• Vroom, vroom! Scansatevi, arriva l’adattamento di Le Mans ’66 – La grande sfida

    Le Mans '66 - La grande sfida, locandina orizzontale del film

    Alcuni film dovrebbero servire da esempio su come si adatta e come si traduce anche l’intraducibile. Le Mans ’66 – La grande sfida, titolo per il mercato europeo in sostituzione dell’originale Ford v. Ferrari, è uno di questi… e del titolo italiano ne riparliamo alla fine. Sembra strano che un film del 2019 possa insegnare ancora qualcosa ai doppiaggi del passato (più precisamente dovrei parlare di adattamenti del passato) eppure è così. Infatti, i dialoghi di Le Mans ’66 presentano due delle più classiche sfide del doppiaggio: la prima è la presenza di qualcuno che chiede di “parlare inglese” per chiarezza. Ok, questa forse non è una grandissima sfida ma sicuramente un argomento che piace molto agli appassionati (per qualche strana ragione). La seconda è la presenza di personaggi che parlano italiano e le loro parole vengono tradotte da un interprete. Questo sì cruccio di molti, moltissimi doppiaggi, e che qui viene affrontato come si deve.

    Insomma è un articolo di apprezzamento.

     

    La mia lingua la sai parlare? “Parlare inglese” per “parlare chiaro”.

    Il pubblico italiano ha una strana passione per i dialoghi in lingua inglese dove qualcuno chiede di “parlare in inglese”, che nella gran parte dei casi è sinonimo di “parlare chiaro”. Celebre il caso di Pulp Fiction del 1994 (o meglio, l’unico caso che conosce il pubblico) dove la domanda-tormentone di Samuel Jackson, “English, motherfucker, do you speak it?” nella versione doppiata diventa “la mia lingua, figlio di puttana, tu la sai parlare?“, perché ovviamente avrebbe avuto poco senso fargli chiedere se parlasse inglese in un film doppiato in italiano o, ancora peggio, se parlasse l’italiano! Sebbene io non ritenga che sia poi questa grande sfida linguistica degna di essere citata in continuazione, è certamente uno di quei casi che sentirete nominare un po’ ovunque, su Facebook, nei forum… ovunque! Tra poco ne parla anche mia nonna.
    Indubbiamente quello del “parli la mia lingua?” è un ottimo stratagemma di adattamento che non traduce alla lettera pur portando essenzialmente lo stesso significato, eppure sono quasi certo che non sarà stato un caso così speciale per Francesco Vairano (dialoghista di Pulp Fiction), già abituato a creare dialoghi naturali e degni adattamenti.

    Doc Brown spiega le linee temporali alternative in Ritorno al futuro 2

    Doc lo spiega “in inglese”

    Il “problema” del tradurre frasi del tipo “do you speak English?” non è certo nuovo nel panorama del doppiaggio e Pulp Fiction non è certamente l’unico caso in cui, davanti ad una frase simile, si è dovuti ricorrere ad uno stratagemma per trasformarla in una battuta sensata nella sua versione doppiata. Per rimanere su film noti al grande pubblico, in Ritorno al futuro – parte II (1989, direzione e dialoghi di Manlio De Angelis), la spiegazione del dottor Brown sulle linee temporali alternative porta il protagonista Marty ad esclamare “English, Doc!“, che in italiano diventa un altrettanto divertente “che lingua è, Doc?!“.

    Eppure non si può proprio dire che in tutti i casi della storia del doppiaggio sia stato trovato uno stratagemma efficace, o sensato. È il caso, ad esempio, della miniserie in due puntate It, del 1990 ma arrivata in Italia nel 1993, quindi solo un anno prima di Pulp Fiction. In questa troviamo una battuta simile che però è stata tradotta in modo inatteso:

    It (1990), dialogo originaledoppiaggio italiano
    That’s not empirically possible.
    In English: ain’t no such thing.
    Queste cose sono empiricamente impossibili.
    Tradotto in italiano: non esistono.

     

    Ehm, e che lingua starebbero parlando? La prima regola del doppiaggio di prodotti simili dovrebbe essere quella di non sottolineare che i protagonisti americani stiano parlando in italiano. Questa battuta in It infrange l’illusione del doppiaggio ed è a suo modo un abbattimento della proverbiale quarta parete, come se l’attrice avesse ammiccato agli spettatori.

    English motherfucker, do you speak it? Scena da Pulp Fiction

    Vendimi un corso di inglese.

    Entrambi i doppiaggi, (sia quello di It sia quello di Pulp Fiction) sono della Gruppo Trenta ma con persone diverse ai dialoghi e alla direzione. Casi come quello di It ci insegnano che niente è mai da dare per scontato, quindi consentitemi un piccolo elogio a Le Mans ’66 dove un “You wanna run that by me in English?” (traducibile come: vuoi provare a ripetermelo in inglese?) è stato adattato come si deve.
    All’inizio del film, infatti, vediamo un meccanico Ken Miles (Christian Bale) spiegare ad un suo cliente che l’automobile da corsa che ha comprato non ha niente che non vada.

    – L’auto non ha niente, è il modo in cui la guida.

    – Il modo in cui la guido?

    – Troppo carburante e scintille non sufficienti. Questo la ingolfa.

    E tradotto che cosa significa?

    Quanto sarebbe stata sbagliata una traduzione alla lettera tipo “vuoi provare a ripetermelo in inglese?” oppure quella ancora meno sensata alla It: “tradotto in italiano cosa significa?“. Per i professionisti del settore potrebbe sembrare una banalità eppure il mondo doppiaggio non è nuovo a errori simili e quindi una sua versione sensata non è proprio da dare per scontata. Le Mans ’66, dialogato da Massimo Giuliani, lo adatta come si deve.

    I don’t speak Italian, but he ain’t happy.

    Mi sbaglierò ma non mi sembra per niente contento.

    Noi invece siamo contentissimi di questo adattamento.

     

    Tradurre l’intraducibile: gli interpreti italiani nei film doppiati

    Nel film in lingua originale abbiamo scene in cui attori italiani parlano italiano. Sono quelli dell’azienda Ferrari che, all’inizio del film, viene visitata dai lacchè della Ford interessata ad acquistarla, approfittando del suo imminente fallimento. Questa situazione porta ad una conversazione tra il signor Ferrari e i dipendenti della Ford, una conversazione che viene ovviamente tradotta grazie ad un’interprete lì presente. Questo genere di scene sono da sempre le più difficili da trasporre nel doppiaggio di un film.

    Infatti, in decenni passati, situazioni simili hanno portato a soluzioni a volte insensate, spesso forzate. Nel 2009 abbiamo avuto i soldati americani in Bastardi senza gloria che, dal parlare un italiano standard nel doppiaggio italiano, si mettono a parlare in dialetti del sud quando i loro personaggi si improvvisano “italiani” in una scena che rasenta l’assurdo e che è stata già discussa nel mio articolo “Traduttori senza gloria”. Se andiamo indietro nel tempo troviamo difficoltà simili anche negli anni ’70, quando Al Pacino nel film Il padrino (1972) si ritrova in una Sicilia dove tutti parlano in italiano con accento del sud mentre il suo inglese rimane doppiato in un italiano standard e lo spettatore italiano riesce a comprendere entrambi, quindi a maggior ragione risultano forzati i momenti in cui l’italiano standard di Al Pacino viene “tradotto” da un interprete che semplicemente ripete gli stessi concetti in un “siciliano” comunque comprensibile, anzi semplificandoli.

