anche svolgere una funzione educativa, insegnandoci a pronunciare i nomi originali di ruoli istituzionali americani solo perché chi ha adattato i dialoghi ritiene sia bene conoscerli? Non è meglio favorire invece l’immediata comprensione dei dialoghi per tutti?

    Non è certo la prima volta che sentiamo parlare degli “U.S. Marshals” nel cinema doppiato ma, come sempre in questo campo, c’è da valutare anche il contesto, se c’è tempo e modo per far comprendere a tutti di cosa si stia parlando e altre cosette così che sembrano da poco ma non lo sono; in questo western, la parola Marshal piomba come un macigno per chi non l’ha mai sentita prima, viene ripetuta 11 volte nel giro di 2 minuti e poi non la sentiamo pronunciare mai più per tutto il resto del film, ergo se ne poteva fare anche a meno.

    Il dottor Schultz nel film Django Unchained …continuiamo?

    Quando sentiamo parlare di una banda di fuorilegge chiamata i Brittle brothers, è proprio necessario questo “assaggio” di cultura americana? Che senso ha questo fritto misto dove “brothers” rimane in inglese? È il nome di una banda di fratelli malviventi oppure di una banda musicale? L’allitterazione era così fondamentale da giustificare una non-traduzione? Emblematica la reazione dei miei genitori (ultrasessantenni) quando videro il film e non colsero niente di quel “Brittle Brothers”. Quando ti ritrovi a dover “spiegare” (o ripetere) alcune parole di un film western doppiato a degli ultrasessantenni (che di western ne hanno visti a bizzeffe ai loro tempi) qualche domanda sulla qualità dell’adattamento me la porrei a prescindere.

    Passando oltre, che senso ha dire “ammetto che siamo un bel team” in ambito western? Erano a Milano in una riunione aziendale del 2013 o nella metà del 1800?

    Ancora. Quando Django fa lo spelling del suo nome a Franco Nero, che senso ha che lo faccia con alcune lettere pronunciate all’inglese e altre all’italiana? “Di-gei-a-en-gi-o”. Passi anche quel “gei”, dall’inglese “jay” (che comunque non esiste in italiano), ma in Italia la lettera “n” si legge “en”? E da quando? In quale universo parallelo accade ciò? Nell’Italia del shish forse.

    Vignetta di Schultz dal film Django Unchained che dice mi spiace, hai detto una cagata

     

    Google Translate 1 – Adattamento italiano 0

    Ad aggravare il tutto, ci sono dialoghi in cui si sente il peso di una traduzione pedissequa come quando ci dobbiamo sorbire “200 dollari, morto o vivo” dall’iconico “dead or alive” americano che in Italia è sempre stato tradotto con l’altrettanto iconico “vivo o morto”. Si tratta di quello che i linguisti chiamano binomi coordinati o irreversibili e, come dice la linguista Licia Corbolante nel suo articolo binomi lessicali italiani e inglesi:

    se si confronta qualche esempio di binomi italiani e inglesi equivalenti, l’ordine delle parole nelle due lingue non sempre coincide e infatti è spesso fonte di errori per chi non è di madrelingua:

    cani e gatti / cats and dogs
    giorno e notte / night and day
    domanda e offerta / supply and demand
    falce e martello / hammer and sickle
    l’uovo o la gallina / the chicken or the egg
    sano e salvo / safe and sound
    vivo o morto / dead or alive
    a torto o a ragione / rightly or wrongly

    Nell’adattamento italiano di Django Unchained si è deciso di reiventare questa formula tipica per chissà quale insensato motivo. E questo non solo è una forzatura, è letteralmente un errore.

    Inizialmente lo dice il dentista tedesco e lo spettatore italiano viene portato a pensare che sia parte dello stravagante modo di parlare del Dr. Schultz tetesco di Cermania… e questo ha senso, può strappare perfino un sorriso. In realtà ci sarebbe da piangere quando dopo scopriamo che anche personaggi madrelingua dicono “morto o vivo” al posto di “vivo o morto” ed è chiaro che è stato scelto (per non si sa quale motivo) di tradurre alla lettera la frase americana.
    django unchained battuta wanted morto o vivo, dal doppiaggio italiano del film
    Siccome poi piove sempre sul bagnato, quando Django legge il manifesto di alcuni ricercati, in italiano dice “Wanted, morti o vivi” quando poteva tranquillamente dire “Ricercati vivi o morti“. Certo, “wanted” è facilmente comprensibile da gran parte del pubblico moderno ma, ancora una volta, era necessario? E a che pro? Il fatto che in quella scena il pubblico abbia modo di vedere chiaramente il manifesto con la scritta WANTED non deve certo essere la scusa per propinarci un italiano innaturale (non solo per l’intrusione di “wanted” ma soprattutto per l’inversione “morto o vivo”) e che sembra tradotto da qualcuno che non ha mai visto un solo film western (doppiato) in vita sua.

    Wanted dead or alive tradotto da Google Translate in ricercato vivo o morto
    Insomma, quando Google Translate fa meglio di voi, ancora una volta, io come dialoghista qualche domanda me la porrei.

     

    Battute dubbie

    Passiamo alle frasi che è facile identificare come scelte poco sensate anche senza il testo originale a fronte:

    Supercazzola nel doppiaggio italiano di Django Unchained
    Dopo aver liberato gli schiavi, il dentista tedesco suggerisce loro di fuggire verso aree del paese più tolleranti e dice:

    e nel remoto caso che vi siano degli appassionati di astronomia in mezzo a voi, la stella polare è quella” [e se ne va via].

