• L’inedita storia del doppiaggio italiano dei videogiochi

    L’articolo di approfondimento che segue è firmato da Damiano Gerli (The Genesis Temple, IGN, Wireframe), giornalista che si è specializzato nel raccontare la storia dei videogiochi come in pochi altri hanno mai fatto, andando a intervistare le persone coinvolte, ricostruendo vicende di almeno 20-30 anni fa, senza mai fermarsi al copia-incolla da Wikipedia e quindi sempre tirando fuori storie inedite che aggiungono nuovi pezzi del puzzle di un argomento di nicchia. Questo suo pezzo deriva da una serie di interviste inedite ai protagonisti del doppiaggio di videogiochi, che il blog Doppiaggi italioti ha il piacere di ospitare in esclusiva. Quindi buona lettura e preparatevi ad aggiornare Wikipedia… che manca roba! Sì, si parla anche del doppiaggio di Half-Life 2!

    Evit

    Per l’intero decennio degli anni ’80, la localizzazione del prodotto videoludico non era considerata necessaria per il mercato italiano. La notizia potrebbe sorprendere, specie a fronte di un livello medio di conoscenza dell’inglese non particolarmente elevato, ma c’è da considerare come, in generale, il mercato videoludico italiano esprimesse cifre piccole, molto inferiori rispetto ad altri paesi europei, oltre al fatto che non sarà stato difficile intuire il significato di quelle poche parole che si ripetevano sugli schermi degli arcade: ‘GAME OVER’. Nei primi anni ‘90 poi, un titolo era considerato di successo nel nostro Paese se riusciva a raggiungere le 1000 unità vendute.

    La traduzione dei videogiochi richiedeva investimenti che i distributori – spesso – non erano interessati né tantomeno spronati a fare, visti i numeri delle vendite. Ma i manuali cartacei inclusi nelle scatole spesso presentavano la lingua italiana, alcuni giochi beneficiavano anche di una traduzione, di solito quelli più semplici. I titoli più complessi invece, specialmente quelli con molti dialoghi come le avventure testuali o semi-testuali e i giochi di ruolo, venivano quasi sempre distribuiti in lingua originale.

    Videogiochi tradotti in italiano – Una storia di pirati

    Parlami di Loom. Schermata dal gioco Il segreto di Monkey Island

    L’argomento delle traduzioni finisce, per forza di cose, con l’incrociare quello della pirateria. Al di là di ovvi motivi di convenienza economica, nonché facilità di approvvigionamento (comprare titoli originali in Italia, in alcuni anni, era diventato pressoché impossibile), la copia pirata era ricercata dai giovani giocatori proprio perché arricchita da una traduzione, pur se spesso di livello amatoriale, raramente fedele all’originale.

    Nella disperata lotta contro la pirateria informatica, prima che in Italia il legislatore arrivasse a sancire definitivamente l’illegalità della copia non autorizzata del software (nel 1993!), distributori di software come Leader e C.T.O. furono costrette ad innalzare la qualità del prodotto, così da renderlo competitivo e maggiormente appetibile rispetto al mercato nero.

    Diverso era il discorso per le console, dove il problema pirateria era sostanzialmente inesistente: le aziende e i distributori erano maggiormente preoccupati dal combattere il fenomeno delle copie d’importazione. I manuali dei giochi Nintendo e Sega erano sempre disponibili in italiano, ma i giochi stessi raramente venivano tradotti, con la conseguenza che diversi fra i titoli più complessi non vennero mai distribuiti, proprio perché l’investimento nella traduzione non era ritenuto conveniente.

    Dopo il 1993, la situazione inizierà a cambiare rapidamente. Oltre alla legge contro la pirateria, elemento significativo ma non essenziale, in quel periodo i videogiochi iniziano ad accrescere il giro di affari e a imporsi all’attenzione dei media, con conseguenti investimenti di marketing sempre maggiori. Gli stessi titoli diventano più complessi, graficamente e narrativamente: cresce il gradimento del pubblico verso le avventure grafiche, genere caratterizzato da lunghi dialoghi e da conversazioni tra i personaggi durante le sequenze animate (o cutscenes).
    È proprio intorno ai primi anni novanta che nascono i primi uffici e team dedicati alla localizzazione: il tempo dei primi doppiaggi è vicino.

    I primi videogiochi doppiati in italiano

    Ignorando volutamente alcuni titoli doppiati all’estero che avevano pochissimi intermezzi parlati e che facevano uso di doppiatori palesemente non italiani (es. Alone in the Dark 3 nel febbraio 1995 e Inca 2: Wiracocha del 1993), oltre ad alcune esperienze legate al CD-i, sono Gabriel Knight 2 – The Beast Within, sviluppato dalla Sierra Entertainment e Sam & Max – Hit the Road, dalla LucasArts, tra i primi videogiochi a uscire sul mercato nazionale interamente tradotti e doppiati in italiano, da italiani. Affermare con assoluta certezza quale tra i diversi titoli detenga il primato, senza date di uscita precise alla mano, non è possibile. In ogni caso, al di là della poca utilità storica dell’esercizio, dalle conversazioni avute durante le ricerche per questo articolo, è ragionevole ritenere che Sam & Max sia un lavoro iniziato prima rispetto all’avventura Sierra.

    Si tratta di due prodotti radicalmente diversi, non solo perché sviluppati da due software house storicamente “antitetiche” come Sierra e LucasArts, ma anche perché il loro adattamento italiano ha seguito strade sostanzialmente diverse nella filosofia, seppur parallele.

    Sam & Max Hit the Road (doppiaggio italiano 1995)

    Schermata di gioco da Sam e Max Hit the Road in versione italiana

    Per Sam & Max, la C.T.O. – mi racconta Gabriele Vegetti, ex addetto dell’ufficio localizzazione per il distributore bolognese – si trovò davanti a una mole di lavoro non indifferente. Il publisher di Zola Predosa (BO) prese contatti con il vicino studio di doppiaggio Florian, gestito da Alessandro Zucchelli: un sodalizio lavorativo che si rivelerà vincente negli anni successivi, interrotto solo dal fallimento del distributore bolognese. Onde selezionare le voci adatte per doppiare i giochi, il cliente (principalmente LucasArts ed Electronic Arts, più altre software house minori)  inviava un campione delle voci originali, affinché la C.T.O. potesse selezionare una serie di voci potenzialmente adatte. Sulla base dei campioni si procedeva a fare dei provini per i ruoli principali che venivano, in seguito, inoltrati al committente affinché scegliesse le voci adeguate.

    Ma per Sam & Max, la strada fu ben più impervia: sia i provini che il casting dei personaggi richiesero parecchio tempo. Gli ostacoli che C.T.O. doveva affrontare, oltre che di natura artistica, erano anche squisitamente tecnici: la LucasArts fu costretta a provare diversi metodi d’invio dei file per la traduzione prima di trovarne uno efficace. Emblematico, a tal proposito, il ricordo di Federico Croci – ex PR per la software house bolognese Simulmondo – che racconta di esser stato fermato nei corridoi dell’azienda bolognese e invitato a recitare qualche frase, catturata su un registratore portatile, affinché potesse essere inserito nel gioco. Non sappiamo, però, se compaia o meno tra le “62 voci” che C.T.O. pubblicizzava all’epoca su riviste di settore come The Games Machine.

    Pubblicità di Sam & Max in italiano su The Games Machines numero 73 del marzo 1995

    Pubblicità di Sam & Max in italiano su The Games Machines n°73 del marzo 1995

    La complessità della lavorazione è confermata anche dal notevole ritardo con cui venne pubblicata sul mercato l’edizione contenente il doppiaggio italiano. Anche in assenza di date precise, la versione italiana sembra arrivare sul mercato solo nella primavera del ’95, quasi un anno e mezzo dopo l’originale uscita sul mercato di Hit the Road, avvenuta nell’ottobre del ’93. Nei ruoli dei protagonisti c’erano Riccardo Rovatti (Max) e lo scomparso Pier Luigi Zollo (Sam).

     

    Gabriel Knight 2 – La bestia brutale (1995)

    Gabriel Knight 2 gioco per PC con scatola in italiano

    La parallela esperienza del doppiaggio a Milano, invece, nasce a metà anni novanta. Gabriel Knight 2 – The Beast Within (letteralmente: la bestia dentro) fu adattato per l’azienda meneghina Synthesis, fondata nel 1995 da Max Reynaud e Andrea Minini Saldini. I due, rispettivamente caporedattori di riviste specializzate come The Games Machine e Consolemania, avendo già contatti con publisher e sviluppatori, avevano deciso di fondare un’azienda che potesse rimediare alla storica mancanza di qualità e attenzione alle traduzioni. La direzione del doppiaggio di Gabriel Knight II viene affidata a Gigi Rosa, noto al pubblico – tra le altre cose – per essere la storica voce di Crystal nella fortunata serie animata I cavalieri dello zodiaco.

    Schermata di gioco da Gabriel Knight 2

    I giochi e i doppiaggi si fanno… cinematografici.

    I due protagonisti, Gabriel Knight e Grace Nakimura, sono doppiati proprio dallo stesso Gigi Rosa e Dania Cericola. L’attore racconta che La bestia brutale rappresentò un lavoro sostanzialmente affine a uno cinematografico: si trattava di doppiare filmati già pronti, così come poi succederà per l’altra avventura/film interattivo della Sierra, Phantasmagoria, diretto dallo scomparso Silverio Pisu e uscito in italiano nel dicembre del 1995. “Furono lavori eccezionali e molto curati” ricorda Rosa “da lì in poi, si è passati a lavorare quasi sempre sulla forma d’onda. Mi sembra il caso, infatti, di parlare di localizzazione dei videogiochi piuttosto che di doppiaggio: senza che l’attore veda il labiale, mi sembrerebbe il termine più opportuno”.

