Questa sera (venerdì 30 gennaio 2018) il canale CineSony trasmetterà alle 21.00 un film molto particolare, che merita di essere riscoperto: Spy (The Long Kiss Goodnight, 1996) di Renny Harlin.
Stando ai passaggi precedenti sullo stesso canale, la versione del film sarà quella “originale” (cioè con la titolazione in inglese) quindi ne approfitto dunque per rispolverare la mia VHS Cecchi Gori – recuperata nell’angolo polveroso di un mercatino dell’usato, al prezzo di 50 centesimi! – che invece sfoggia un perduto trasferimento da pellicola italiana.
«Sono sempre franco e onesto con le donne.
A New York sono Franco…
A Chicago sono Onesto!»
Un film da riscoprire, dicevo, sia perché alla regia c’è il comunque bravo Renny Harlin – lo sfortunato finlandese che dopo la gavetta con filmacci come Prison (1987) e dopo il quasi successo di Die Hard 2 (1990) e Cliffhanger (1993) non ne ha più azzeccata una, fino all’imbarazzo de Il passo del diavolo (2013) – ma soprattutto perché alla sceneggiatura c’è il più controverso (e all’epoca il più pagato) sceneggiatore di Hollywood: Shane Black.
Se tutto va bene dopo l’estate finalmente uscirà The Predator (2018), con cui Shane Black torna alle origini: aveva 26 anni quando il suo personaggio è il primo ad essere ucciso dal mostro del film Predator (1987) di John McTiernan, e dopo essere stato professionalmente morto più volte, Shane torna idealmente alle origini, stavolta scrivendo e dirigendo nel 2018 lo stesso cacciatore alieno che l’aveva ucciso trent’anni prima.
Per l’occasione sto approfondendo la conoscenza di questo autore incredibile – che è passato da stipendi faraonici all’ostracismo totale, dagli onori della cronaca all’oblio professionale – traducendo in esclusiva alcune sue interviste, come quella su Fangoria nel 1987, ad inizio carriera, e quella sull’The Hollywood Reporter nel 2016, al momento della rinascita.
Infine vi ricordo che il blogger “Cassidy” sta ripercorrendo l’intera carriera di Black per il ciclo “Back in Black” sul sito La Bara Volante dove oggi anche lui recensisce il film in contemporanea!
Un titolo marlowiano
Il cuore di Black batte per l’hardboiled d’annata, per quei romanzi in edizione tascabile pieni di eroi “duri” (come Mike Shayne) ai quali ha dedicato quello splendido omaggio che è il film Kiss Kiss Bang Bang (2005), purtroppo un nuovo flop al botteghino nella sua carriera. Proprio come quest’ultimo film è diviso in capitoli intitolati usando celebri romanzi di Raymond Chandler, anche The Long Kiss Goodnight è un titolo che palesemente strizza l’occhio al romanzo del 1953 The Long Goodbye (in Italia, Il lungo addio), con il celebre Marlowe di Chandler: l’inspiegabile rititolazione italiana rovina a prescindere questo gioco. (Magari Il lungo bacio d’addio sarebbe stato più adeguato, ma quanti italiani conoscono Philip Marlowe così tanto da capire il richiamo?)
Se già il titolo non bastasse a far capire la strizzata d’occhio, ad un certo punto vediamo il personaggio interpretato da Jackson guardare in TV una replica de Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973) di Robert Altman, con un Elliott Gould fuori dal normale nel ruolo di Philip Marlowe, cioè che in inglese viene definito larger-than-life. Vediamo la TV trasmettere la scena in cui Marlowe è al supermercato a cercare un specifico cibo per il suo gatto e un inserviente di colore gli risponde in modo divertito:
— A che mi serve un gatto? Ho la ragazza.
— Tu hai una ragazza e io ho un gatto.
Al che si inserisce Samuel L. Jackson a parlare sopra a Marlowe, e all’inserviente che dice di avere una ragazza risponde:
— Sì, e lei ha la micia.
Si sente il divertito Shane Black che porta in video l’usanza che tutti noi abbiamo: storpiare le battute dei film in diretta. Anche se nella versione italiana si perde la battuta originale: «Yeah. Pussy’s pussy».