    Ora, questa frase in italiano non può che lasciare gli schiavi allibiti, quasi avesse fatto loro una piccola supercazzola (anzi dovrei dire “supercàzzora“). A cosa può servire a degli schiavi (che molto probabilmente erano del tutto ignoranti) una simile informazione? Azzarderei a dire che nel 2016 anche qualche italiano potrebbe non sapere che la stella polare indichi il nord.

    In inglese la stella polare si chiama North Star, dunque il suggerimento per aiutare gli schiavi in fuga stava nel nome stesso della stella indicata, a prescindere dal “remoto caso che vi siano appassionati di astronomia” tra i suddetti schiavi (una frase che ovviamente era una battuta! Infatti non serviva che ci fossero tra loro degli appassionati di astronomia per capire il messaggio implicito). Avrebbe avuto più senso inserire qualche parola in più nel dialogo italiano affinché questa frase avesse senso nel contesto: “la stella polare che indica il nord è quella!” (o “la stella che indica il nord è quella!”).

    NdA: se pensate che tutto ciò siano solo inutili minuzie non conoscete ancora bene il mio blog e non avete idea di quante altre piccole lamentele ho eliminato in fase di correzione bozze perché apparivano troppo pedanti persino per me. 😉 Ai nuovi lettori, benvenuti a Doppiaggi italioti.

    Poi ancora…” (cit.) quando Django trova i “Brittle brothers” dice alla schiava della piantagione “va’ da quel bianco che è venuto con me“, frase che per chi parla italiano significa implicitamente “va’ da quel bianco e restaci”. In realtà avrebbe dovuto dire “va’ a chiamare quel bianco che è venuto con me” e lo si intuisce anche senza andare a verificare che in inglese diceva infatti “go git that white man I came here with“. Per rientrare nei tempi della frase al massimo si poteva sacrificare il “che è venuto con me” in favore di “che era con me”, ma certamente non il verbo “chiamare” [lasciamo perdere il fatto che comunque “I came here with” avrebbe dovuto essere tradotto come “con cui sono arrivato”].
    Il “va’ da quel bianco” lascia sottinteso un po’ troppo (al contrario della lineare frase originale) e alla prima visione passa inosservato ma diventa palese nelle successive, quando già sappiamo cosa intendesse dire.

    Sparatoria nel film Django Unchained con vignetta che legge Evit non avrà esagerato per l'ennesima volta?


    Casi con scusanti e qualche elogio

    L’unico momento in cui lo spelling all’inglese non stona lo abbiamo quando il dentista tedesco afferma che non aveva “intenzione di morire a Chickasaw County, Mississippi, U.S.A.” (pronunciato “iù-es-ei”), questo funziona unicamente perché a pronunciare queste parole è uno straniero, il dentista tedesco, il quale si può supporre stia canzonando il modo di scrivere gli indirizzi postali americani, così sottolineando in modo spregiativo il luogo in cui non aveva intenzione di morire. Lo avesse detto un personaggio americano allora sarebbe l’ennesimo caso di non-adattamento, ma in bocca al tedesco funziona. Come vedete è sempre una questione di contesto. [Tolto il fatto che un personaggio madrelingua, nel doppiaggio, avrebbe dovuto dire perlomeno “nella contea di Chickasaw” e non “a Chickasaw County”.]

    Il resto dell’adattamento di questo film non manca di momenti veramente azzeccati come il “positive?” tradotto come “persuaso?” di cui Django non conosceva il significato, oppure  nel linguaggio del dentista tedesco che risultava troppo raffinato per i bifolchi americani i quali replicavano con “speak English, goddamit!” (⇒ Parla cristiano, perdio!), oppure per altre espressioni similmente memorabili (to parley with youper avere un abboccamento).

    Ho volutamente evitato l’argomento “doppiatori e interpretazioni” ma se devo sbilanciarmi per dire almeno una cosa in merito, voglio che sia qualcosa di positivo: quindi sottolineerò l’insita comicità nell’interpretazione di Mario Cordova sul personaggio di “Big Daddy” dove ogni frase è degna di un riavvolgimento con tasto rewind per poterla risentire una seconda volta e ridere di nuovo. Per fare un parallelo con un precedente film di Tarantino doppiato in italiano, un momento equivalente a questo, ovvero un momento dove un personaggio doppiato rende molto bene le intenzioni comiche originali (e le supera?), lo troviamo in Kill Bill 2 dove Marco Mete doppiava Larry, il volgare proprietario di strip club con il suo “è l’ora del calendario di Budd“… e probabilmente non è un caso che le interpretazioni più memorabili originino proprio da quei doppiatori che vengono dalla “vecchia scuola” di doppiaggio.

    larry in kill bill che parla dall'adattamento italiano di Django Unchained
    In conclusione, ribadisco ciò che già ho detto all’inizio dell’articolo: il film in italiano ha molte frasi memorabili (sarei sciocco a sconsigliarvene una visione in italiano perché non è tutto da buttare) quindi mi spiace davvero che anche questo adattamento sia dovuto finire nella mia lista nera a far bella compagnia a Star Wars VII – Il risveglio della Forza (e se gli appellativi lasciati in inglese e gli anglicismi inutili vi hanno ricordato il recente Star Wars VII non è un caso) ma certi futili inglesismi, certe frasi tradotte pedissequamente che nemmeno Google Translate si azzarderebbe a proporvi e, addirittura, lo spelling mezzo all’inglese e mezzo all’italiana(!), sono tutte cose che meritano di essere fatte saltare in aria con la dinamite.

    Per l’adattamento di Django Unchained… BOOM!

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