    Pubblicità del gioco Phantasmagoria doppiato in italiano in uscita nel dicembre 1995

    Pubblicità di Phantasmagoria su The Games Magazine n°77 del luglio 1995

    Claudio Moneta, doppiatore del Barone Von Glower in Gabriel Knight II, concorda: “In effetti i primi videogiochi doppiati a Milano rappresentano un’esperienza piuttosto unica, avevamo un prodotto già finito su cui lavorare agevolmente. All’epoca, poi, non avevamo uno schermo del PC su cui lavorare: si ascoltava il file audio e si recitava sopra. Non lo visualizzavi, lo sentivi e basta. Ma furono esperienze che non durarono molto, già a fine anni ’90 si era passati alla forma d’onda.

    C.T.O. – La scuola di teatro approda a Bologna

    Per quasi tutti i videogiochi di cui C.T.O. curerà l’adattamento e il doppiaggio, con lo studio Florian, la modalità di lavorazione – confermata da attori come Renato Cecchetto e Massimo Antonio Rossi – era, come definito da loro stessi, “al nero”, diversamente dalla classica “forma d’onda” che diventerà lo standard per la maggior parte dei successivi lavori di doppiaggio.

    Ma non chiamatelo “doppiaggio”, precisa Renato Cecchetto, bensì si trattava di una “lettura interpretata” da parte dell’attore che leggeva dialoghi tradotti e adattati sempre dalla stessa azienda bolognese. Avere la possibilità di lavorare con gli stessi traduttori e adattatori presenti in sala, allo studio Florian, aiutava molto gli attori. Massimo Antonio Rossi, attore e doppiatore per lungo periodo con C.T.O., ricorda:

    Si iniziava ascoltando l’originale (quando era disponibile) quindi si interpretava modulando intonazioni e intenzioni secondo le sintetiche descrizioni delle scene che ci suggeriva in cuffia l’assistente al doppiaggio; il quale, a sua volta, seguiva le note a margine alle varie battute del copione.

    Foto del catalogo di giochi doppiati dallo Studio Florian di Bologna

    Foto dallo studio Florian

    Era un tipo di lavoro che vedeva privilegiare chi veniva da una formazione teatrale, come lo stesso Rossi. “Avendo alle spalle molta prosa radiofonica, non mi era nuovo l’impegno di cercare di dare una resa “evocativa” alla recitazione, senza doversi basare sulle immagini. Certo a volte si lavorava in carenza o vera e propria incompletezza di descrizioni. Soprattutto su luoghi dell’azione e prossemica tra i personaggi. Facile immaginare quanta differenza ci sia se i personaggi si parlano da 10 metri all’aperto o seduti a un tavolo in una biblioteca o, ancora, in una bettola medievale tra ubriachi urlanti. Erano quindi fondamentali le informazioni disponibili, lo scrupolo del supervisore al doppiaggio (in questo senso con Vegetti mi trovai ottimamente) e, credo, la capacità di ogni singolo doppiatore di sopperire, alla bisogna, con fantasia e acume.

    Gli fa eco Renato Cecchetto, direttore del doppiaggio di Grim Fandango (1998) e storica voce del protagonista Manny Calavera: “L’attore si trovava un numero considerevole di battute da recitare, non si trattava proprio di doppiare, bensì di leggere. Da un lato, è vero, una lettura interpretata richiedeva mediamente meno tempo di un doppiaggio sul labiale, nonostante fosse comunque richiesto un rispetto piuttosto rigoroso dei tempi e dei timecode. Benché non fosse una pratica diffusa, entrai immediatamente con relativa facilità in questo modo nuovo di lavorare: l’ottica di C.T.O. era molto attenta in questo senso.

    Scatola italiana di Grim Fandango gioco per PC doppiato in italiano con la voce di Renato Cecchetto

    50 personaggi e 7000 battute di dialogo!

    I doppiaggi curati dalla C.T.O. con lo studio Florian rappresentano un’esperienza unica nel panorama dei doppiaggi, vuoi per il calibro degli attori utilizzati, vuoi per l’attento e scrupoloso lavoro sui copioni. L’azienda bolognese sembrava aver compreso pienamente quella che sarebbe stata la portata emotiva dei titoli della LucasArts in Italia, ricordati ancora affettuosamente dai giocatori quasi trent’anni dopo. Sono gli stessi attori a esprimere meraviglia quando ricordano che – tanti anni dopo – ancora vengono riconosciuti e celebrati per lavori su avventure grafiche degli anni ’90. Renato Cecchetto ricorda: “Avevo finito di recitare a teatro, quando mi è passato a salutare un mio amico che si è portato dietro un suo conoscente. Sono rimasto meravigliato quando questi – entusiasta – mi ha fatto i complimenti per il lavoro fatto su Manny Calavera! Così tanti anni dopo c’è ancora chi lo ricorda con così tanto affetto, fa davvero piacere.

    Massimo Antonio Rossi, ripensando all’esperienza con C.T.O. commenta che, a prescindere da chi avesse più o meno confidenza col microfono, attori professionisti di esperienza e buona formazione, in un contesto per molti versi “pionieristico”, liberi da sync labiali ma con ottimi adattamenti, potrebbero aver dato al pubblico emozioni meno filtrate o interpretazioni meno scontate. Anche la stessa Lucasarts non ha mancato di apprezzare i lavori di C.T.O. e Studio Florian: lo stesso Rossi ricorda una lettera, mostratagli con comprensibile fierezza dal direttore dello studio Florian, Zucchelli – firmata dall’intero staff della software house statunitense – che attestava come quello italiano fosse “il miglior doppiaggio tra tutti”. “D’altronde” conclude “furono loro tra i primi a insistere per inserire i nomi dei doppiatori per tutte le diverse traduzioni del gioco, come per Fuga da Monkey Island. Fu la prima, e forse unica volta che vidi i “credits” delle voci, tra i quali il mio nome, riportati con tanto risalto in un videogioco.

     

    Il doppiaggio di videogiochi a Milano

    L’esperienza del doppiaggio a Milano nasce a metà anni novanta ruotando intorno ad aziende come Binari Sonori, Synthesis e Jingebell. Chiunque sia stato un videogiocatore nel decennio tra il 1995 e il 2005, ricorderà come le voci degli attori fossero spesso ricorrenti. Impossibile non riconoscere immediatamente attori come Giorgio Melazzi, Claudio Moneta, Marco Balzarotti, Emanuela Pacotto, Pietro Ubaldi, Luca Sandri. Nomi familiari anche a chiunque sia cresciuto con i cartoni animati della TV dei ragazzi di Mediaset negli anni ‘80 e ‘90.

    Le motivazioni di questa concentrazione dei lavori di doppiaggio intorno al capoluogo lombardo sono facilmente spiegabili con l’accentramento geografico delle aziende distributrici di videogiochi. Editori come Leader o Halifax nascono, infatti, nella zona milanese. Per quanto il mercato esprimesse numeri maggiori rispetto a pochi anni prima, i budget a disposizione rimanevano comunque limitati. Era, dunque, sicuramente più agevole portare avanti dei lavori con professionisti già impegnati con i cartoni animati trasmessi da Mediaset. Questi, d’altronde, erano generalmente meno pretenziosi dei loro colleghi della scuola romana, maggiormente legati al doppiaggio cinematografico. Parola degli intervistati!

    Foto del doppiatore Claudio Moneta

    Claudio Moneta al leggio

    Doppiatori di videogiochi, un lavoro “poco onorevole”

    La piazza meneghina è piuttosto piccola, ci si conosce un po’ tutti” racconta Luca Sandri, storica voce legata a protagonisti in videogiochi come l’italianissimo Tony Tough e Abe’s Exxodus. “Personalmente, ho iniziato perché la Jinglebell cercava voci e, oltre a me, hanno risposto diversi miei colleghi”. Claudio Moneta aggiunge: “All’epoca eravamo in pochi disposti a fare i videogiochi, venivano considerati dalla maggior parte il gradino più basso per un attore. Non esagero quando dico che era considerato più onorevole fare uno spot locale, magari anche del ferramenta, piuttosto che un videogioco”.
    Lara Parmiani (storica doppiatrice di cartoni animati come Daria e Dragonball) commenta che, in diversi casi, la considerazione del prodotto videoludico era davvero bassa: “i primi titoli erano fatti in maniera estremamente artigianale. Mi è capitato diverse volte di lavorare su videogiochi dove, vuoi anche per la maggior semplicità del lavoro, si ragionava in stile “buona la prima”. Alcuni li consideravano molto inferiori agli stessi cartoni animati”.

    In Italia, insomma, c’era poca consapevolezza della rivoluzione che i videogiochi stavano portando nel mondo dell’intrattenimento e – secondo alcuni – tuttora la situazione non è del tutto cambiata. Questa considerazione del videogioco come prodotto inferiore porterà anche conseguenze inattese, come ricorda il direttore del doppiaggio Leonardo Gajo (Assassin’s Creed II, Bioshock): “All’epoca gli attori avevano poca consapevolezza della novità del prodotto videoludico. Noi come direttori capivamo che per l’utenza erano prodotti importanti, poi per carità, non che avessimo questo gran gusto… La recitazione da cartone animato – per quanto valida – era spesso poco adeguata per un videogioco comunque destinato a un pubblico più maturo del cartone animato che andava in onda su Italia 1.