La sceneggiatura più costosa di sempre
Non resisto a presentare un delizioso brano dal romanzo Scusate il disturbo (One Fine Day in the Middle of the Night, 1999; in Italia, Meridiano Zero 2003) dello scozzese Christopher Brookmyre:
— Visto che hai un termine per tutto, come chiami questo tipo di situazione?
— Di solito la chiamo un film di Renny Harlin. Il peggior regista di film d’azione del cazzo […] Non ne capisce niente. Fa saltare un po’ di roba e collega le esplosioni a sequenze di dialogo maldestramente girate e sempre male illuminate. E la cosa più tragica è che fa soldi, perciò gli permettono di continuare a girare.
— Non ricordo mai troppo bene i nomi dei registi. Chi è?
— Renny Harlin. L’imperdonabile autore di 58 minuti per morire, il sequel di Trappola di cristallo. Talmente indegno che John McTiernan ci ha scherzato su, ha detto che non era mai stato presente durante le riprese di Duri a morire, la vendetta, che poi è uscito ed è iniziato a circolare con il titolo di Duri a morire 3. Tra i crimini di Harlin, la resurrezione della carriera di Stallone con Cliffhanger e il peccato mortale di avere rovinato una sceneggiatura di Shane Black con Spy.
— Oh, dai, quello l’ho trovato divertente.
— Sì, è vero, però il merito è di Shane Black. Come thriller era uno schifo, e lì il merito è di Renny Harlin. Diavolo, Shane Black vale parecchio. Non si svende a chiunque. Dovrebbe esistere un elenco approvato di registi per le sue sceneggiature.(Traduzione di Vittorio Curtoni)
Il caso di Shane Black sembra uscire da una di quelle storie edificanti, del tipo “l’America è la patria delle opportunità”. Aveva circa 24 anni quando abitava in un bungalow di Los Angeles insieme a futuri sceneggiatori come Ed Solomon (Men in Black) e Jim Herzfeld (Ti presento i miei). Poco più che ventenne si fa conoscere nell’ambiente vendendo la sceneggiatura di Arma letale, un’esplosione nei botteghini di tutto il mondo e un film che da solo riscrive le regole di un intero genere, superando se stesso quando nel 1989 vende la sceneggiatura de L’ultimo boyscout per 1,75 milioni di dollari: la cifra più alta pagata all’epoca per un copione. Questo record viene infranto da Shane stesso, che il 20 luglio 1993 vende la sceneggiatura di Spy alla New Line Cinema per 4 milioni di dollari (altre fonti riportano 4,6), una cifra all’epoca impensabilmente alta.
Con l’avvento del Duemila, M. Night Shyamalan vende il suo Unbreakable per 5 milioni, segno che all’epoca l’asticella non si è ancora alzata di molto rispetto a Shane, infatti il Guinness Book of Records del 1999 riporta ancora Shane come autore della sceneggiatura più pagata. Curiosamente però specifica che l’idea del soggetto è venuta in realtà alla fidanzata, che per questo ha ricevuto solo 20 mila dollari di compenso.
Per una qualche beffarda legge del contrappasso le sceneggiature che più gli hanno fruttato a livello economico, che l’hanno reso il più noto sceneggiatore di Hollywood, sono anche quelle che gli hanno distrutto la carriera. L’ultimo boyscout delude ma è niente in confronto al terremoto di Spy: costato 65 milioni di dollari, in totale ne guadagna giusto una trentina. È la fine della carriera di Shane Black.
Per capire la reazione che il film ha suscitato all’epoca della sua uscita, ecco la recensione del “New York Magaine” del 18 novembre 1996:
«Lo spettacolo è avvincente ma emozionalmente insignificante. Il cinismo è straordinario (agenti della CIA che fecero esplodere il World Trade Center [nel 1993] per spaventare il Congresso così da aumentare i fondi all’antiterrorismo) e il sadismo non conosce sosta (c’è gente sventrata, congelata, bruciata, affocaga, incatenata e presa a parolacce).
The Long Kiss Goodnight è in parte salvato dal suo umorismo vecchio stampo: Geena Davis come super assassina e Samuel L. Jackson come suo compare sono divertenti insieme. Lo sceneggiatore Shane Black scrive ottimi dialoghi e turpiloquio d’effetto [gaudily effective profanity]: l’insolenza ha sempre il suo fascino. Ma a parte le battute, questo è un film assolutamente disperato, con così tanti cambi di sceneggiatura e sparatorie che anche un ragazzo di 14 anni diventerebbe irrequieto in sala e lo si potrebbe sentir chiedere quando mai finirà quella roba. Il problema è che non finisce mai.»