    Lee Iacocca della Ford stringe la mani a Enzo Ferrari nel film Le Mans '66 - La grande sfida

    Dirigente marketing Lee Iacocca della Ford incontra Enzo Ferrari

    Nella versione italiana di Le Mans ’66 – La grande sfida viene fatta l’unica cosa veramente sensata, nella scena con l’interprete i dialoghi vengono cambiati e, invece di avere qualcuno che traduce per il signor Enzo Ferrari (e l’insensatezza che questa scelta si porterebbe dietro), il personaggio dell’interprete viene trasformato in quella che potrebbe essere una consulente legale di Ferrari, o forse una sua assistente, e le sue battute aggiungono nuovi contenuti pur non alterando il succo della scena. Non solo, si sfrutta anche il labiale silenzioso dell’interprete della Ford per poter realizzare un botta e risposta realistico, evitando così situazioni assurde viste in film come Il Padrino.

    Vediamo i dialoghi a confronto, tra quelli del film in lingua originale e quelli del film doppiato. Nella colonna dedicata ai dialoghi del doppiaggio italiano userò la definizione di “assistente di Ferrari” e poi più brevemente di “assistente”, al posto di “interprete” che invece è la definizione che userò nella colonna dei dialoghi originali, visto che il personaggio a tutti gli effetti cambia di ruolo nella versione nostrana. In un colore diverso sono evidenziate quelle battute che risultano alterate in maniera sostanziale per rendere questa scena sensata a chi lo guarda in italiano.

    dialoghi originali
    doppiaggio italiano
    E questo è il dipartimento delle macchine da corsa. The racing department.

    _______________

    Iacocca: This merger between our companies will form two entities.

    Interprete: Questa fusione tra le nostre aziende formerà due entità.

    Iacocca: Ford-Ferrari. 90% owned by Ford who controls all production.

    Interprete: Ford-Ferrari, al 90% proprietà di Ford che controllerà l’intera produzione.

    Iacocca: Secondly, Ferrari-Ford, the race team. 90% owned by Ferrari.

    Interprete: Secondariamente, Ferrari-Ford, la squadra di gara al 90% di proprietà di Ferrari.

    Iacocca: In order to secure this Ford will pay the sum…

     

    Interprete: Per assicurarsela Ford pagherà la somma di…

    Iacocca: Dieci milioni di dollari.

    Ferrari: Avrò bisogno di un po’ di tempo per leggere.

    Interprete: He will need some time to read this.

    Iacocca: Please.

    _______________

    Ferrari: Signori, ho solo una piccola domanda riguardo al mio programma delle corse.

    Interprete: Only one small question. It concerns my race program.

    Ferrari: Se io voglio correre a Le Mans e voi non volete che io corra a Le Mans, io ci vado o non ci vado.

    Assistente di Iacocca: If I wish to race Le Mans and you do not wish for me to race Le Mans, do we or do we not go?

     

    Iacocca: In that unlikely scenario, if we just can’t agree, then, yes. I mean, no. You are correct. You do not go.

    Interprete: In quel caso se non doves-…

    Ferrari: Grazie, ho capito.
    La mia dignità di costruttore, di uomo, di italiano, è profondamente offesa dalla vostra proposta.

    Traduttore: My integrity as a constructor, as a man, as an Italian is deeply insulted by your proposal.

    Ferrari: Tornatevene in Michigan.

    Traduttore: Go back to Michigan.

     

    Ferrari: Tornate alla vostra grossa, brutta fabbrica.

    Traduttore: Back to your big ugly factory.

    Ferrari: A costruire le vostre brutte e insignificanti macchine.

    Traduttore: Back to your big ugly factory, making its ugly little cars.

    Ferrari: E dite a quel porco del vostro padrone che i suoi arroganti dirigenti sono solo una massa di figli di puttana da quattro soldi.

    Traduttore: Tell your pig-headed boss that all his smug executives are worthless sons of whores.

    Ferrari: Tell him he’s not Henry Ford. He is Henry Ford II.

    E questo è il dipartmento delle macchine da corsa. Il nostro orgoglio.

    _______________

    Iacocca (che parla per Ford): La nostra proposta, come vedrà, è chiara e dettagliata.

    Assistente di Ferrari: Si parla di una fusione tra le aziende che formerebbe due entità.

    Iacocca: Ford-Ferrari. Il 90% delle azioni alla Ford che controllerà la catena di montaggio.

    Assistente: Nel contratto è specificato che la prima entità sarebbe destinata solo allo sviluppo e alla produzione.

    Iacocca: La seconda, Ferrari-Ford la squadra corse, al 90% della Ferrari.

    Assistente: Sì, la seconda entità è a maggioranza Ferrari che gestirebbe la squadra corse autonomamente da Maranello.

    Iacocca: Per chiudere questa operazione, Ford pagherà una somma importante.

    Assistente: Sulla bozza di contratto non era ancora quantificata la cifra.

    Iacocca: Dieci milioni di dollari.

    Ferrari: Avrò bisogno di un po’ di tempo per leggere.

    Assistente: Beh, credo che non avrete problemi ad accettare.

    Iacocca: Prego.

    _______________

    Ferrari: Signori, ho solo una piccola domanda riguardo al mio programma delle corse.

    Assistente di Iacocca: Se è solo sulle corse vuol dire che tutto il resto va bene.

    Ferrari: Se io voglio correre a Le Mans e voi non volete che io corra a Le Mans, io ci vado o non ci vado.

    Assistente di Iacocca: Non lo so… l’obiettivo di Le Mans è assolutamente fondamentale per il signor Ford. Non credo sia possibile dargli il via libera.

    Iacocca: Ascolti. Nel caso di uno sgradevole scenario, se non riuscissimo a metterci d’accordo, allora sì. Voglio dire, no. Ha detto bene lei, voi non ci andate.

    Assistente: Loro non vorrebbero che…

    Ferrari: Grazie, ho capito.
    La mia dignità di costruttore, di uomo, di italiano, è profondamente offesa dalla vostra proposta.

    Assistente di Iacocca: Onestamente siamo sorpresi, non ci sembrava che la nostra proposta potesse suonare offensiva.

    Ferrari: Tornatevene in Michigan.

    Colletto bianco Ford ad un collega: Sta diventando sgradevole.

    Ferrari: Tornate alla vostra grossa, brutta fabbrica.

    Assistente di Iacocca: evitiamo di rispondergli.

    Ferrari: A costruire le vostre brutte e insignificanti macchine.

    Assistente di Iacocca: non cadiamo nella provocazione, dammi retta.

    Ferrari: E dite a quel porco del vostro padrone che i suoi arroganti dirigenti sono solo una massa di figli di puttana da quattro soldi.

    Assistente di Iacocca: noi le abbiamo semplicemente portato una proposta. Non penso che siano insulti meritati. Riferiremo al signor Ford.

    Ferrari: E ditegli che lui non è Henry Ford. È Henry Ford secondo.

    Come è possibile notare, nessuno ha tirato fuori improbabili scene dialettali, cambi di nazionalità (impossibili visto che si parla dell’italianissima Ferrari) né persone che ripetono gli stessi concetti una seconda volta solo perché non si sapeva che cosa far dire all’interprete che parla italiano nella versione doppiata. La scelta di Massimo Giuliani è stata elegante, una boccata di aria fresca dopo decenni di forzature e insensatezze. Aiutato dalle dinamiche (fisiche, di gesti e di sguardi) tra interprete e persona tradotta (che ben si adattano a quelle che intercorrono tra un consigliere fidato e la persona consigliata), aiutato anche da qualche frase detta da persone non inquadrate e da altre frasi che in originale sono solo bisbigliate e non udibili allo spettatore, il direttore di doppiaggio di Le Mans ’66 è riuscito a dare sensatezza e soprattutto naturalezza ad una scena altrimenti quasi impossibile da adattare in italiano. Complimenti.