    Claudio Moneta conclude: “Per quanto mi riguarda, non mi sono mai posto il problema dell’onorabilità. Siamo doppiatori: facciamo tutto quello che ci compete quando ci chiamano e al meglio delle nostre possibilità.

     

    Il doppiatore di videogiochi, una figura inventata a Milano

    Per quanto l’esperienza C.T.O. rimanga importante, resterà separata oltre a tramontare con il fallimento dell’azienda bolognese nei primi anni duemila. Lecito, dunque affermare come la figura del “doppiatore di videogiochi” nasca ufficialmente a Milano, in seguito all’aumento vertiginoso dei lavori dalla metà anni ‘90 in poi.

    Emanuela Pacotto (The Last of Us, Resident Evil 2) ricorda come, inizialmente, ci fosse molta libertà e pochissimi controlli da parte del committente, spesso le battute venivano cambiate anche in studio. La maggior rilassatezza viene menzionata anche da diversi direttori del doppiaggio, Gigi Rosa ricorda come le stesse aziende di distribuzione attendessero l’eventuale successo di un prodotto sul mercato estero, prima di procedere a un costoso lavoro di adattamento e doppiaggio. Giorgio Melazzi ricorda: “Milano era diventata una base, queste esperienze nacquero prima a sprazzi per poi diventare via via una sequenza sostanzialmente ininterrotta di lavori.

    Abbiamo visto come la figura del doppiatore di videogiochi nasca in parallelo ai doppiaggi dei cartoni animati Mediaset (all’epoca Fininvest, ma sono dettagli). Furono gli attori stessi a decidere le regole del mercato, comprese le tariffe. Marco Balzarotti (Batman nella serie animata e in innumerevoli videogiochi ) commenta: “i prezzi per le nostre prestazioni li abbiamo decisi praticamente noi [riferendosi al gruppo dei doppiatori di Milano NdR], non c’era alcun precedente in materia”. La situazione viene confermata anche dalle poche doppiatrici, tra cui proprio Emanuela Pacottosono arrivata più tardi rispetto ai miei colleghi maschi ed economicamente ho accettato la situazione da loro decisa in precedenza, specialmente perché il contratto nazionale non è mai stato aggiornato!”. Leonardo Gajo commenta: “Pagavamo regolarmente a fine mese: lavoravi il 18, il 30 ti arrivavano i soldi. Per gli attori era del tutto inedito”. La situazione non era altrettanto stabile nel mondo doppiaggio del cinema e dei cartoni animati.

     

    Dalle “letture interpretate” alla forma d’onda

    A fronte dei primi doppiaggi cinematografici, molti dei veterani del settore come Claudio Moneta e Gigi Rosa confermano come arrivò presto il passaggio alla forma d’onda. Pietro Ubaldi, inconfondibile voce d’innumerevoli personaggi nei cartoni e trasmissioni per ragazzi Mediaset, ricorda il diverso modo di lavorare nei videogiochi: “si trattava d’imparare da zero un lavoro nuovo, ma d’altronde siamo attori e il nostro mestiere è proprio quello d’interpretare! L’ideale è fare un lavoro decente nel minor tempo e costo. Noi viaggiamo a cottimo, stando dietro alla forma d’onda”.

    La forma d’onda è un modo di doppiare ove l’attore ascolta l’audio originale e recita la propria battuta mantenendosi su un tono simile e, soprattutto, nel tempo specificato. Con l’ausilio del monitor, l’attore ha anche modo di capire le pause e i tempi, visualizzando – appunto – la forma d’onda dell’audio originale.

    In dettaglio, lavorare sulla forma d’onda pone l’attore di fronte a diversi casi:

    • battute che non necessitano un’interpretazione che resti nella lunghezza (“tolleranza libera”, come nei casi della registrazione “a nero”, voice-over);
    • battute in “soft time-constraint” (un tempo della battuta con una tolleranza tempistica maggiore);
    • battute in “time-constraint” (il tempo della battuta è fisso, con una tolleranza minima non oltre il 20%);
    • battute in “sound-constraint” o, più banalmente, lip-sync (l’attore deve rispettare le pause interne e la medesima scansione).

    Riguardo a quest’ultima modalità di doppiaggio, nel caso dei videogiochi, Claudio Moneta commenta che trattasi di un metodo non perfetto di sincronizzazione: “Si tratta di quel modo di doppiare che ti sarà capitato di vedere in alcuni programmi moderni, è un sincrono artificioso a cui non siamo proprio abituati, specie noi Italiani che abbiamo inventato il doppiaggio in sync! È qualcosa che andrebbe controllato a video, non sull’audio.

    Vi sono anche, ovviamente, casi – sicuramente diventati più frequenti negli ultimi anni – in cui si doppia direttamente sul labiale dei personaggi, come per esempio nei filmati di presentazione dei nuovi personaggi di Overwatch. In quei casi valgono le stesse regole del doppiaggio cinematografico.

    Nei primi lavori, vuoi anche per la scarsità d’informazioni, i doppiatori erano spesso coadiuvati da un disegno o uno storyboard, avendo almeno la possibilità di vedere il volto del personaggio, specie se si trattava di uno tra i principali. “All’inizio si doppiava anche su sequenze video brevi, magari vedendo delle facce o con degli sketch” ricorda Pietro Ubaldipoi è cominciata l’epoca dei file audio, l’onda è presto diventata quasi sempre l’unico punto di riferimento. Spesso se devi fare un personaggio nuovo, ti fanno vedere un’immagine ti danno un’idea di quello che vorrebbero ottenere”. Emanuela Pacotto sposta l’attenzione sui rapporti con il committente: “dipende anche dalle tempistiche, noto che oggi c’è una gran paura che trapeli in rete qualcosa, essendo tutto più accelerato. Mi è capitato di recente di fare prodotti di cui non mi è stato detto nemmeno il titolo! Certamente, negli anni ’90 questo problema non c’era”.

    Per l’attore, il pericolo “bolla” è in agguato. Marco Balzarotti spiega: “Quando registro, sono in colonna separata. Non ho quasi mai la fortuna di poter ascoltare l’altro attore con cui sto dialogando (a volte potrebbe essere anche me stesso!) e il tono con cui mi risponde. È sempre difficile capire, in loco, se hai fatto un buon lavoro o meno. Quando mi dicono che è ben riuscito, sono il primo a rimanere stupito!”. In effetti, è agevole notare come nei videogiochi capiti di essere spiazzati dallo scollamento di tonalità tra una battuta e l’altra di personaggi diversi. “Spesso – spiega Moneta – non è neanche colpa del direttore del doppiaggio, magari vi sono motivazioni strettamente tecniche o il materiale all’origine non è stato fornito nella maniera corretta.”
    Lo scostamento di toni è qualcosa assolutamente da evitare” commenta il direttore del doppiaggio Leonardo Gajo “so di aver fatto un buon lavoro quando la conversazione suona quanto più naturale possibile, senza forzature di alcun tipo”.

    Foto del doppiatore Marco Balzarotti

    Marco Balzarotti

     

    Anni 2000, il doppiaggio dei videogiochi comincia a farsi notare

    Negli anni duemila, confermato da tutti gli intervistati, il lavoro del doppiatore di videogiochi diventerà un ruolo importante per la piazza meneghina. I videogiochi, con l’arrivo delle nuove console Playstation 2 e Xbox, nonché al conseguente aumento dei budget di sviluppo e marketing, allargano sempre più il pubblico di riferimento. Viene meno anche quel residuo di artigianalità che ammantava precedentemente il doppiaggio videoludico, muovendosi in un’area definitivamente professionale. Il direttore del doppiaggio Leonardo Gajo ricorda, infatti, come sia venuta meno la rilassatezza dei tempi, specie con l’arrivo di serie come Call of Duty: “il giocatore non avrebbe più aspettato mesi per avere un titolo tradotto, bisognava arrivare sul mercato con tempestività. La versione italiana doveva uscire contemporaneamente a quella originale.

    Con una comunità di attori ridotta e dei budget perennemente limitati, anche una produzione di alto rilievo come il seguito di uno dei più famosi giochi di ruolo di Blizzard Entertainment, Diablo 2 (2000), utilizzava 10 attori per quasi 60 personaggi diversi. Il risultato, ovviamente, è che medesimi attori vengono usati anche per ruoli completamente antitetici come Giorgio Melazzi nei panni del buon Deckard Cain… e in quelli del demone Diablo stesso.
    Lo stesso doppiatore, Melazzi, commenta: “Chiaramente, non è un tipo di doppiaggio cinematografico, poiché non hai necessità di aderire alle mille sfumature del viso dell’attore. È vero che la recitazione lo avvicina più a un radiodramma, per fortuna io ho avuto molta esperienza sul campo, quindi ero facilitato. Non sono mai stato d’accordo sul considerarlo un lavoro di serie B, si arriva anche a fare delle cose emotivamente molto belle.

    Scatola di Diablo II per PC e doppiato in italiano

    Il pubblico nutriva sicuramente curiosità verso questa novità nel campo dei videogiochi sul territorio nazionale, ma, a quanto pare, non c’era altrettanto interesse da parte della stampa e dei giornalisti di settore ad approfondire l’argomento doppiaggio nei videogiochi, eccetto casi sporadici. Claudio Moneta ricorda un episodio in cui, cercando un titolo in un negozio di videogiochi nel 2010, dopo qualche minuto riconobbero la sua voce e molti clienti del negozio si dimostrarono entusiasti dell’incontro. “Fu davvero un caso clamoroso quello, rimasi molto stupito io stesso!