L’assassina senza memoria
Non so quanto sia voluto, ma il personaggio di Samantha Caine / Charly Baltimore è la versione femminile – nonché la reinterpretazione alla Shane Black – del tema dell’“assassino senza memoria”, reso celebre dal romanzo Un nome senza volto (The Bourne Identity, 1980, prima avventura di Jason Bourne) di Robert Ludlum e dal longevo fumetto XIII del belga Jan Van Hamme, iniziato nel 1984 e diventato in seguito anche (dimenticabilissima) serie TV.
Entrambi questi due personaggi condividono con Samantha/Charly l’amnesia seguita ad un’operazione sporca firmata da un’agenzia governativa fin troppo solerte.
The Nice Buddy Guys
Il giornalista Zach Baron nel 2016 ha definito Shane Black «king of alpha-male-one-liners» – re di quelle che io chiamo “frasi maschie” – e in effetti nella storia dell’umanità ci sono solo due film che possono essere considerati distributori automatici di “frasi maschie”, Commando (1985) e L’ultimo boyscout (1991), e uno è firmato da Shane. Questi però è in realtà specializzato in un elemento più comune ai suoi film, che non sempre sparano battute da applauso: Black è specializzato in buddy movies, storie con due protagonisti diametralmente opposti che si ritrovano costretti a lavorare insieme.
Da Arma letale (1987) – bianco pazzo e nero sconsolato – a L’ultimo boyscout (1991) – bianco sgualcito e nero ordinato – da Kiss Kiss Bang Bang (2005) – bianco fallito e gay risolvi-tutto – a The Nice Guys (2016) – bianco magro e bianco grasso. Il forte di Black è il dialogo frizzante fra due protagonisti agli antipodi, come appunto la “killer smemorata” Samantha Cain (Geena Davis) e Mitch Henessey (Samuel L. Jackson).
L’angolo di Evit
So che il “padrone di casa” ha in antipatia una battuta pronunciata da Geena Davis in questo film, che invece fa parte di uno scambio di battute che secondo me andrebbe rivalutato.
Quando la casalinga si è trasformata in assassina, dovendo togliere una medicazione a Jackson mette in atto una tecnica curiosa: si apre l’accappatoio da vanti a lui, e mentre l’uomo fissa lo spettacolo gli strappa di getto la benda.
Samuel: Fa un male cane.
Geena: Lo so, per questo ti ho distratto. Come quando si deflora una vergine. L’ho letto in un libro di Harold Robbins: lui le morde l’orecchio per distrarla dal dolore. Mai provato?
Samuel: No, io ci vado di gancio destro e urlo «Vai col tango”!» [possibile citazione da Febbre da cavallo con cui il doppiaggio italiano ha tradotto l’originale «Pop goes the weasel»?]
A me sembra un dialogo divertente, ed è curioso ritrovarlo cancellato – insieme ad ogni altra “firma di Shane Black” – dalla novelization ufficiale firmata da Randall Boyll, che ha fatto in modo di togliere ogni frizzante umorismo dalla storia. (Curiosamente i titoli di coda italiani del film danno per edito in Italia da Sperling & Kupfer detto romanzo, di cui in realtà non esiste la minima traccia.)
[Nota di Evit: a mia discolpa non ricordavo la risposta di Samuel Jackson che fa effettivamente rivalutare l’intero scambio di battute.]
Una curiosità sugli stunt
Il film vanta la presenza della stuntwoman Dana Lynn Hee, oggi nota solo come Dana Hee, in alcune scene come stunt double di Geena Davis. Medaglia d’oro di Taekwondo alle Olimpiadi di Seoul del 1988 poi speaker motivazionale, Dana diventa “cascatrice” per il cinema nel 1993, e prima di Spy appare in un alto numero di film di alto profilo, da L’uomo ombra (1994, stunt double di Penelope Ann Miller) a Batman Forever (1995, stunt double di Nicole Kidman). Nel 1996 è stunt double di Pamela Anderson in Barb Wire… probabilmente con l’uso di qualche protesi pettorale!