     

    Sviste minori

    Non sarei io se non trovassi qualcosa. Facciamoci un giro tra le osservazioni lessicali per cui questo blog è noto, vi va?

    Henry Ford secondo piange, scena dal film Le Mans '66 - La grande sfida

    Si parte

     

    “Pops” e paparini

    Nell’introduzione al personaggio di Carroll Shelby (Matt Damon) e al suo collaboratore abbiamo questa battuta di Damon:

    (originale) Early bird gets the worm, Pops.

    (doppiaggio) Chi dorme non piglia pesci, Pops.

    Il problema non sta nel “pigliare pesci” ovviamente, il detto sull’uccellino mattiniero che cattura i vermi è essenzialmente l’equivalente del nostro “chi dorme…”, come evidenziato anche dalla linguista Licia Corbolante nel suo blog Terminologia etc…

    In inglese non è mattiniera solo l’allodola ma anche l’early bird, la persona che arriva o inizia a fare qualcosa molto per tempo, prima di tutti gli altri.
    The early bird catches the worm è un modo di dire simile a chi prima arriva meglio alloggia o, da un’altra prospettiva, è anche paragonabile a chi dorme non piglia pesci.

    Confezione dei Coco Pops, cereali della Kellogs

    La colazione dei campioni

    Il problemino invece è su quel “Pops” che in inglese è un modo informale per chiamare il proprio padre o, come in questo caso, per chiamare a scherzo (con affetto o scherno) una persona più anziana, ed è certamente trasformabile in papà, a volte lo si è anche sentito tradotto come paparino, solitamente viene fuori proprio in frasi ironiche dove si parla del “proprio vecchio” (altra definizione sentita in vari doppiaggi di film americani). In italiano “Pops” non vuol dire niente, lo troviamo nei Coco Pops (dove il “pop” è l’onomatopea dello scoppiettio, cioè il rumore tipico di quei cereali nel latte) e a qualcuno ricorderà quello delle classifiche “Top of the Pops”, dall’omonimo programma televisivo britannico con le canzoni più popolari del momento, poi anche importato dalla Rai nel 2000. Posso capire che il labiale di quella scena non lasciasse molto spazio, ma dire “Pops” in un copione in italiano è una di quelle cose che, non cogliendola al volo, sfuggirà a molti. Qualcuno penserà possa essere un nome di persona o un suo abbreviativo.

    Torna anche successivamente quando Matt Damon dice “Pops, incorniciala.” e così lo chiama anche Christian Bale (“fammi ripartire, Pops!”). A questo punto Pops sembra proprio il nome del personaggio, difficile intuire che si tratti del nomignolo di un collaboratore che è quasi un membro di famiglia. Per molti spettatori italiani sarà il “signor Pops” o forse l’abbreviativo di un qualche nome a noi ignoto. Popeye? Poppo? Popovich? Si tratta dell’ingegnere capo Phil Remington, collaboratore di lunga data di Shelby (Matt Damon).

    È sempre Matt Damon che tira fuori questo Pops anche in un altro contesto, durante il discorso pubblico per la Ford:

    When I was 10 years old, my Pops said…

    Che in italiano diventa

    Quando avevo 10 anni, Papà mi disse…

    La presenza di un Pops tradotto correttamente come papà fa intuire che la scelta di lasciare “Pops” nelle battute viste in precedenza sia stata deliberata e avrà avuto i suoi motivi, ma come fa il pubblico italiano a capire che “Pops” e “papà” sono equivalenti quando lo stesso film doppiato li tratta differentemente? Potreste pensare che sia un nomignolo lasciato in inglese per accuratezza storica e invece la figlia di Phil Remington specifica che nessuno lo ha mai chiamato così (anche se possiamo ammettere che il direttore di doppiaggio questo non lo poteva sapere):

    Benché onorata di vedere suo padre in un ruolo così prominente nel film, la figlia [di Phil Remington], Kati Blackledge, non ha potuto fare a meno di notare di come egli sia stato rappresentato diversamente da com’era realmente. Remington – sempre chiamato “Rem” da colleghi e amici – era sulla quarantina d’anni quando Ford partecipò a Le Mans e non ha mai avuto la barba in vita sua, tantomeno i baffi. Nel film, McKinnon interpreta un Remington molto più anziano e con i baffi, che risponde sia al nome di “Phil” che di “Pops”. “Mia madre era l’unica a chiamarlo Phil, e ricordo di aver riso la prima volta che lo hanno chiamato ‘Pops’ nel film” – dice la Blackledge. – “Potevo sentire la voce di papà nella mia testa che diceva ‘You calling me Pops?! I’ll give you a pop!’ [Traduzione di Evit: ‘Se mi chiami papà ti do una papagna‘], alzava gli occhi al cielo e si allontanava. Era davvero divertente e aveva sempre un ghigno da sfottitore stampato in faccia.

    da ‘Motorsports HoF takes a bow in ‘Ford v Ferrari’’ su Racer.com
    (traduzione di Evit)

    Insomma “Pops”, per quanto non storicamente accurato, anzi, proprio in virtù di questo, poteva rimanere “papà”. La scena introduttiva non lascia dubbi sul fatto che non si tratti letteralmente del padre di Shelby.

    Ray McKinnon intervistato sul set del film Le Mans '66 - La grande sfida in cui viene chiamato Pops

    Papà Evit che vi spiega le cose

    Contaminazioni linguistiche: absolutely tradotto come assolutamente

    Tanto per essere chiari, siamo al verde?

    Assolutamente.

    In inglese la risposta “absolutely!” corrisponde al nostro “assolutamente sì“, quindi un sì deciso e inequivocabile. In italiano un “assolutamente” senza altre aggiunte è più ambiguo perché è un rafforzativo neutro, quindi richiederebbe l’aggiunta di un “sì” o “no” finale  perché, senza uno di questi, non solo rimane ambigua come risposta ma in alcuni casi potrebbe essere facilmente intesa come una risposta decisamente negativa, un “no” categorico, come riassunto dall’Accademia della Crusca nella pagina su l’uso di assolutamente dove viene riportato che nel 2003, il Sabatini Coletti. Dizionario della lingua italiana spiegava così l’uso del solo avverbio come risposta:

    Per ellissi della negazione [“assolutamente”] ha acquistato anche il significato di “no”, “per niente”, specialmente nelle risposte: “Sei stanco?” “Assolutamente”». Sembra quindi che, almeno in alcune zone d’Italia, l’avverbio abbia subito una deviazione di significato simile a quella che ha colpito affatto, che originariamente ha il significato di ‘del tutto’ ma viene spesso impiegato con valore negativo, in luogo di niente affatto.

    Passano gli anni e sempre più l’italiano viene “contaminato” dall’inglese ma già nel 1989 in Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria della UTET, veniva fatto notare come l’uso di assolutamente in senso positivo potrebbe risentire dell’influsso dell’inglese (absolutely). Un uso certamente andato ad aumentare nell’ultimo decennio, per quanto La Crusca concludeva la questione semplicemente consigliando di usare assolutamente “sempre in unione con sì o no”.