    Giorgio Melazzi ricorda di aver raggiunto una certa inaspettata fama, specie negli anni tra il 1999 e il 2003 in cui era coinvolto nel doppiare diversi protagonisti, come nelle serie Max Payne e Halo (eccetto il primo titolo, dove il protagonista, Master Chief, era doppiato da Dario Oppido). “Godevo di una piccola popolarità, sono anche stato contattato per interviste da diverse webzine” ricorda Melazzi, ma c’è anche un’occasione più particolare: “Diversi fan mi contattarono affinché tornassi a prestare la voce a Max Payne per il terzo titolo, mi ricordo che fecero anche una petizione; ma alla fine il gioco non fu mai doppiato.”.

    A tal proposito, Emanuela Pacotto racconta come fu la prima a – finalmente – decidere di parlare di doppiaggi dei videogiochi, in un evento del 2011 all’importante fiera Lucca Comics. “L’attenzione del pubblico era particolarmente rivolta sempre ai cartoni animati, ho voluto così proporre questo nuovo argomento che diventava sempre più importante. Da parte degli organizzatori non mi pare ci fosse molta fiducia nell’interesse nel pubblico e invece l’evento era pienissimo, con tanto di fila all’esterno! Da lì in poi, è diventato un evento annuale, un luogo dove si parla e discute di doppiaggi dei videogiochi regolarmente.

    Emanuela Pacotto al LuccaComics 2011

    Emanuela Pacotto al LuccaComics 2011

    Su YouTube è presente una ripresa dell’intero intervento di Emanuela Pacotto al LuccaComics del 2011 nell’incontro chiamato: “Emanuela Pacotto dà voce ai videogames”. Dura 42 minuti e lo trovate qui.

     

    Doppiatori cinematografici nei videogiochi

    Nonostante gli apprezzamenti e i numeri importanti, nei primi anni duemila il doppiaggio di videogiochi in Italia resta una nicchia assicurata da un numero limitato di professionisti. La domanda sorge spontanea: come mai non si chiamavano i doppiatori di esperienza cinematografica? Può essere utile richiamare uno dei primi casi in materia, il titolo LucasArts Indiana Jones e la macchina infernale. Gabriele Vegetti ricorda come fu lo stesso sviluppatore a richiedere che si utilizzasse il doppiatore “ufficiale” dell’intrepido archeologo: Michele Gammino. “Non era qualcosa che succedeva normalmente all’epoca”, racconta Gabriele Vegetti “chiamare un doppiatore professionista, oltretutto da Roma, per farlo venire a Bologna a registrare presso lo studio Florian aveva dei costi che avvicinavano il budget a quello di un film”.

    Lo stesso anno, sempre il doppiatore romano verrà anche chiamato a doppiare il protagonista nel videogioco di Blade Runner, della Westwood Studios, distribuito in Italia da Leader. Gammino non verrà richiamato per i successivi giochi di Indiana Jones, venendo sostituito invece da Dario Oppido per La tomba dell’imperatore e, infine, proprio da Claudio Moneta nel Bastone dei Re. Parlando con Claudio della sostituzione, mi conferma che, tutto sommato, non si è sentito di esser stato influenzato da quanto fatto da Gammino nei film e nei giochi. “È stata sicuramente un’esperienza che ho tenuto presente, ma è anche giusto che io portassi al personaggio il mio bagaglio di conoscenze e di tecniche”.

    Per quanto non fu l’unico caso (i giochi Disney legati a Monsters & Co. dei primi anni 2000 sono un ottimo esempio), per molto tempo – principalmente per questioni economiche – il coinvolgimento di doppiatori cinematografici in produzioni videoludiche rimarrà un’eccezione.  Sei anni dopo La macchina infernale, nel 2003, Luca Ward inizierà un duraturo rapporto con Ubisoft per doppiare Sam Fisher, protagonista della serie Splinter Cell. “Certe esperienze hanno anche aiutato a far cambiare l’opinione generale del doppiaggio dei videogiochi” commenta Gajo. Il mancato uso dei doppiatori cinematografici, infatti, incrocia proprio il tema del cachet: ci furono casi in cui alcuni doppiatori della scuola romana furono pagati generosamente per riprendere, in alcuni prodotti videoludici, personaggi doppiati in precedenza. “Da allora” ricorda sempre il direttore del doppiaggio “le pretese dell’intera scuola romana salirono, la conseguenza è che fummo costretti a usare dei sound-alike in diversi casi, per esempio nel videogioco tratto dalla serie TV Lost o per Pirati dei Caraibi – Ai confini del mondo.

    A proposito di cachet da capogiro, il proprietario di questo blog, Evit, aveva già narrato di cifre esorbitanti sborsate dalla Vivendi Universal Italia per far doppiare Ghostbusters: il videogioco (2009) da molti dei doppiatori del cast cinematografico. Un suggerimento caldamente sostenuto dal fanclub italiano della serie, come emerge dalla sua intervista al fondatore di Ghostbusters Italia.

    La situazione cambierà definitivamente solo nel momento in cui proprio Gajo – attraverso conoscenze nell’ambiente – riuscirà ad allargare il novero degli attori a disposizione, in occasione del doppiaggio dei numerosi personaggi nell’originale World of Warcraft. Gigi Rosa definisce quanto fatto da Gajo come “pionieristico: quell’esperienza segnerà lo spartitraffico. Da lì in poi sempre più attori, anche dell’ambiente romano, si avvicineranno ai videogiochi con una conseguente maggior varietà e qualità del prodotto finale.

    Arrivano i talent anche nel doppiaggio dei videogiochi

    L’esperienza di Luca Ward con Splinter Cell presta il fianco a un altro argomento che – per un periodo – interesserà diversi videogiochi, principalmente di Ubisoft ed Electronic Arts: i “talent”. Con questo termine s’indica generalmente una celebrità, attore o meno, utilizzata per doppiare un personaggio in un prodotto d’intrattenimento. Nel mondo videoludico non se ne ricordano moltissime di esperienze del genere, ma quelle poche hanno lasciato un segno indelebile nei ricordi di molti giocatori.

    Dario Argento come doppiatore in Dead Space

    Dario Argento doppiatore in Dead Space

    Dal 2002 in poi, specialmente, alcuni publisher ritenevano fosse astuta mossa di marketing far partecipare al doppiaggio di un videogioco, personalità che spesso avevano poco o nulla a che vedere con il doppiaggio o il mondo videoludico in sé. “Tutta colpa di Disney!ricorda Renato Cecchetto. “Furono loro i primi a iniziare a introdurre personaggi celebri per doppiare personaggi in vari cartoni animati.”.
    In particolare, possiamo ricordare la partecipazione a Dead Space (2008, Electronic Arts) di Dario Argento che doppiò il personaggio del Dott. Terrence Kyne. “Rispetto a un doppiatore professionista, i talent spesso fanno un lavoro piuttosto discutibile, oltre ovviamente a richiedere un cachet di media almeno 20 volte superiore al nostro!” commenta Marco Balzarotti.

    Gabriel Garko che tiene in mano il videogioco Prince of persia di cui è doppiatore

    Gabriel Garko principe di Persia

    Interrogato sul senso di certe scelte, difficilmente spiegabili a livello recitativo, Gigi Rosa menziona il marketing: “si tratta di mettere un bollino “con la voce di” su un prodotto così da renderlo più appetibile al mercato.  Eppure, è riscontrabile un evidente scostamento dall’effettivo target di mercato lì dove, per esempio, Ubisoft chiamò Gabriel Garko a doppiare il protagonista di Prince of Persia – Warrior Within nel 2004, sostituendo l’originale Domenico Strati.

    C’è un grosso equivoco alla base di queste scelte” mi dice Moneta “si pensa che abbia senso sostituire un attore celebre che doppia un protagonista nella versione originale con un talent pescato a caso dal mondo della televisione o spettacolo”. D’altronde, per il pubblico nostrano, sono pochissimi i nomi del doppiaggio cinematografico che è in grado di riconoscere, per questo motivo si pensa che l’unico modo di compensare sia l’inclusione di talent. Gli fa eco Emanuela Pacotto: “nei cartoni Disney, i personaggi sono spesso disegnati intorno agli attori stessi, come successe per il Genio e Robin Williams in Aladdin. La stessa cosa certamente non capita né per i videogiochi né per la versione italiana degli stessi prodotti Disney: si finisce con l’avere dei risultati incredibilmente forzati!”.

    Altro caso è quello delle sostituzioni, lì dove un doppiatore meno famoso sostituisce quello cinematografico. Pietro Ubaldi menziona aver doppiato il personaggio di Hagrid in alcuni prodotti videoludici relativi a Harry Potter in sostituzione del noto collega Francesco Pannofino: “Le produzioni ci tengono a spendere di meno quando si tratta di videogiochi. Chiaramente, per un doppiatore pretendere più soldi è anche un modo per valorizzarsi, in un certo senso”. Claudio Moneta conferma l’opinione di Ubaldi, riferendosi in particolare alle esperienze videoludiche dove ha avuto modo di riprendere il personaggio di Spongebob.

    Tornando al coinvolgimento di Luca Ward, anche lui è stato “toccato” dall’esperienza con un talent lì dove fu affiancato, per il secondo titolo nella serie Splinter Cell, Pandora Tomorrow, da Morgan Castoldi (dei Bluvertigo), chiamato a doppiare l’antagonista di Sam Fisher. Sostanzialmente il giocatore passava dall’ascoltare una voce profonda e impostata come quella di un doppiatore professionista, alla discutibile recitazione di un cantante. Marco Caprelli, ex-brand manager per Ubisoft e responsabile del marketing per la serie Assassin’s Creed, Splinter Cell e Rainbow Six, afferma: “Servivano dei nomi che potessero interessare un target di pubblico oltre il mercato degli appassionati: da una parte, per motivi di vendite e dall’altra, perché un talent garantiva sempre una maggiore attenzione da parte dei media. Di certo non volevamo gli attori, ci interessavano i personaggi. Morgan era un nome in ascesa con delle pretese di budget non eccessive, aveva poi anche una vaga somiglianza col cattivo del gioco, ci parve una scelta sensata.”. Marco Balzarotti chiude con un sorriso sardonico: “Per caso, se io andassi a sostituire Morgan sul palco, la gente ne sarebbe contenta?