Quando arriva sul set di Spy ha appena lavorato a Independece Day (1996), ha indossato i panni della creatura gigeriana protagonista di Specie mortale (1995) ma soprattuto ha sostituito nei combattimenti Kitana (Talisa Soto) in Mortal Kombat (1995).
Intervistata dalla rivista “Femme Fatales” (volume 9, n. 1, giugno 2000), Hee ricorda la sua partecipazione a Spy:
«Sono finita al pronto soccorso due volte in quel film. Mi sono rotta una mano in un incidente davvero stupido. È stato durante la scena in cui Geena esce fuori dalla cabina di un’autocisterna rovesciata, poi si lancia mentre la cisterna colpisce un’auto e viene catapultata via: il mio incidente è accaduto allora. Era una notte piovosa, c’è stato un problema di comunicazione ed io finii per cadere fra la cabina e la cisterna, rompendomi una mano.
Mi sono anche ferita la testa mentre cadevo all’indietro in uno scivolo del carbone. Dopo una caduta di un metro e mezzo sono caduta sulle mie spalle e poi sulla schiena. L’impatto è stato così forte che ho sbattuto la testa, con una brutta commozione cerebrale. Ho avuto così tante commozioni cerebrali – alcune dovute alle arti marziali altre agli stunt nei film – che mi accorgo subito quando ne subisco una.»
La distribuzione italiana di Spy
Presentato l’11 ottobre 1996 in contemporanea sia negli Stati Uniti che in Canada, The Long Kiss Goodnight arriva nelle sale italiane il 4 dicembre 1997 con il misterioso ed immotivato titolo Spy, nuova tacca sulla pistola fumante della creatività italiana per i titoli idioti.
La sua vita italiana è targata Cecchi Gori e al di là di una VHS nel 1997 e un DVD nel 2002 non c’è altro, il tipico trattamento CecchiGori che, per minimizzare le perdite, attende l’acclamazione popolare sui social media (ciò che loro chiamano “startup“) prima di considerare la pubblicazione in alta definizione, mentre all’estero il Blu-Ray di Spy esiste già dal 2011. Dubito però che questo film in Italia raccoglierà mai abbastanza firme da convincere CG a pubblicarlo in HD, quindi potrebbe rimanere in bassa definizione ancora per molto, molto tempo.
Titoli di testa italiani di Spy (da VHS)
Titoli di coda italiani del film Spy
L.
P.S.
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27 Commenti
Cassidy
30 Marzo 2018 alle 11:51Quella di Christopher Brookmyre è una vera perla, riassume alla perfezione tutto il cinema di Renny Harlin! 😉 La sua idea di cinema caciarone lo ha portato a dirigere robe orrende, ma alla fine gli si vuole bene a quel Finlandese passo.
Bellissimo post, come al solito ultra completo, sono d’accordo con Evit, lo scambio di battute, e la scena del cerotto da togliere è micidiale, ma quando scrive Shane Black, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta tra le scene migliori, le “frasi maschie” e i momenti mitici 😉 Nota finale personale, Geena Davis supera la prova sottana a pieni voti 😉 Cheers!
Lucius Etruscus
30 Marzo 2018 alle 11:54Chi meglio della Geena del ’96 può superare la prova sottana? 😛
È incredibile che il romanzo ufficiale del film si perda per strada tutte le battute migliori, come se l’autore avesse “de-shaneblackizzato” la storia, il che è davvero assurdo…
Cassidy
30 Marzo 2018 alle 14:36Davvero nessuna, penso sempre di essere di parte con la Davis, ma mi confermi che non è così 😉 Shane Black è destinato a venire costantemente negato, torno buono quello che dicevi, un giorno verrà riscoperto come merita, e questo tuo post sarà testimonanza per il fituro. Cheers
Zio Portillo
31 Marzo 2018 alle 09:22Ennesimo articolo super interessante e ricchissimo di aneddoti succosi.
Non ho più aggettivi Lucius. Veramente…
Grande anche Evit che in due capoversi aggiunge la ciliegina.
Bravissimi ragazzi!