    Certamente, in un testo recitato (e non solo scritto) ci si può permettere di far dire al doppiatore la parola “assolutamente” in modo che si capisca se la risposta è positiva o negativa ma, così come La Crusca, anche io avrei consigliato di accompagnare quel “assolutamente” con un “sì”, soprattutto visto che il labiale in questa scena non lo precludeva. Dopo “absolutely”, infatti, la bocca rimaneva aperta e un “sì” ci poteva stare tranquillamente. Per quanto mi riguarda, “assolutamente” senza un “sì” o un “no”, rimane in gran parte dei casi una traduzione influenzata dall’inglese e da evitare se possibile nei film doppiati, ancora di più nella letteratura.

    Per fortuna sono i dialoghi originali stessi a portare subito chiarezza, la frase successiva è: as in “totally?” tradotto correttamente con: nel senso di “totalmente”?.

    I personaggi di Shelby e Ford nel film Le Mans '66 - La grande sfida

    – Vuole che rallenti?
    – Assolutamente.
    – Assolutamente sì o assolutamente no?

     

    Sformati di maiale, maledette guerre, beatnik e altre piccole cose

    Pork pies tradotto come “sformati di maiale” è la prima volta che lo sento dire, rispetto al più comune “pasticcio di (carne di) maiale”, e da non confondere con il cappello pork-pie che prende il nome dalla forma del pasticcio di carne di maiale. Niente labiale in questa scena, non capisco perché si sia puntato per  questo inusuale”sformato di maiale”. A ben pensare, un qualsiasi “pasticcio di carne” sarebbe stato sufficiente, perché specificare di maiale in una battuta detta di spalle? Non un delitto, solo una scelta curiosa.

    “Una” maledetta guerra diventa “quella” maledetta guerra (“Because you fought in a bloody war!” ⇒ “perché hai combattuto in quella maledetta guerra!“). Sembra una cosa da niente presa fuori contesto ma cambia il significato implicito della frase, sembra infatti che la moglie ce l’abbia con quella guerra in particolare (la seconda guerra mondiale) ma non è lo stesso effetto che dà la frase originale.
    Il contesto, in breve, è il seguente: Ken Miles (Christian Bale), avendo ormai 45 anni, si lamenta di aver iniziato troppo tardi la sua carriera da pilota e quindi non diventerà mai un professionista, la moglie invece sottolinea il vero motivo con la frase “Because you fought in a bloody war!“, che tradurrò come “(è) perché eri in guerra, dannazione!”. Entrambi i personaggi sono britannici, usano “bloody” come gli americani usano “fucking”, un’imprecazione. [NdA: Quel “bloody” in bocca ad un britannico infatti non vuol dire letteralmente “sanguinosa”, come qualcuno ingenuamente potrebbe credere.]
    Ma l’imprecazione “bloody war” non è rivolta alla guerra in sé, la moglie non sta maledicendo la seconda guerra mondiale né la partecipazione del marito come soldato, usa “bloody” per sottolinare in maniera forte la parola “guerra” come legittima giustificazione per una carriera iniziata tardivamente. Per riportare correttamente il significato e il senso della battuta, l’imprecazione (dannazione, maledizione… quella che preferite) sarebbe dovuta arrivare alla fine della frase. Capirete infatti che dire “perché sei stato in una maledetta guerra” oppure dire “perché sei stato in guerra, maledizione!” non siano proprio la stessa cosa.
    Tra parentesi, ammettendo pure che tutte le guerre siano brutte, un cittadino britannico non definirebbe mai la Seconda guerra mondiale come una “maledetta guerra” perché nella loro ottica è stata una guerra di difesa dall’invasione nazista, ben differente da guerre americane come quella del Vietnam che spesso abbiamo sentito definite come “maledette”.

    Il personaggio di Lee Iacoca nel film Le Mans '66

    Vi torna tutto fin qui?

    “Good to see you.” (è bello rivederti) diventa “Quanto tempo!” anche se i due personaggi (quello di Matt Damon e il figlio del pilota) si erano visti solo pochi giorni prima. Forse era il personaggio di Matt Damon che voleva essere simpatico con una battuta, ma tale comicità non è presente nell’originale e lo spettatore più disattento potrebbe essere portato a pensare che sia passato effettivamente tanto tempo dall’ultimo incontro. È comunque un momento simpatico, fedele al personaggio, quindi anche qui nessun grave delitto.

    “Senior creatives” (i dirigenti del settore marketing) diventano “i creativi della vecchia guardia” e quanto cavolo mi piace questa traduzione! Nel film è esattamente ciò che sono, la vecchia guardia del reparto marketing della Ford che mal vedono i più giovani con idee nuove (e odiano i beatnik) e gli mettono i bastoni tra le ruote. Le dinamiche dello scontro tra i colletti bianchi e i colletti blu, che poi sono il fulcro e la parte migliore del film, sono meglio riassunte da Cassidy del blog amico La bara volante nella sua recensione del film.

    Shelby (Matt Damon) difende la scelta del pilota Miles (Christian Bale) che non è ben visto dai dirigenti bacchettoni della Ford: “un beatnik? Quell’uomo è sbarcato con un carro armato sulla spiaggia al D-Day e lo ha portato fino a Berlino“. So che non c’era spazio per inserirci ulteriori parole ma in originale non aveva semplicemente portato un “carro armato” (tank) dalla spiaggia in Normandia fino a Berlino, bensì un “busted tank“, ovvero un carro armato già “rotto” alla partenza, il che attesta ulteriormente la sua capacità di meccanico oltre che di pilota, ma quella battuta serviva a far capire ai colletti bianchi della Ford che il personaggio di Christian Bale non fosse per niente un beatnik, quindi niente di sbagliato nell’abbandonare questo dettaglio per farci entrare il resto della frase. Purtroppo certe parole in italiano sono necessariamente più lunghe (tank = carro armato) e riducono i tempi utili delle battute.

    Nella lista delle cose che sono andate storte con la prima gara viene detto “E si sono rotte tante cose, in effetti le uniche cose che non si sono rotte sono i freni“. Sfugge il senso di quel “in effetti” (corretta traduzione di “in fact”), la non rottura dei freni come conseguenza logica delle tante altre rotture…? In inglese è una battuta consequenziale perché “break” come verbo (rompere) è la stessa parola usata al sostantivo plurale per i freni (breaks). La frase originale infatti è la seguente: “And a lot of stuff broke. In fact, the only thing that didn’t break was the brakes“. Non si può rendere tutto ma forse “in effetti” poteva essere sostituito da qualcosa di più appropriato o addirittura eliminato completamente. Lo so, direte e mi diranno “ma il labiale etc etc…”. Parafrasando Mark Twain: le preoccupazioni sul labiale, per quanto lecite, sono decisamente esagerate.

     

    Perché Ford v. Ferrari arriva in Italia come Le Mans ’66 – La grande sfida?

    ford v ferrari e Le mans 66 - la grande sfida, titolo e locandine poster a confronto

    Titoli e locandine a confronto

    È necessario specificare che l’Italia non è l’unico paese in cui il filmFord v. Ferrari” è arrivato con il titolo “Le Mans ’66. La Fox ha distribuito questo film come “Le Mans ’66” praticamente in tutti i paesi europei (con o senza l’aggiunta di un sottotitolo), incluso il Regno Unito, mentre è rimasto Ford v. Ferrari per Stati Uniti, Canada (sia nel titolo in francese che in quello inglese), Australia, Brasile, India, Israele, Nuova Zelanda, Russia, Vietnam. Nei paesi di lingua spagnola del Sud America arriva invece come Contra lo imposible.
    Nonostante abbia etichettato questo articolo nella mia rubrica “titoli italioti“, è chiaro che non si tratta di una scelta limitata alla distribuzione italiana, né di una scelta della divisione italiana della Fox, ma di una precisa scelta di marketing presa a più alti livelli della 20th Century. Quella del sottotitolo invece, “la grande sfida”, può effettivamente essere una scelta della divisione italiana della Fox e la ritroviamo anche nella titolazione di altri paesi dove ritorna spesso l’idea di un duello o di una sfida. Per quanto possa personalmente piacere o non piacere, è chiaro che non si tratta della solita titolazione “a caso”, che invece abbiamo visto tante altre volte per il mercato italiano.