    E, riscontrando un curioso collegamento con i citati ‘Morgan’ e Dario Argento, una menzione finale riguarda anche l’altro membro della famiglia: Asia Argento. L’attrice romana è stata coinvolta nel doppiaggio della protagonista, Faith Connors, di Mirror’s Edge (2008) pubblicato da Electronic Arts. Sempre la Argento presenziò il lancio in Italia, a solo un mese di distanza dalla presentazione di Dead Space da parte del padre Dario. Un anno pieno per gli Argento nei videogiochi.
    Il lavoro non è stato affatto apprezzato da critica e pubblico, comparendo spesso nelle classifiche dei peggiori doppiaggi di videogiochi degli ultimi vent’anni.

    Asia Argento al lancio italiano di Mirror's Edge dove doppia la protagonista Faith

    Asia Argento al lancio italiano di Mirror’s Edge

    L’esperienza dei doppiaggi italiani all’estero

    Vi è una particolare categoria di doppiaggi su cui vale la pena spendere qualche parola: i doppiaggi realizzati da aziende inglesi all’estero. Si tratta di casi sicuramente residuali, una percentuale di lavori intorno al 5-10% nel panorama complessivo dei titoli doppiati. Erano, però, piuttosto frequenti nei primi tempi della Sony PlayStation, tra il 1996 e il 1998, più alcuni casi sporadici in seguito e nella prima metà degli anni ’90. Oltre all’ovvio fattore economico, bisogna tenere in considerazione che l”industria dei doppiaggi in Italia era ancora giovane e senza la necessaria esperienza, per cui Sony – evidentemente – preferiva una gestione accentrata di questi lavori da parte di agenzie estere che doppiavano, oltre all’italiano, anche altre lingue europee.

    Alessandro Ricci, doppiatore per diversi titoli tra cui Spyro the Dragon e Medievil, oltre ad aver diretto doppiaggi come The Legend of Zelda: Breath of the Wild, ricorda: “eravamo in pochissimi all’epoca disponibili a lavorare sul doppiaggio italiano a Londra. Era quindi facile che non tutti avessero certo la professionalità necessaria e, io in primis, di certo non mi son mai definito un attore! Mi piaceva lavorare con la voce, ma non avevo esperienza teatrale né di altro tipo. Poi figuriamoci, il mio direttore di doppiaggio era un francese… pur volendo, non avrebbe saputo giudicare in dettaglio la mia performance.”.
    Ricci è anche ricordato per essere stato il primo (temporaneo) doppiatore di Solid Snake nell’originario Metal Gear Solid: “me la ricordo come la miglior esperienza dell’epoca, c’erano sicuramente professionalità di un certo rilievo come Andrea Piovan, però la mia dizione era ben lungi dalla perfezione e ricordo diversi errori nell’adattamento. Si poteva sicuramente fare di più, specie perché avevamo sia la presenza degli sviluppatori giapponesi (Konami), sia di Halifax (Italiana) in sala, ma nessuno intervenne più di tanto sul lavoro”.

    Sia Alessandro Ricci che Lara Parmiani ricordano diversi doppiaggi all’estero in cui c’è stato pochissimo controllo qualità sul lavoro svolto. Si trattava di lavori molto frettolosi, svolti quasi a catena di montaggio, dove oltre alla poca preparazione professionale degli attori, anche la traduzione stessa lasciava spesso a desiderare. Poi, per buona grazia dei fruitori dei suddetti titoli, la buona esperienza dei doppiaggi milanesi iniziò a imporsi per qualità e professionalità e i lavori all’estero cominciarono a ridursi numericamente.

    Non possiamo non citare altri titoli con doppiaggi esteri come Codename: Tenka (1997, per PC e PS1), Nocturne (1999, PC), Hitman: Pagato per uccidere (2000, PC), Time Crisis: Project Titan (2001, PS1), Haven: Call of the King (2002, PS2), King’s Field IV (2003, PS2). Se li volete anche sentire qui c’è un bel video riassuntivo.

    Il curioso caso del doppiaggio di Half-Life 2

    Copertina del gioco Half Life 2Bisogna, però, parlare di un altro caso molto particolare di cui molti videogiocatori conservano ancora ricordi non proprio positivi: il doppiaggio in italiano di Half Life 2 (2004) e il seguito Half Life 2: Episode One (2005). Tra gli sparatutto che maggiormente hanno influenzato il corso della storia dei videogiochi, oltre al classico Doom, ci sono certamente Half Life della Valve e il suo seguito, che hanno avuto un peso esponenziale nella storia videoludica. Il primo titolo ebbe un adattamento discreto, oltre a un doppiaggio piuttosto generico: scelta comprensibile poiché non si aveva ancora idea del successo che avrebbe avuto. Discorso ben diverso per il seguito, titolo attesissimo dal grande pubblico e graziato da uno dei doppiaggi professionali maggiormente discutibili nell’intera storia videoludica. Molte delle voci coinvolte nel progetto, utilizzate per i personaggi secondari, non erano di madrelingua italiana, recitando con pesante accento tedesco/austriaco che portava tanti momenti, pensati per essere drammatici, a prendere un’involontaria verve comica.

    A tal proposito è Lara Parmiani, tra le poche voci professionali su Half Life 2 (Judith Mossman), a fare luce per la prima volta nella storia di questo famoso doppiaggio:

    Penso quel gioco sia stato doppiato a Londra. Fino al 2005/6 nella capitale c’era una serie di agenzie che si occupavano di videogiochi, siccome all’epoca non c’era ancora la facilità di doppiare a distanza, come oggi, l’agenzia aveva selezionato una serie di voci che riteneva “italiane”, senza alcun controllo qualità. Ricordo diversi attori, in particolare svizzeri, che nonostante fossero selezionati per interpretare ruoli nella nostra lingua, parlavano con un netto accento tedesco. I giochi doppiati a Londra di solito vengono controllati direttamente dai produttori, invece che dallo studio: loro selezionano per tono ma non si rendono conto che l’accento non è naturale. Ricordo che ero andata a fare una sessione e questi erano arrabbiatissimi perché avevano letto critiche online: ho cercato di spiegare quale fosse il problema, perlomeno.

    Insomma, si trattò di un altro prodotto su cui mancò completamente il controllo qualità. Di certo, nessun italiano ha mai riascoltato quel doppiaggio prima che il prodotto andasse nei negozi, il che, per un titolo così atteso da tutti e fondamentale per la storia dei videogiochi come Half Life 2, è davvero una macchia indelebile, ancora più inspiegabilmente ripetuta per il successivo Episode One. Probabilmente per motivi economici o per facilità organizzativa, quel titolo è stato colpito da una congiuntura sfavorevole che ne ha rovinato la fruizione in lingua italiana. Fortunatamente, comprando oggi il titolo su Steam c’è l’agevole possibilità di giocarlo con il doppiaggio originale inglese e i sottotitoli nella nostra lingua. Per quanto nessuno la biasimerebbe, a quanto pare Valve non ha proprio alcuna intenzione di andare a toccare quella sacra localizzazione!

     

    Il futuro del doppiaggio dei videogiochi

    Nel 2021, l’esperienza dei doppiaggi di videogiochi in Italia compie 26 anni e possiamo affermare che di passi in avanti ce ne sono stati tanti. L’esperienza milanese è cresciuta nel tempo, con i doppiatori storici che oggi, vuoi per motivi d’età vuoi per esigenze di prodotto, si ascoltano meno, pur risultando ancora presenti, spesso in ruoli minori. Sicuramente molti sono i contatti tra il doppiaggio cinematografico e quello videoludico, oggi sempre più vicini come filosofia e qualità. Ne è stata fatta di strada da quando i videogiochi erano considerati “poco onorevoli”.

    Ciononostante, alcuni attori esprimono perplessità per il futuro, specie riguardo alla decadenza della cosiddetta scuola di teatro. Emanuela Pacotto ricorda “prima tutti si arrivava da accademia o formazione attoriale/teatrale. Adesso, da quando la figura del doppiatore è balzata alla ribalta, in tanti si son svegliati con l’idea di voler fare la professione. Conseguentemente sono nate tante scuole di doppiaggio che illudono i ragazzi a pensare che, dopo poche lezioni, siano già pronti al mestiere.  Purtroppo i videogiochi sono uno di quei mercati dove persone con poca formazione riescono anche a lavorare”. Gigi Rosa conferma: “purtroppo non esistono più scuole di teatro, quelle serie. Il mio corso di recitazione è durato 3 anni, andavo dalle 7 di sera fino a mezzanotte, tutti i giorni, con sole 8 ore di sabato/domenica. Poi per carità, ci sono anche casi di persone senza gran gavetta di teatro che si confermano bravi doppiatori, ma sono casi rari.”.

    Luca Sandri a proposito della decadenza della scuola di teatro, commenta che trattasi di un male atavico derivante dalla scarsa lungimiranza dei produttori e gestori teatrali negli anni ottanta: “a forza di chiamare nomi televisivi per riempire le sale, le compagnie si sono praticamente estinte, oltre a mancare del tutto i registi”.