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 12:00Sapevo che Evit non amava quella battuta sulla deflorazione e allora ho voluto scrivere apposta quel paragrafo in suo onore ^_^
Peccato che il romanziere che si è occupato di fare la novelization abbia tolto queste chicche, lasciando un semplice romanzo d’azione de-shaneblackizzato…
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:25Devo stare attento a ciò che dico a Lucius in privato che poi finisce tutto nero su bianco. Dopo 15 anni e più ho fatto finalmente pace con la battuta sulla deflorazione (quella di “e vai col tango” mi ha fatto ridere molto durante la visione, non ricordavo la risposta di Jackson)
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 16:26Sto per pubblicare in volume tutte le nostre conversazioni, sul tipo dei grandi epistolari del passato 😀
Scherzi a parte, chissà se quel “E vai col tango” è una citazione di Febbre da cavallo 😛
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:32Ahah, me voi rovina’!!!
Sulla battuta… chissà! È possibile che fosse una di quelle frasi usate già da prima di Febbre da cavallo e poi popolarizzate dal film. Mi sembra materiale per una delle tue ricerche filologiche. Alla scoperta delle origini di “e vai col tango!”.
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 16:35Ah, questa è una sfida! Come disse Mozart a Salieri 😛
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:38Poi diremo: anche questa è fatta, disse quello che cavò gli occhi alla moglie.
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:23Ho voluto leggere l’articolo solo dopo aver visto il film ieri sera, dopo almeno 15 anni che non lo vedevo, forse anche qualcuno di più. L’ho ritrovato più o meno come lo ricordavo: una premessa ed un inizio fenomenale seguiti da un secondo tempo un po’ moscio.
In questa mia rivisitazione del 2018 l’ho trovato meno moscio (forse conscio di stare guardando un film del ’96, anni piuttosto immemorabili per tutto il cinema di Hollywood rispetto al decennio che li ha preceduti) ma penso che il film abbia un problema da cui non si può separare: lo spettatore si affeziona da subito alla Geena Davis mamma perfetta che scopre di avere doti da assassina (comicamente scambiate per quelle di un cuoco all’inizio. Il tormentone “i cuochi lo fanno” era ancora saldo nella mia memoria dopo quasi due decenni), quando nel secondo tempo si passa al suo alter ego, la Geena Davis volgare e letale, come spettatore mi sembra quasi che la nostra adorata protagonista ci abbia abbandonato ed è stata sostituita da una sua versione più spiacevole e più detestabile. Far dire a Geena Davis degli anni ’90, quella che era a tutti gli effetti una delle fidanzatine d’america di quei tempi, la parola “deflorare” non è che l’esaltazione di ciò che stride in questo film. Non ricordavo la risposta di Jackson (che mi ha fatto scoppiare a ridere) ma ricordo che all’epoca, da adolescente mi sembrava eccessiva e quando le dice che la nuova personalità di Geena Davis farebbe arrossire un camionista non scherza affatto. Solo che fa imbarazzare pure il pubblico a casa e questo non è mai una buona idea.
È questo secondo me che non fa funzionare il film, scambiare un personaggio per cui parteggiavamo all’inizio del film con uno per cui invece vorremmo non parteggiare mai. Non so se c’era modo di farlo funzionare meglio (magari con un’altra attrice? Ma chi poteva farlo all’epoca?).
E questo lo frena dal diventare un buon film a tutto tondo, perché il film non è un brutto film ma la seconda parte non invoglia certo a ripetute visioni. Le battute di Shane Black lo elevano certamente dalla mediocrità perché mi sono trovato a ridacchiare in continuazione (a volte anche a ridere proprio) e potremmo vederci anche dei bei momenti sul femminismo che ancora oggi sono molto attuali (come il far sentire imbecille Samuel Jackson per aver fischiato ad una ragazza che faceva jogging lungo la strada).
Se ho perdonato dopo 15 anni la battuta sulla deflorazione, che nel suo complesso fa ridere, la seconda parte con la Geena Davis “cattiva” rimane il tallone d’Achille dell’intero film. Io lo consiglierei unicamente per la premessa e per i dialoghi che sono anche tradotti in maniera efficiente.
Se dopo 15 anni ancora anticipavo qualche battuta umoristica (tipo “i cuochi lo fanno”) vuol dire che Shane Black ha colpito ancora.