    Le motivazioni della Fox per questo cambio di titolo per il mercato europeo non sono state rese note ufficialmente, ma questo limite geografico, così specifico, può farci immaginare il motivo. Il sito Screenrant la mette così:

    Considerando che la 24 ore di Le Mans si svolge in Francia ed è una gara immensamente popolare in Europa, ha senso che il film prenda il nome da un evento che gli europei – inclusi quelli che non sono appassionati delle corse automobilistiche – possano in qualche modo riconoscere.

    Pur non essendo in alcun modo appassionato di motori, anche un ignorante come me ha sentito parlare di “Le Mans”, l’idea di una versione europea del titolo è dunque un cambiamento più che comprensibile ma chi ha visto il film potrà concordare con l’autore di quello stesso articolo quando nel paragrafo successivo indica il titolo di Le Mans ’66 in qualche modo fuorviante, in quanto mette l’attenzione sulla gara (che è sì rappresentata nella porzione finale del film) invece che su quello che è il vero soggetto e motore della storia, ovvero la sfida quasi impossibile della Ford nel costruire un’auto da corsa che potesse competere con la Ferrari, e le persone che vi hanno contribuito. Non è Rush di Ron Howard, tanto per intenderci.

    Un sito americano dedicato all’industria automobilistica riporta le perplessità sulla scelta del titolo “Le Mans ’66” per il mercato britannico e riassume brevemente altri possibili motivi del cambiamento di titolo per il mercato europeo, tutte ipotesi in attesa di una spiegazione ufficiale che forse non arriverà mai.

    Non riesco a trovare nulla che indichi il motivo per cui il titolo sia stato modificato per l’uscita britannica. Forse per qualche problema di copyright. Forse il titolo “Ford batte Ferrari” è a un tale livello di orgoglio americano che la 20th Century Fox avrà pensato non avrebbe risuonato altrettanto bene con il pubblico britannico. O forse qualcuno da quelle parti [nel Regno Unito] avrà pensato potesse sembrare il titolo di film in cui la Ford fa causa alla Ferrari, e ha deciso che era stupido, proprio come Batman V Superman era stupido.

    da ‘Weirdly Ford V Ferrari is called Le Mans ’66 in the UK’ su Jalopnik.com
    (traduzione di Evit)

    Il problema del titolo italiano (e in generale europeo) è che potrebbe dare delle false aspettative. Personalmente non ho trovato di alcuna attrattiva il titolo “Le Mans ’66” perché rifuggo l’argomento motori come la peste, ed è stato solo il titolo americano (oltre alla visione del trailer) a farmene invece interessare, essendo il titolo originale (Ford v Ferrari) più diretto, immediato, più rappresentativo e più appetibile anche ai non appassionati: una sfida tra marchi noti dove è implicito che sia la Ford a dover faticare per sfidare Ferrari. Chiarissimo.
    A prescindere dai miei interessi personali, nominare Le Mans ’66 fa pensare invece soltanto ad una sfida in pista alla famosa (per me solo di nome) gara automobilistica di Le Mans, argomento di interesse più limitato per un pubblico generalista.

     

    L’adattamento Le Mans ’66 – La grande sfida ha vinto la gara?

    Come è possibile intuire dall’oggetto delle mie “lamentele”, marginali e di poca importanza, il copione di Le Mans ’66 non è adattato bene, è adattato benissimo! E per quanto ne capisca io di automobili, lo è anche nelle parti più tecniche dei dialoghi. Dopotutto nei titoli di coda è citata la consulenza tecnica di un ingegner Ireneo Germani. La traduzione messa a confronto con il copione in inglese attesta la competenza con la quale è stato tradotto, non ci sono mai inglesismi superflui né parole che stonerebbero in un film ambientato negli anni ’60 (team player, pork pie, termini del marketing etc… sono stati tutti adattati, e neppure “sandwich” è rimasto in inglese sebbene avrebbe potuto) e i dialoghi non soffrono di traduzioni troppo dirette (“finer than frog fur“, ad esempio non è diventato “più fine del pelo di rana” ma “più prezioso di una perla rara”) e denotano una comprensione tutto sommato profonda del testo originale.

    Se un lavoro simile poteva non essere degno di nota in un’epoca diversa, nel 2019, cioè nello stesso anno di altri film doppiati con dialoghi che inciampano nella comprensione e quindi della traduzione delle frasi più semplici, oppure le forzano al punto da essere anacronistiche o innaturali, questo lavoro su Le Mans ’66 diventa qualcosa da sottolineare e da applaudire.

    Christian Bale che fa il segno dell'OK nel film Le Mans '66 - La grande sfida

    È andata

  • Monolith (2016): Omaggiare i Lumière a suon di scoregge

    Il testo che segue è la copia di una mia recensione sul film Monolith, pubblicata il 16 dicembre 2019 sul sito web di riferimento per il cinema di serie Z, Il Zinefilo di Lucius Etruscus. È lì che ogni tanto mi diverto a recensire “film brutti”, niente a che vedere con doppiaggi e adattamenti.


    Il trailer di Alien ci ha insegnato che nessuno può sentirti urlare nello spazio. Monolith, il film in cui un’automobile super tecnologica diventa trappola per una madre e suo figlio, ci insegna che nessuno può sentirti urlare se sei disperso nello Utah e per giunta sei pure scemo. Oh, la tecnologia aiuta solo fino a un certo punto.


    Ispirarsi a 2001: odissea nello spazio
    per poi fare Troll 2

    L’automobile del titolo (un banale e sgraziato Ford Interceptor, SUV utilizzato dalle forze dell’ordine americane ma dipinto di nero opaco e senza alcuna personalità) è, sostiene lo sceneggiatore Recchioni, addirittura un riferimento al monolito di 2001: Odissea nello spazio, da qui il nome dell’auto: Monolith. Come disse Stanley Kubrick: e me cojoni!
    Inoltre Lucius sarà contento di sapere che nel design dell’auto ci sono finiti pure i cerchi delle ruote che si ispirano al blindato di Aliens – Scontro finale. Qualcuno ne accosta alcune caratteristiche addirittura a Duel (ma ’ndo?). Potremmo anche dire che il fatto stesso che questo film esista è un omaggio ai fratelli Lumière.
    Vere, plausibili o presunte che siano, sono comunque fonti di ispirazioni altissime per un film su una cretina che resta chiusa fuori dalla sua auto.

    Tanti gli articoli italiani che elogiano i panorami dello Utah (e in questo io ci vedo più connessioni con Troll 2 che con 2001 ma lasciamo perdere) ma in alcuni di questi si percepisce la delusione per il film, Sentieriselvaggi dà la colpa addirittura all’attrice, rea di non aver elevato con la sua sola recitazione una trama vuota e ridicola; in secondo luogo danno anche colpa “alle tecniche di ripresa”.

    Ma la tensione vive di strappi improvvisi e non mantiene una costante capace di catturare fino in fondo lo spettatore. E questo è da imputare anche alla recitazione non sempre efficace della Bowden. L’attrice americana ce la mette tutta nel districarsi tra crisi isteriche di pianto, ruzzoloni lungo dirupi rocciosi, bestie fameliche e percosse alla carrozzeria con ogni tipo di strumento che le capiti sotto mano, ma non riesce a sostenere del tutto il ruolo con adeguati approfondimento psicologico e intensità espressiva. Inoltre, le tecniche di ripresa non centrano sempre l’obiettivo di imprimere il giusto dinamismo e la dovuta accelerazione ad una situazione di base statica come quella di un’automobile ferma in un desolato scenario naturale.