    Fabrizio De Flaviis dichiara: “per me è una combinazione di fattori: lavorare al risparmio, la necessaria velocità odierna del portare a termine i lavori e il progresso tecnologico. Questi sono i motivi per cui il doppiaggio oggi soffre. Non c’è nemmeno più tempo per la formazione, non esiste più la vecchia bottega. È diventato una catena di montaggio.”

    Insomma, oggi sta al pubblico pretendere la qualità, un argomento su cui molti doppiatori tra cui Claudio Moneta ed Emanuela Pacotto sono convinti. “Il pubblico si deve arrabbiare con l’azienda che non gli fornisce un prodotto doppiato come si deve!” s’infervora Claudio Monetae così anche l’attore, se non viene messo in grado di fare il proprio lavoro, dovrebbe arrabbiarsi e pretendere la qualità, per sé e per l’utenza”.  Se si lascia andare alla deriva il prodotto, si rischia davvero di lasciare spazio a prodotti di dubbia qualità e fattura, oppure agli stessi fandub, “bisogna avere rispetto del lavoro che si fa” conclude Emanuela Pacotto: “siamo la voce che accompagna il giocatore per ore e ore! Un approccio completamente diverso dal doppiaggio anime/tv, diventiamo quasi un amico del giocatore e per lui questa figura rappresenta tanto. Dobbiamo esserne orgogliosi!”.

    Infine Gajo: “doppiare i videogiochi è esattamente come doppiare i film… solo molto più difficile! Io lo paragono spesso a guidare una macchina bendato. Il bravo direttore di doppiaggio deve somigliare più a un Dungeon Master che a un regista”.

     

    Damiano Gerli


    Ringrazio Damiano per averci regalato questo articolo sul doppiaggio nei videogiochi, so che lo ha  tenuto occupato per mesi, tra ricerche e interviste, e invito chiunque a scoprire le incredibili e inedite storie narrate nel suo Genesis Temple dedicato al mondo dei videogames, spesso incentrate proprio su storie italiane di distributori, programmatori, marketing, game design, mancati successi e tradimenti! E non sto nemmeno esagerando.
    (Evit)

     

     

  • Duro da uccidere (1990) – Seagal ci porta alla banca del sangue

    Locandina italiana di Duro da Uccidere, Hard to Kill, film con Steven Seagal

    Sì, è quello di Seagal che finisce in coma per 7 anni e al risveglio vuole vendicare la moglie assassinata. Uno di quei film che quando senti il sassofono sai che c’è del coinvolgimento romantico, quando invece parte la chitarra elettrica è il momento della vendetta! Insomma, i film semplici di una volta e il secondo nella carriera cinematografica del maestro di aikido e molestatore seriale Steven Seagal, che qui cerchiamo di rivisitare un polso rotto alla volta, in ordine cronologico e con un orecchio all’adattamento italiano. Oggi tocca a Duro da uccidere (Hard to Kill, 1990), da non confondere con Programmato per uccidere dello stesso anno, né con Duro a morire.

    In un mio precedente articolo, molto comico da leggere se mi consentite, Nico (1988): quando Steven Seagal lo doppiava Fonzie, avevamo lasciato Steven Seagal al 1988. L’inaspettato successo del primo film porta la Warner ad investire nuovi soldi sull’uomo dalle due espressioni: quella accigliata che usa prima di uccidere e quella meno accigliata che usa per sfottere prima di uccidere. Ancora una volta ci vedono bene perché fa ancora più soldi del precedente. È l’unico motivo per cui a Hollywood ancora sopportano Steven, e già all’epoca pare che qualcuno che si rifiutò di lavorare al film per non doverci avere a che fare. Dal poco che trapela si capisce che dev’essere sempre stato un gran pirla.

    Steven Seagal in una scena da Duro da uccidere

    “Guardati intorno spaesato, come se non sapessi dove andare o cosa ci fai qui. Perfetto! Questo ruolo sembra scritto per te”.

    Visto il successo di Nico, rimettiamo Seagal a fare il poliziotto ma con un 10% in più di sparatorie e di arti spezzati ingiustificatamente. La formula risulta vincente. Costa 11 milioni di dollari e finisce per incassarne 59! Gli appassionati di aikido come me rimarranno sempre a bocca asciutta con la sua media di una mezza mossa di aikido ogni 30 minuti mentre il resto son brutali botte, mutilazioni e sparatorie ma, esattamente come in Nico, quel poco di aikido presente nel film, come dicono in Giappone, è ganzō.

    In Duro da uccidere Seagal risulta ancora più carismatico e sfottitore, tanto che ripete per ben due volte la gag del “ah, non vi fate sotto perché ho la pistola, la metto via…”.

    Come ha scritto Nanni Cobretti sul suo blog i400calci

    Qui è dove Steven si presenta a modino in tutti i suoi tratti distintivi e la sua proverbiale arroganza: mena tutti da fermo, bullizza e umilia, spezza ossa senza bisogno, insinua dubbi sulle abilità sessuali dei suoi avversari, a un certo punto si mette addirittura in ginocchio per illuderli di un vantaggio e li mena rimanendo in ginocchio.

    Parla ovviamente di questa scena qui:

    E, sì, nell’aikido sono previste anche svariate tecniche di difesa da seduti in ginocchio (suwari waza), quindi quando Seagal si mette in ginocchio per mostrarsi più vulnerabile, gli spettatori che lo sanno pensano subito…

    Gif animata che dice oh boy

    oh cacchio

    E no, nessuna di queste vere tecniche di difesa finisce con la dislocazione del piede. Non nell’aikido che ho praticato io almeno.
    È a partire da questo film che amai i personaggi di Seagal per il resto degli anni ’90. E qui siamo ancora al Seagal poliziotto, poi arriveranno il Seagal cuoco e il Seagal ambientalista. Uno più spassoso dell’altro. Ben prima del Seagal direct-to-video e del Seagal armadio a due ante.

    A proposito di aikido, se nel precedente film (Nico) il suo personaggio ci veniva introdotto come maestro di arti marziali in Giappone, così da giustificare la sua invincibilità (maestro in Giappone, mica a Orto Casal di Trebbia!), in Duro da uccidere non si perde tempo con cose così superflue. È solo dopo un’ora di film infatti che ci viene accennato di un padre missionario che lo ha cresciuto “in Oriente” dove ha avuto molti maestri. Non c’è bisogno di sapere altro. Dalle arti marziali giapponesi, alla scrittura in cinese, all’agopuntura, non c’è cosa orientale di cui lui non sia esperto, sa fare tutto. Per hobby fa anche la lettura della mano ai suoi avversari. Ma al rovescio.

    Duro da uccidere, Seagal che fa una mossa di aikido

    Seagal che ti legge la mano: hai la linea della vita molto corta.

     

    La trama

    Aprile 1983, è serata di Oscar, ma di certo non per Steven Seagal. Oh, no, no, no, per lui non lo sarà mai. In questo film il sensei S.S. si fa chiamare Mason Storm (sì, Storm come ‘tempesta’), di nuovo nei panni del poliziotto onesto nella solita corrotta Chicago, e nascosto dietro a delle casse dell’ortofrutta ha appena ripreso l’incontro tra un candidato al congresso e alcuni mafiosi, insieme stanno pianificando l’omicidio di un politico concorrente. Il candidato al congresso ha la faccia di William Sadler quindi accettiamo subito che tutto ciò sia plausibile. Seagal però è maldestro e per sbaglio innesca il suono d’archivio “lattina vuota calciata sull’asfalto con eco” allertando tutti e così è costretto a fuggire senza neanche aver il tempo di far suonare la clip audio “gatto arrabbiato”, ma almeno è riuscito a non farsi identificare e ha ripreso tutto!

    Sarebbe ora di correre in centrale e scrivere un bel resoconto, contattare gente, fare delle copie… ma il suo turno è finito e quindi basta, se ne va direttamente a casa con il prezioso nastro. Giusto il tempo di una telefonatina in ufficio, così da far sapere a tutti i poliziotti ammafiati con la mafia che era proprio lui il testimone non identificato sfuggito poco prima, e poi un salto veloce al drugstore per sventare una rapina a mano armata. Ed è solo martedì.

    Steven Seagal in Duro da Uccidere, rapina nel drugstore

    Se Seagal è troppo alto per te può sempre umiliarti in ginocchio se vuoi.

    Fa appena in tempo a tornare a casa per la preghierina del figlio ma non abbastanza in tempo per trombarsi la moglie perché arriva uno squadrone della morte di poliziotti corrotti che lo manda in bianco per altri sette anni (e gli uccidono la moglie), infatti finirà in coma fino alla caduta dell’Unione Sovietica. Ma non vi preoccupate per la sua vita sessuale, si prende cura di lui un’infermiera scritta di vero pugno maschio da sceneggiatori allupati, Kelly LeBrock (non ricordo il nome del personaggio, la chiamerò solo Kelly LeBrock) in trepidante attesa del risveglio del superdotato “bel fachiro”, il nostro protagonista, che anche durante un coma… CE L’HA DUUUROOOOOOO!!!

    Scena dal film Duro da uccidere, Kelly LeBrock guarda il pisello di Seagal

    Questa si chiama molestia, Steven Seagal ne dovrebbe sapere qualcosa

    Il catetere infilato su per l’uretra fa proprio sesso evidentemente, a ciascuno i suoi feticci. Dopo alcune affermazioni moleste, arrivano le battute per il pubblico maschile. Doppi sensi ne abbiamo? Ma sì che ne abbiamo! Solo in inglese però, perché in italiano la battuta è diventata: “Che ne diresti di una bella femminuccia?