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 16:30Non ricordo perché non m’era piaciuto la prima volta, semplicemente mi aveva lasciato addirittura indifferente. Ora l’ho apprezzato solo perché nel frattempo ho fatto un corso di “shaneblackizzazione” e comincio a riconoscere i suoi cavalli di battaglia, la sua “poetica” e i suoi splendidi rimandi all’hardboiled classico – che il titolo italiano del film ha fottuto.
Di sicuro non è un film che considero riuscito, ma a differenza di ogni titolo con Jason Bourne – in cui ho sbadigliato fino a cancellare dalla memoria ogni fotogramma – almeno questa “assassina senza memoria” qualche risata me l’ha strappata, e soprattutto spara frasi maschie come solo un personaggio di Shane Black sa fare. Aver perso la capacità di minacciare i cattivi è un crimine degli anni Duemila che non perdonerò mai!
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:36Questo film scoreggia in faccia a qualsiasi Jason Bourne, sia chiaro. Anche io negli anni ’90 ne rimasi indifferente, ne ricordavo soltanto la premessa che ancora oggi trovo tra le migliori se applicate ad un personaggio femminile (sui personaggi maschili invece mi sembra stra-abusata e dozzinale).
A proposito di Bourne, ci fu quella specie di spin-off con Jeremy Renner che vidi addirittura al cinema e l’unica cosa che ricordo è l’attore in un ambiente innevato. Giuro non ho idea di che cosa parlasse e quali altri attori fossero coinvolti. Se guardavo il trailer e basta mi risparmiavo 8 euro, anzi 8 sterline perché lo vidi nel Regno Unito quindi mi è costato pure più del solito.
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 16:49All’epoca lo considerai un grande errore, poi è tornato Matt Damon e ho capito che c’era un altro errore più grande pronto a colpire.
La questione è semplice: i primi tre Bourne, per quanto sonnacchiosi, erano tratti da tre romanzi: Legacy e quella roba inguardabile con il ritorno di Matt Damon, sono sceneggiati apposta. Solo che non esistono più sceneggiatori, solo scimmie pulciose che estraggono lettere a caso dai propri sfinteri e le mettono sul copione. Così abbiano Renner che non fa un cazzo in bianco, sulla neve, e Damon che non fa un cazzo in nero, nel buio di notte. Non per cattiveria, ma proprio perché nessuno ha idea di cosa fargli fare, tanto i fan comprano a scatola chiusa 😛
Almeno una vota, in età pre-internet, gli americani copiavano e gli andava di lusso: c’è un delizioso film di Hong Kong su un assassino che per una malattia sta perdendo la memoria, una sceneggiatura piccola ma curata che verrebbe bene sugli schermi americani, con un qualche attorone beota del momento. (Tipo Ryan “Dead Man Walking” Gosling) Però poi arrivano le accuse di white-washing dai fan del cinema asiatico 😀
Evit
31 Marzo 2018 alle 16:52Al peggio, si sa, non c’è mai fine. Se del primo Bourne ricordo qualche scena d’azione, dei successivi non saprei dirti neanche se li ho visti. Matt Damon proprio come faccia non mi tira al cinema ma neanche riesce a farmi tenere l’attenzione. In ruoli come quello in Interstellar secondo me è più che sufficiente.
Chissà se oggi accuserebbero un film come Spy di “femminilizzare” tutto, così come fanno con l’accusa di white-washing.
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 16:58Lo farebbero le case distributrici, che per creare “polemica vendi-biglietti” intorno a un film farebbero di tutto 😀
Pensa che pure Steve Austin ha fatto un assassino senza memoria, con “The Stranger” recentemente tradotto e trasmesso da CineSony. Un filmaccio Z però non disprezzabile: almeno ci prova a fare qualcosa, sebbene con i risultati che puoi immaginare.
Le donne forti al cinema sono presenza forte sin dagli anni Ottanta, quindi non avrebbe senso parlare di femminilizzazione: piuttosto sarebbe da far notare che dal Duemila protagoniste sono ragazzine mocciosette a fare le boccacce da dure, mentre prima avevamo donne grintose…
Evit
31 Marzo 2018 alle 17:03Quando vengono meno gli sceneggiatori non rimane altro che compensare con le boccacce. Tu stai pensando agli esordi di Michelle Rodriguez, non far finta di no! Ahah!