    [da www.sentieriselvaggi.it/monolith-di-ivan-silvestrini/]


    La trama

    Pronto, trama?

    La trama più telefonata della storia del cinema inizia con un viaggio in macchina di una madre con suo figlio di pochi anni, ed inizia proprio con delle conversazioni telefoniche. Qualche telefonata ed è chiaro a tutti che il marito la tradisce, che la sua carriera da cantante è stata accantonata con rimpianto in favore della maternità. Le poche interazioni con altri personaggi rendono il film quasi vuoto (la scusa è che è girato nello Utah), quindi notare certi cliché risulta ancora più facile perché nel film non c’è letteralmente nient’altro che ti possa distrarre. Quando lei si fissa (senza alcun motivo) a guardare un cartone simile a quelli di Willy E. Coyote e in cui una cassaforte viene gettata giù da un dirupo per poterla aprire, sai già che è così che finirà il film. Le produzioni italiane si riconoscono subito da queste banalità narrative anche quando assumono attori americani e vanno a girare nello Utah (ci sono rimasti solo gli italiani a girare in Utah).

    Molte telefonate dopo (e ormai arrivata quasi a destinazione), la nostra madre protagonista ha un tardivo sospetto sulla fedeltà del marito che la video-chiama da una stanza d’albergo apparentemente identica alla stanza d’albergo da cui l’aveva video-chiamata anche la sua migliore amica. Decide quindi di mandare a fanculo la visita ai suoceri e di tornare indietro per cogliere il marito sul fatto, ma si sta facendo notte e l’autostrada sembra avere dei rallentamenti, così decide di affidarsi al navigatore della super-auto che le suggerisce di imboccare una mulattiera nel bel mezzo del deserto dello Utah per risparmiare 5 minuti sul tragitto. A Firenze si dice che l’ha fatto i’ guadagno d’i Lica.

    L’auto che guida, precisiamolo a questo punto, ha un assistente vocale ed è blindata all’inverosimile, evidentemente in attesa di una apocalisse alla Mad Max, e i sistemi di sicurezza dell’auto sono controllati anche in remoto attraverso una app per cellulare. È buio pesto, il bambino gioca con il cellulare della madre, lei intanto investe un animale selvatico ed esce dall’auto. Cosa potrà mai accadere adesso? Quello che immaginate. Il bambino attiva la funzione che chiamerò “Panic Room”, chiudendo fuori la madre e blindando completamente l’auto.
    Rimanendo sui detti fiorentini, la macchina super-tecnologica data in mano a questa qui è come mette’ la gravatta al maiale.

    Lei passa la notte all’addiaccio ma appena sopraggiunge il sole del mattino, scatta una corsa contro il tempo. Al bambino potrebbe pigliargli una botta di calore!

    E pensare che io mi sveglio alle 4:30 se mi dimentico le tapparelle un po’ alzate.

    In realtà la Monolith è più intelligente della madre e farà scattare l’aria condizionata in automatico, ma questo lei non lo sa, quindi comincia a girovagare per il deserto in cerca di aiuto. Incrocia un rivo, beve, parla costantemente con se stessa dicendo cose le cose più inutili mai sentite oppure sottolineando cose già chiarissime allo spettatore. Mi ricorda mia madre che durante i viaggi in auto leggeva ad alta voce i cartelli autostradali e le insegne dalla noia.

    Finalmente trova l’indicazione per un aeroporto ma è abbandonato da tempo. Un Boeing è lì che prende polvere, sventrato di qualsiasi apparecchiatura elettronica. Non una radio in vista, niente di apparentemente utile. Che sfiga essere stupidi — sta pensando la protagonista — quando all’improvviso le viene un colpo di genio.

    Inizia una ricerca spasmodica di qualcosa a noi ignoto.

    Ha detto solo cose inutili fino a questo momento, ora che vorremmo sapere che cosa cavolo sta cercando è diventata una tomba. È nel suo più totale silenzio che inizia la sequenza di scelte più imperscrutabili della stessa Provvidenza e che avvengono in quest’ordine:

    1. trova delle bottigliette d’alcool (si sono arrubbati pure i fili di rame di questo aereo abbandonato ma le bottigliette d’alcool l’hanno lasciate, ladri astemi)
    2. se ne beve una e se ne intasca altre (bere alcolici nel deserto, scelta furba)
    3. trova una boccia d’acqua vuota da 10 litri
    4. se la guarda
    5. si va a sedere su una poltrona dei passeggeri
    6. contempla i resti di un vecchio falò che nota dall’oblò dell’aeroplano
    7. guarda le bottigliette di alcolici che ha in mano

    Mmmh… mumble mumble, che cosa ci potrà mai fare? Se fossero gli anni ’90 avrebbero potuto fare subito Monolith il punta&clicca.

    Usa boccione con pollo di gomma (cit.)

    Nella scena successiva la vediamo allontanarsi dall’aeroporto mentre alle sue spalle in lontananza si alza del fumo nero di copertoni bruciati a cui lei ha dato fuoco per, immagino, lanciare un segnale d’aiuto (?). La aiuta il fatto che tre soli copertoni in fiamme producano una quantità di fumo equivalente a quella di un pozzo petrolifero dato alle fiamme nella Guerra del Golfo. Purtroppo questo piccolo gesto ha solo immesso diossina nell’ambiente senza portarle alcun beneficio, del pozzo petrolifero in fiamme infatti non se ne parlerà più, né verrà notato da nessuno.

    Ritorna al fiume con quel polverosissmo boccione trovato sull’aereo e prova direttamente a riempirlo con l’acqua del ruscello (ma sciacqualo prima, no?). Pensereste a questo punto che lo vorrà usare per non morire di sete nel deserto e invece il film ha molte sorprese in serbo per voi. Essendo il rivo d’acqua troppo poco profondo, inizia a riempire il boccione da 70 litri con quello che nella mia memoria è un cucchiaino da caffè, ottenendo così qualche decilitro di acqua che da fresca di fiume è diventata lercia marcia visto che non aveva sciacquato il boccione neanche per sbaglio.

    Il boccione lercio marcio

    Poco importa, scopriremo presto che l’acqua non serve per la sopravvivenza. Ritornata all’automobile, infatti, ne versa il contenuto sul tettuccio. Questo nella mente a fumetti della protagonista dovrebbe abbassare la temperatura interna dell’auto che intanto aveva raggiunto i 42 gradi centigradi. Ehi, a proposito, strano ambientarlo in America e dare la temperatura in gradi centigradi, sembra quasi un film italiano che cerca di spacciarsi da film americano.

    Comunque, tanta fatica e tanto mistero per poi versare dell’acqua sporca sul tetto di una macchina in mezzo al deserto. Sono certo che questo avrà inciso in maniera importante sulla temperatura nell’abitacolo.