    Kelly LeBrock che chiede a Seagal se vorrebbe un po' di passera

    Uh, le cose si fanno “calde”

    Kelly LeBrock tira fuori una gattina

    Ahhhhh, QUELLA “gattina”! Quella gattina. Ma certo. Certo. A che cos’altro stavate pensando?

    Siamo quasi alla gag di Una pallottola spuntatache bella topa!“. Ma non era un poliziesco d’azione serio questo?

    Nel frattempo alla centrale i poliziotti corrotti vengono a sapere del suo risveglio e uno di loro si precipita all’ospedale per ucciderlo, ma lo sappiamo che Seagal è… DURO DA UCCIDERE. Anche da paralizzato riesce a fuggire (in barella!) dall’assassino più imbranato d’America, uno che inciampa sui suoi stessi piedi. L’infermiera LeBrock arriva giusto in tempo e, giuro, dopo un’altra scena stile Pallottola spuntata dove la barella urta ogni singolo oggetto solido sul suo percorso (e c’è anche la “visuale barella” che gli manca solo il lampeggiante della polizia per simulare la sigla di Una pallottola spuntata), lo porta a nascondersi in un ranch di proprietà di un amico di famiglia dove potrà rimettersi in forze, farsi l’infermiera in memoria della moglie morta e finalmente pianificare la sua vendetta. Ed è solo giovedì!

    Seagal in Duro da uccidere che viene aggredito alle spalle con un coltello

    Scusi? Scusi??? Oh, questo è sordo… MI SCUSIIIII???!!! La posso accoltellare per favore?

    Ma non è finita lì, nel film ci sono altri momenti da “pallottola spuntata”, come quando Seagal dice al telefono “però mi raccomando, nessuno oltre a noi due deve sapere niente” e nel frattempo vediamo mezza centrale di polizia in ascolto (vabbè erano soltanto in due ma l’effetto è quello).

    Duro da uccidere, scena della telefonata sorvegliata

    Le gag involontarie in questo film sono le migliori. Non c’era una scena simile nella Pallottola spuntata? Sono sicuro di sì.

     

    L’adattamento e il doppiaggio italiano

    Una foto di Marina Tagliaferri attrice e doppiatrice

    L’adattamento e il doppiaggio italiano sono figli del precedente Nico, anche qui troviamo lo stesso direttore di doppiaggio (Bruno Alessandro), dialoghista (Alberto Vecchietti) e come voce del protagonista sempre lui, Fonzie Antonio Colonnello, che ritorna su Seagal (la mia preferita su quel faccione!). Su Kelly LeBrock troviamo l’attrice e doppiatrice Marina Tagliaferri, oggi forse più famosa per il suo ruolo fisso nella soap italiana Un posto al sole in onda su Rai3 che per la sua carriera da doppiatrice.

    Inoltre Antoniogenna.net riporta Luigi La Monica sul senatore Trent (William Sadler) e Ugo Maria Morosi sull’amico O’Malley (Frederick Coffin), mentre cambia l’azienda, “Clip Film Srl”.

    Aggiungo io un Luca Dal Fabbro la cui voce penso di aver riconosciuto sul vicino di casa ispanico (circa a 53 minuti di film). Questa non precedentemente identificata e sono certo che ascoltando il resto del film con orecchie molto buone sarà possibile identificare molte delle stesse voci già incontrate in Nico.

    In generale i dialoghi sono veramente ottimi, migliori dell’originale. Detto ciò, ci sono solo un paio di dettagli che sono sfuggiti, come può capitare anche ai migliori. Il fisioterapista di Storm ad esempio si prende un po’ troppe libertà quando lo sentiamo dire in italiano:

    Più in là ti procurerò anche una scopatina.

    al posto di “If you want, later on I’ll hook you up with some pizza” (ti procurerò un po’ di pizza). Il personaggio del fisioterapista in italiano sembra uscito dalla mente di Tarantino. Tra infermiere che molestano i pazienti in coma e fisioterapisti papponi, questo ospedale ha seri problemi con il personale.

    Duro da uccidere scena del film con sottotitoli in inglese

     

    Un’altra frase sospetta arriva durante la latitanza del protagonista, quando Kelly LeBrock lo tranquillizza dicendo che nessuno potrebbe mai risalire a quell’indirizzo perché non si tratta di casa sua ma dell’abitazione di un amico del padre e che all’ospedale dove lavora hanno soltanto l’indirizzo del suo appartamento, quindi nessuno potrebbe mai rintracciarli. In italiano invece ci viene da sospettare che sia il contrario quando conclude con:

    L’unico che ha questo indirizzo è il centro medico

    Ma allora non è sicuro per niente! La frase originale è invece “The Medical Center only has my apartment address”, traducibile come “Al centro medico hanno solo l’indirizzo del mio appartamento”. Ben altra cosa. Sicuramente una svista su una frase che tra l’altro arriva fuori campo, ma che nel resto del discorso si fa notare.

    Tra le sviste nominiamo anche il classico mustard che diventa mostarda invece di senape (detto di spalle). Condimenti falsi amici! Per me che le odio entrambi non ha mai fatto molta differenza, ma per completezza ve lo segnalo.

    Steven Seagal in Duro da uccidere dove si allena tirando pugni

    È tornata anche la canottierina nera da megalomane.

    Seagal ci porta alla banca del sangue

    Una frase ricorrente del senatore corrotto “you can take that to the bank” sarà fondamentale per scoprire l’identità del misterioso intrallazzone. Qualcosa che “puoi portare in banca” (o “andare a mettere in banca”) indica una garanzia assoluta, un modo di dire per enfatizzare qualcosa di certo. È simile al nostro “puoi metterci la mano sul fuoco”. Nell’adattamento italiano del film è stata tradotta come “e io le promesse le mantengo“, che al contrario della “mano sul fuoco” entra bene nei tempi della battuta e non ha il problema di dover cambiare formula a seconda dell’interlocutore (“potete metterci”/”puoi metterci”). Serviva chiaramente una frase-slogan che rimanesse identica in qualunque situazione, infatti è proprio quella frase a far scattare la memoria del protagonista. La considero una buona scelta che però inevitabilmente annienta una battuta molto scema (e quindi molto amata) di Seagal:

    I’m going to take you to the bank, Senator Trent. To the blood bank.

    Letteralmente: “Ti ci porto io in banca, Senator Trent. Alla banca del sangue”. La frase italiana è molto meno imbarazzante anche se non particolarmente memorabile:

    Quella che ho fatto a me stesso, senatore Trent, è più di una promessa.

    I drammaticomici colpi di batteria alla fine della frase non si abbinano altrettanto bene.

    Altre battute sceme invece sono migliorate in italiano. Una volta sfuggiti dall’assalto in casa, dopo innumerevoli sparatorie, ammazzamenti e inseguimenti, sentiamo la voce fuori campo di lei che dice “e per fortuna che hai dormito sette anni!“. Vediamo invece la battuta originale:

    Hard to kill I forgot to lock the door

    Traduzione: Mi sono dimenticata di chiudere la porta.

    Uaà-uaaaà, tromba triste. Duro da uccidere è un film d’azione più che decente (se la faccia di Steven Seagal non vi sta sul cazzo) che però in lingua originale ha questi piccoli momenti stupidissimi. La mia versione preferita è decisamente quella in italiano (nonostante l’assenza della “banca del sangue”) e mi piacciono anche le tante piccole alterazioni fatte in nome di dialoghi più naturali come “motherfuckers!” che diventa “assassini!” (gli avevano appena ucciso la moglie) e “I’m sorry” che diventa “maledetti!” (lo dice Seagal dopo essere venuto a sapere dell’uccisione della collega di LeBrock).
    Era un epoca in cui i film, anche quelli minori, erano dialogati da gente del mestiere (Alberto Vecchietti qui) che sapevano il fatto loro e non da improvvisati.

    Quanto è più bello “questo è per mia moglie, ed è anche poco” al posto di “questo è per mia moglie, fanculo e muori“? Perché lo sappiamo che oggi lo tradurrebbero così. Lo sappiamo benissimo.

    Frase dall'adattamento italiano di Duro da uccidere: Questo è per mia moglie ed è anche poco

    Chi lo dice che in lingua originale è tutto migliore?

    Nota curiosa: “Internal Affairs” in questo film è “l’ufficio inchieste”.

    Ci sono tante altre frasi memorabili che non vi svelerò, tipo quelle che Seagal fa trovare sulla tavoletta del cesso. Questo avviene sul finale quando il nostro sensei si trasforma in serial killer di un film horror che tormenta le sue vittime lasciando scritte inquietanti ovunque, mentre lo spettatore pensa: ma quando ha trovato il tempo di mettersi a incidere frasi sui muri con il coltello?
    Una però ve la lascio…

    “Ci beccheremo l’Oscar anche noi”.

    Non penso proprio, Steve. Non penso proprio.

    A quello del precedente film gl’ho fatto così… SCHIÒ!


    Gli altri articoli del mio ‘ciclo di San Seagalino’:

  • Io aborto, lui lei aborte…? Estraneo a bordo (Stowaway, 2021)

    Locandina di Estraneo a Bordo, film Netflix del 2021

    Da quando Netflix ha scoperto che i film ambientati in una navicella nello spazio costano poco perché c’è un unico set da costruire, è iniziata la mia rovina perché, scemo, continuo a cascarci e me li vedo tutti pensando che il prossimo sarà avvincente o almeno interessante. “Estraneo a bordo” (Stowaway in originale) tecnicamente l’ho visto, così come avevo visto The Midnight Sky di Clooney, aggiungendomi così alla statistica dei milioni di “spettatori” che li hanno visti per intero, numeri di cui probabilmente Netflix si vanta.
    Questi film ambientati nello spazio sono tutti simili: attori noti, look realistico ma su premesse scientifiche che farebbero arrossire Michael Bay, lentezza cronica spacciata per profonda scelta artistica… sono tutti film che stazionano da subito sui 5 su 10 di IMDb, appena sotto la sufficienza. Brava ma non si applica.