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 17:12Seee, glie piaceressero le origini della Rodriguez! “Girlfight” è il suo unico film giusto, un milione di volte superiore alla million dollar baby triste triste triste di Clint! Mi riferisco alle bambine biondine che salvano il mondo in roba tipo “La quinta onda” (2016) e young adult similari. Una volta c’era Ripley che da sola ammazzava tutti, c’erano le donne robot che non avevano nulla da invidiare ai loro colleghi, c’erano le varie Nikita sparse nel mondo e Jamie Lee Curtis contro Ron Silver: non erano ragazzine col capello perfetto o idole delle teenagers tipo “Hunger Copio-Battle-Royale Games”, erano donne: una parola che dal Duemila è uscita dai dizionari. (Negli anni ’80-’90 gli eroi maschi avevano come co-protagoniste donne alla pari; nei ’00 hanno ragazze che interpretano le figlie e nei ’10 hanno ragazze che interpretano le nipoti. Ovviamente ruoli per donne non ce ne sono…
Evit
31 Marzo 2018 alle 17:21Il “young adult” ha rovinato tutto, non solo le donne nella loro rappresentazione cinematografica.
La tua visione degli anni ’80-’90 però è falsata dai film su cui hai deciso di porre attenzione per tuo (ottimo) gusto personale, ma in quegli anni la scrittura di personaggi “donne oggetto” era ancora molto comune, quasi la norma. Del resto il Bechdel–Wallace test (da cui poi deriva il “sexy lamp test”) è del 1985.
Lucius Etruscus
31 Marzo 2018 alle 17:31Erano anni di grande pluralità, in cui c’era parecchio che si muoveva sotto la polvere. C’era Jessica Rabbit e la donna oggetto ma poi Kathleen Turner con “All’inseguimento della pietra verde” (1984) sfidava i maschietti nel loro genere storico, quell’adventure che sin dall’Ottocento vedeva protagonisti maschi impavidi e donnine urlanti e svenevoli. Come urlante e svenevole è l’insopportabile (e inutile) protagonista de “La notte dei morti viventi” (1968) di Romero, che al momento di girarne l’ottimo remake del 1990 viene trasformata da Tom Savini in una red badass da antologia. Potrei citare Leia Organa, una principessa guerriera, ma non vale: il film è solo un remake da originale giapponese quindi il valore è sfalsato.
La donna oggetto c’è sempre, e forse oggi di più, perché è schiava delle mode del momento invece di essere libera di lanciarle, le mode: nei filmoni di oggi c’è spazio solo per le ragazzine e non è che ci siano chissà quanti ruoli disponibili per loro…
Evit
10 Aprile 2018 alle 00:47Ti rispondo dopo una vita ma solo su una piccola cosa, Barbara di “La notte dei morti viventi” non è la protagonista del film, il film apre con lei e il fratello ma il protagonista è il nero. Romero diede il ruolo di protagonista a lui non per una precisa scelta politica (come credono TUTTI e da anni lo scrivono ovunque come pappagalli) ma semplicemente perché era l’unico attore decente che aveva trovato in Pennsylvania. È solo nel 1990 che Savini decise di puntare su un protagonista donna (adoro anche il remake ovviamente). Quando i remake avevano ancora qualcosa da dire.
Insomma, tanto per dire che “Barbara” non ha senso che rientri in questa lista di eroine.
Lucius Etruscus
10 Aprile 2018 alle 08:39Infatti la Barbara di Romero è il simbolo della donna nell’horror classico, totale nullità urlante, cadente e svenente, com’è sempre stata dalla nascita del cinema fino ad almeno dopo il ’68. Savini poteva benissimo ricreare la situazione – era un remake-fotocopia splatter, chi l’avrebbe criticato? – ma dopo le donne forti di Carpenter e Cameron come poteva farlo? Così le fa prendere il fucile e la trasforma in qualcosa che il cinema horror non aveva mai conosciuto: una donna attiva, che non solo sopravvive – come voleva la tradizione delle final girl dal ’78 in poi – ma addirittura si vendica dei torti subiti, come solo la seconda Ripley aveva accennato a fare, chinando la testa prima di affumicare le uova. Non so se Savini aveva visto “Nikita”, visto che arriverà negli stati uniti mesi dopo il suo film, ma di sicuro sente che le donne sono diventate sempre più forti nel cinema di genere, e che addirittura possono non limitarsi alla mera sopravvivenza…
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