    Mamme che nel deserto fanno indossare un pelouche ai propri figli

    Notando che il suo versamento d’acqua non ha avuto effetto tranne quello di rinfrescare la carrozzeria per 20 secondi, la protagonista ne pensa un’altra delle sue. Si ricorda che qualche ora prima il computer dell’automobile aveva aperto i finestrini in automatico quando il fumo della sua sigaretta aveva fatto scattare l’allarme anti-incendio (sì, fumava con il bambino piccolo in macchina, non mi fate dire altro). Decide dunque di appiccare un falò davanti all’automobile per ricreare le stesse condizioni. La macchina, essendo più intelligente di lei, blocca la ventola di aerazione che immette aria dall’esterno per evitare che fumi tossici entrino nell’abitacolo, così adesso la macchina con il bambino dentro non solo è a 42 gradi ma non ricambia nemmeno ossigeno con l’esterno. Qualcuno le tolga la patente di vita.

    Frustrata e arrabbiata con la macchina, ma in realtà con se stessa (e a buon ragione), prende la chiave inglese in acciaio che aveva recuperato nell’aeroporto abbandonato e comincia a colpire la macchina blindata con grande dispendio di energie e soprattutto sui punti più forti, cominciando dai bordi del cofano, per poi passare alle strutture portanti, colpendo sempre in punti diversi. Ai vetri invece non dà più di due colpi in totale… si sa, il vetro (per quanto blindato) tipicamente è la parte più resistente di qualsiasi veicolo. Più scema che disperata, molla la chiave inglese da 25 kg e comincia a prendere a spallate l’auto, per poi crollare a terra quasi subito.

    Invidia dell’intelligenza

    A interrompere questi tentativi imbarazzanti arriva un randagio affamato che la costringe a nascondersi sotto l’automobile e le ruba la chiave inglese da 72 kg, ma per fortuna della donna il cane trova presto l’alce muschiata che era rimasta incastrata sotto al cofano dell’auto e si dedica a quel pasto.
    La signora E. Coyote a questo punto scopre che l’automobile era tenuta ferma solo da un sassolino appoggiato ad una ruota da carro blindato di Aliens! Essendo in folle e su terreno leggermente scosceso, basterebbe togliere il sassolino da sotto la ruota per far sì che l’auto si avvii verso un dirupo con il bambino all’interno.

    Mamme che spingono i bambini giù dai dirupi.

    Come qualsiasi mamma del mondo farebbe, la nostra signora ACME getta (mi vergogno anche a scriverlo) l’auto nel burrone con il bambino dentro. E perché non dovrebbe farlo? Dopotutto nel cartone animato aveva funzionato per aprire una cassaforte! Siccome il film è un cartone animato che non fa ridere, questa risoluzione… funziona davvero! L’auto è così intelligente che si bilancia durante la caduta, riempie i pneumatici di liquido in modo da attutire una caduta di 20 piani e la ritroviamo beffarda ai piedi del precipizio, come se nulla fosse successo. Anzi, è anche più pulita di prima e il bambino all’interno, invece di essere gelatina, sta benissimo. Le particolari condizioni della caduta hanno portato l’auto a sbloccare i portelli che adesso si aprono con un tocco. Folle corsa all’ospedale, il bambino è salvo, lo spettatore no.


    Scoregge italiane ma “all’americana”

    I creatori di questo film sono riusciti a fallire anche nella più classica delle narrative di fantascienza: il tipico “che paura queste nuove tecnologie” con la macchina “intelligente” che potrebbe diventare una trappola mortale. Difatti la tecnologia incorporata nell’auto sembrava essere effettivamente intelligente, quello che terrorizza invece è una madre che pensa sia una buona idea spingere un’automobile giù da una scarpata con il figlio dentro… per la remota possibilità che questo porti all’apertura dell’automobile. Che paura, la stupidità.

    Al momento questo film troneggia con un bel 4,7 / 10 su IMDb.com, da non confondere con un altro Monolith che sta anche lui sui 4,5 / 10, quello del 1993 con Bill Paxton. Dev’essere il titolo che porta sfiga.

    In Italia ne hanno parlato quasi tutti benissimo, ovviamente. Chi è stipendiato per scrivere articoli difficilmente darà meno di 7, pur con qualche riserva. All’agenzia ANSA poi lavorano dei veri comici che scrivono:

    Thriller, fantascienza, dramma e humour nero si fondono nella storia di Monolith.

    Non è né thriller, né fantascienza e lo humour nero non è intenzionale quindi non vale. La qualità è televisiva, al massimo. Di quelli che passano alle 3 di notte.
    Il titolo dell’articolo che ho citato è: Monolith, una mamma contro un suv infernale, dire che si tratti di un titolo acchiappaclick è dir poco. Il SUV è assolutamente innocente di tutte le accuse.

    Questo CD me lo faccio autografare da Brad Fiedel.

    Ciliegina sulla torta, il tema musicale “Runaway” di tale Diego Buongiorno che compare verso la fine del film fa palesemente il verso a quello di Sarah Connor nel film “Terminator” (The Terminator, 1984). Diego, ha telefonato Brad Fiedel, dice che rivuole la sua musica. E gli spettatori i loro soldi. No, quello no, siamo in Italia e qualsiasi scoreggia girata “all’americana” è da elogiare e promuovere altrimenti si è automaticamente accusati di essere dei fan dei cinepanettoni. Se considerate la comicità di Boldi e De Sica stupida, cosa dire di una madre che getta volutamente un’automobile giù da un dirupo con il figlio dentro? Boldi che partecipa ad una gara di sci a cavallo di una tazza del cesso è di gran lunga più dignitoso.

     


    Altri articoli di Evit pubblicati su altri siti

  • TITOLI ITALIOTI: Jimmy Bobo – Bullet to the Head

    Locandina italiana di Jimmy Bobo Bullet to the Head con Sylvester Stallone

    Il pubblico italiano si domanda spesso chi si cela dietro la scelta di titoli italiani assurdi, insensati, “spoileranti”, incomprensibili, sgrammaticati o anche semplicemente scemi… quei titoli insomma che raccolgo nell’apposita rubrica titoli italioti. Il più delle volte ci dobbiamo fermare ad incolpare “quelli” della distribuzione, delle non ben precisate e anonime figure degli uffici marketing dei distributori cinematografici il cui scopo è quello di trovare un titolo il più accattivante possibile per il mercato italiano. Stavolta possiamo dire qualcosa di più sull’origine di un titolo che ancora fa sghignazzare internamente.

    Il 14 novembre 2012 viene presentato in anteprima mondiale al Festival del cinema di Roma Bullet to the head con Sylvester Stallone, letteralmente “una pallottola in testa” (frase presente nel film, nonché situazione ricorrente), è il ritorno di Walter Hill alla regia dopo un decennio di assenza dalle scene. Questo “action thriller”, molti mesi dopo il mezzo flop ai botteghini americani, arriva nelle sale italiane il 4 aprile 2013 con il titolo Jimmy Bobo – Bullet to the Head. Siamo l’unico paese a ricevere un titolo contenente questo buffo nome, Jimmy BOBO, che poi è il soprannome di James Bonomo, il personaggio interpretato da Stallone nel film. Cosa è successo al titolo di questo film nel lasso di tempo trascorso tra l’anteprima romana e l’uscita nelle sale italiane? Una cosa inusuale: la distribuzione ha chiesto agli italiani di scegliere un titolo, con un sondaggio su internet.

    James Bonomo alias Jimmy Bobo

    Il sondaggio per scegliere il titolo italiano di Bullet to the Head

    Il 21 novembre 2012, pochi giorni dopo l’anteprima romana, il blog ScreenWeek.it riporta l’annuncio dell’arrivo di Bullet to the Head nelle sale italiane il successivo aprile con un titolo a scelta tra questi tre:

    1. Jimmy Bobo
    2. Le regole di Jimmy Bobo
    3. Il codice di Jimmy Bobo

    Tutti e tre focalizzati sul buffo soprannome del protagonista. Sia ScreenWeek, BadTaste che Cineblog si fanno portavoce del sondaggio per la scelta del titolo con cui arriverà nelle sale del nostro paese. Una settimana dopo viene annunciato il titolo che ha ricevuto più voti.

    BadTaste riporta così la vittoria:

    Ad aver vinto, con il 40.1% delle preferenze, è stato Jimmy Bobo. La pellicola verrà quindi distribuita con questo titolo nei cinema dello stivale.

    E infatti qui trovate il sondaggione [che riporto anche nell’immagine sotto, dovesse sparire in futuro!]. Per non fare brutta figura hanno evitato di specificare il numero complessivo dei partecipanti. 100? 1000? 10.000? …10?

    Risultati del sondaggio per la scelta del titolo Jimmy Bobo Bullet to the Head

    E così vinse Jimmy Bobo in una scelta tra Jimmy Bobo, Qualcosa di Jimmy Bobo e Qualcos’altro di Jimmy Bobo.

    And the winner is… Jimmy Bobo

    Inutile girarci intorno, il problema di questo titolo “Jimmy Bobo” è che suona scemo. Sarà pure il nome del protagonista, ma come titolo del film è ridicolo, soprattutto se pensiamo che comunque la gente di solito prima sente un titolo e poi, forse, decide di guardare il film. In realtà non è neanche il nome del protagonista bensì il suo SOPRANNOME, nonostante la campagna pubblicitaria avesse cercato a lungo di giustificare questo Jimmy Bobo dicendo che era il suo nome, quasi fosse un nuovo John Rambo, cercando di dargli una qualche legittimità o addirittura dignità. Scavando nelle recensioni di chi sponsorizzava il sondaggio per la scelta del “nome più scemo per un film di Stallone”, sembra che fossero tutti concordi su una cosa: avrebbero preferito “Jimmy Bobo” e basta.

    Alla redazione di ScreenWeek piace il più semplice, Jimmy Bobo, proprio perché richiama i titoli più noti della carriera di Sylvester Stallone, sempre centrati sul nome del protagonista (Rocky, Rambo, Cobra) ed entrati tutti nella storia del cinema.

    Certo, Rambo, Rocky, Cobra… Bobo. Stessa epicità.

    Anche l’autrice dell’articolo su Cineblog, prima propone i tre titoli a scelta e poi ci tiene a specificare:

    A me piace il semplice “Jimmy Bobo”. A Voi?

    A noi non piace neanche Jimmy Bobo se è per questo.
    Di solito quando si propone un sondaggio al pubblico avrebbe anche senso non dare la propria opinione in merito, forse è stato suggerito di imboccare quella risposta? Jimmy Bobo liscio, senza ghiaccio. Le mie sono illazioni di poco conto, rimane comunque il problema della non-scelta, perché quelle tre opzioni non rappresentavano una vera scelta, sono semplicemente lo stesso titolo con qualche variante, e in più suona ridicolo. Come dite? “Bobo” è nel film? Beh, non c’era bisogno di metterlo anche nel titolo.

    Come diceva una vecchia pubblicità con Sylvester Stallone e regia di Zack Snyder (non sto scherzando): per essere credibili il nome è importante.

    (I distributori non hanno badato all’avvertimento della pubblicità.)

    L’effetto buffonesco di questo titolo non è sfuggito né al fumettista Leo Ortolani, che nel suo libro Il buio in sala presenta la recensione a fumetti del film con il titolo Jimmy Bobo – Una pallottola in testa al titolista italiano, né tanto meno a “Nanni Cobretti”, autore del blog i400calci, che sulla scelta dei titoli scrive:

    salta fuori che mettono a disposizione solo tre misere opzioni di cui la a) è triste, la b) è uguale alla a) ma con tre paroline in più, e la c) è un esatto sinonimo della b).
    Insomma: non siamo per nulla soddisfatti.

    e nello stesso post propone un contro-sondaggio con suggerimenti ironici come è nello stile dei 400 calci: “Uccidere in faccia“, “Bobo e Momo nemiciamici“, “Bobocop“, “Dio perdona, Jimmy Bobo… Boh“, “RamBobo“, “Fermati o Bobo spara“, “The ExpendaBobols“, etc…;

    Vignetta di Leo Ortolani su Jimmy Bobo intitolato una pallottola in testa al titolista italiano

    da CineMah presenta IL BUIO IN SALA, di Leo Ortolani. Pagina 33.

     

    L’intera recensione a fumetti la trovate sul sito di Leo Ortolani BULLET TO THE HEAD – la recensione di Jimmy Bobo.

    L’adattamento italiano di Jimmy Bobo

    Una piccola nota sulla versione italiana del film curata da Marco Guadagno (all’adattamento e alla direzione) che ci regala un adattamento a dir poco perfetto, senza grinze, con frasi naturali e nessuna traduzione diretta, molto lontano da alcuni suoi altri lavori disneyani o netflixiani di cui abbiamo parlato anche qui. Se in Dolemite Is My Name (recensito dal nostro Leo) abbiamo scoperto ad esempio che i “motherfucker” diventavano tutti invariabilmente “figlio di puttana” a scapito anche della naturalezza di alcuni dialoghi, in Jimmy Bobo abbiamo un “you motherfucker!” che diventa “brutto pezzo di merda!”, l’esclamazione “Jesus!” che diventa “cazzo!” e potrei andare avanti a lungo. Se sulla carta vi sembrano traduzioni non esatte è perché non avete il contesto della scena.

    Queste frasi, sentite nel contesto (così come tante altre frasi del film), suonano completamente naturali perché è ciò che direbbe una persona in lingua italiana nella stessa situazione. Si parla infatti di “adattamento” e non semplicemente di traduzione. È un concetto sempre più estraneo al pubblico di oggi che, pur con una conoscenza in molti casi limitata ma sovrastimata dell’inglese, pretende traduzioni alla lettera e questa cosa la chiama “fedeltà al testo originale”.

    Tolta di mezzo questa nota e mio plauso personale a Marco Guadagno (quando ce vo’, ce vo’), non facciamoci distrarre dalle cose serie e torniamo al nostro titolo scemo: JIMMY BOBO!

    Un concorso truccato?

    Di quanto fosse ridicolo il titolo se ne devono essere resi conto anche alla Buena Vista International in realtà, perché quando poi sono andati a distribuirlo hanno sentito il bisogno di introdurci l’originale “Bullet to the Head” come sottotitolo, il titolo con cui è arrivato in sala dunque non è semplicemente “Jimmy Bobo” come votato dal 40% dei partecipanti al sondaggio bensì “Jimmy Bobo – Bullet to the Head”. Quindi il sondaggio per scegliere “il miglior titolo italiano” cosa lo fate a fare?

    Per la scelta in sé non possiamo nemmeno dare la colpa ai partecipanti al sondaggio visto che, a conti fatti, la scelta era già stata fatta a priori e temo che l’idea del sondaggio sia stata una bieca manovra, un po’ pubblicitaria (far parlare del film grazie alle facili condivisioni di un “contest”) e un po’ paracula (se qualcuno se ne lamenta diremo che l’hanno scelto gli italiani con un “sondaggio su Facebook”). Intanto ci teniamo Jimmy BOBO, titolo italiota, a vita. Vediamo il bicchiere mezzo pieno però, pensate se si fosse chiamato POPO. Ad aggiungere un accento alla fine è un attimo.

    Comunque credo di aver capito chi lavora negli uffici italiani della Walt Disney…

    Il signor Burns con l'orsacchiotto Bobo, dai Simpson

    L’unico e VERO Bobo, con una pallottola in testa.