    Scena dal film Estraneo a bordo, 2021 su Netflix. Protagonista che guarda da un oblò

    Guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’

     

    Estraneo a bordo, ovvero l’inglese nell’adattamento italiano

    Dalle solite ditte internazionali messe su da Netflix (la SDI in questo caso, dal 2018 con sede anche a Roma) ci arriva quello che ormai comincio a definire “il solito doppiaggio Netflix”, e probabilmente sto facendo un’ingiustizia a tanti altri che non soffrono dello stesso problema, insomma sto parlando del vecchio caro eccesso di inglese nei dialoghi italiani! Oh, yes.

    Good check?
    Good check.

    Se Prime Video di Amazon continua a sorprendere con adattamenti di qualità (no, non mi pagano per dirlo, magari!), Netflix continua a tirare fuori dei piccoli aborti. Perché come altro chiamare un dialogo dove sentiamo fuori campo:

    “buona fortuna, Godspeed e ci rivedremo qui tra due anni”

    Scena dal film Estraneo a bordo

    Reggetevi…

    Godspeed con questo adattamento!

    Perché qualcuno in un dialogo tradotto in italiano dovrebbe dire “godspeed”? Sì, è un augurio che viene ancora oggi fatto prima dei lanci della NASA nella formula “good luck and Godspeed”, e allora? È una buona ragione per lasciarlo nei dialoghi di un film adattato per l’Italia? Neanche Apollo 13 (1995) che raccontava una storia vera, di veri astronauti, si prodigava tanto a riportare addirittura i saluti di auguri in inglese per una qualche veridicità storica. Perché un film di fantascienza ambientato nel futuro dovrebbe? I sottotitoli in italiano infatti lo omettono, il “buona fortuna” bastava. Tanto più che lo sentiamo solo per radio, nessuna esigenza di labiale.

    A riprova che non sono contro le parole in inglese “per sé”, dico subito di non aver nessun problema con i tanti “go” che sentiamo nel film, è un segnale di verifica non solo stranoto ma anche di facile comprensione visto che lo sentiamo in frasi come “segnale di go” o “per me è go“. Non solo era usato in Apollo 13 del 1995 ma già dieci anni prima lo diceva anche Ray in Ghostbusters (1984) “Pronti al mio segnale di go! Spengler, da te voglio un raggio di circonfusione, okay? Go! Okay! Tienlo lassù! Si muoverà! Tienlo su! Go!”. Un qualcosa sicuramente reso riconoscibile da una certa diretta nel luglio del 1969.

    Lasciare “Godspeed” in italiano non ha senso. Dovessimo ragionare in questo modo, quasi tutte le parole nei film dovrebbero rimanere in inglese e allora a quel punto che senso ha continuare a doppiare?

    Il diritto all’aborto nello spazio è garantito

    Non è la prima volta che lo incontriamo (The Martian, hello??) e di certo non sarà l’ultima. I film di fantascienza nello spazio sempre più spesso parlano di “abortire” (dal comando “abort”) una missione invece del suo annullamento, come prevede il dizionario e il buonsenso. Questa scelta di traduzione si fa ancora più ridicola quando si usa la parola “aborto”, come in questo film dove sentiamo la domanda secca “aborto?”.
    Il vantaggio di questa forzatura nei dialoghi italiani di molti film ambientati nello spazio? Che sul labiale ci sta ‘na bbellezz’! È l’unico vero motivo per cui in molti film viene imposto e piano piano si fa strada nella mente degli spettatori che in breve si abituano a tutto e sicuramente nei commenti vengono a dire “si dice” o “ormai ci sono abituato”. Ma è doppiaggese, puro e semplice, amplificato da un uso tipicamente settoriale da parte di astronauti italiani intervistati dalla televisione e che, ovviamente, usano quelle parole.

    – Abbiamo appena superato il punto di non ritorno. Aborto?
    – L’aborto è negativo.

    Io aborto? Lui, lei aborte? È congiuntivo, ragioniere. Aborti lei.

    Vediamo cosa dicevano i sottotitoli (che su Netflix hanno una traduzione slegata dal doppiaggio):

    Scena dal film Estraneo a bordo dove nel doppiaggio abort è tradotto come aborto invece che annullamento Scena dal film Estraneo a bordo dove nel doppiaggio abort è tradotto come aborto invece che annullamento

    Ah, ecco.

    Aggiornamento

    La dialoghista del film, da una risposta su Facebook, assicura che la scelta non fosse “aborto” ma proprio “abort”, il comando detto in inglese:

    “Posso assicurare che in fase di doppiaggio è stato detto chiaramente abort. Non è la prima volta che un fiato finale o un verso puó dare l’impressione di suono vocalico. E qui l’effetto è accentuato dalla forma interrogativa. Queste sono cose che chi si occupa di doppiaggio sa bene.”

    Antonella Giannini

    E questo conferma il problema con la scelta di tenere molti di questi termini in inglese, se l’effetto indesiderato è poi quello di sentirci “altro” (perché non ci aspettiamo queste parole in un film in italiano) direi che comunque c’è un problema con ciò che arriva al pubblico, un problema di fruizione. Arriva qualcosa di non inteso.

    Free drift, attenti a non derapare nello spazio

    “MTS in free drift” (detto fuori campo)

    Free drift è un termine settoriale usato dagli astronauti in lingua inglese e che poi viene riportato tale e quale in vari forum di appassionati italiani dove ha anche senso tenere TUTTE le definizioni in inglese, specialmente quando sono trascritti di comunicazioni ufficiali della NASA che gli appassionati traducono (è lì che ci troviamo abort, free drift, etc… spesso in corsivo), gli appassionati sanno cosa sono e cosa significano, li usano con cognizione di causa, volendo essere più possibili precisi e comprensibili con altri appassionati di un argomento che ha sempre fonti americane o comunque di lingua inglese. Eppure anche in questi forum di appassionati gli utenti sentono la necessità di specificare il significato di free drift, magari tra parentesi, come in Tuttovola.org, punto di incontro per gli amanti del volo, dove un utente riporta, traducendole in italiano, le notizie comunicate da un centro missione dello SpaceX:

    Ore 23:20
    La dimostrazione di abort comandato della Dragon, con accensioni sia prolungate che pulsate dei suoi thruster Draco è stata completata in giornata. Il veicolo ha anche dimostrato la sua modalità di free drift (volo alla deriva, N.d.R.), in cui i thruster di controllo attitudinale vengono spenti..

    Da notare come anche i “thruster” rimangano in inglese, in qualsiasi settore specifico è normale comunicare mantenendo definizioni in inglese. Non vuol dire che fuori, per un vasto pubblico, si debba parlare così.

    L’Associazione Nazionale Ufficiali Aeronautica lo riporta con le virgolette

    A questo punto la capsula della Orbital ha dis-attivato i propri propulsori ponendosi in modalità “free drift; di seguito Parmitano ha guidato il Canadarm2 fino ad af-ferrare Cygnus e poco meno di due ore dopo ha portato a termine la manovra di aggancio con il nodo Harmony.

    Addirittura Luca Parmitano nel blog dell’ESA nel suo blog ce lo traduce tra parentesi come “volo libero

    Questa sarà infatti la prima volta che un astronauta europeo sarà ai comandi del CanadArm per la “cattura” di un veicolo in free drift (volo libero).

    Virgolette, corsivi, parentesi, traduzioni… e questo da siti ufficiali o comunque di settore, chiaramente neanche loro danno per scontato che tutti capiscano “free drift”.  Tutto questo dovrebbe essere un grande allarme rosso per chi adatta i dialoghi di un film di fantascienza. Ha senso tenere il termine in lingua originale? È comprensibile in un dialogo fuori campo? Quanto è comprensibile?

    Chi invece ha lavorato ai sottotitoli evidentemente lo riteneva traducibile… visto che lo ha tradotto.

    Scena dal film Estraneo a bordo dove l'adattamento italiano dice free drift nel doppiaggio e deriva libera nei sottotitoli

    Ah, tanta attenzione ai termini “originali” e poi la sorella Ava può tranquillamente diventare “Eva” in italiano. Boh

    Cos’è che beviamo, Calboni? Tre BET-CH-s

    Questo è il betch 62

    Così sentiamo pronunciare “batch 62”, altra parola lasciata inspiegabilmente in inglese. Nella stessa frase però “row 2” diventa la “fila 2” e “section B” diventa “sezione B”, ma batch no, batch rimane in inglese e pronunciata “betch”.

    “Nessun’alga del secondo BETCH è sopravvissuta”

    La pronuncia tra l’altro è un’italianizzazione errata o se non altro obsoleta (dei tempi del batch processing, dell’informatica degli anni ’70). Sia gli americani che gli inglesi dicono batch con la “a” come conferma questo dizionario di pronuncia che li include tutti e due. Treccani ce lo dà come <bäč>, proprio dell’informatica. Ma pronuncia a parte, da dove viene l’idea di lasciare “batch” in inglese? È quasi come se non avessimo una parola italiana che traduca “batch”… mmh, sì, dev’essere un termine spaziale intraducibile…

    Ancora una volta, sottotitoli, aiutateci voi!

    scena dal film Estraneo a bordo dove qualcuno pronuncia batch in modo errato nel doppiaggio italiano mentre nei sottotitoli è tradotto come lotto

    Grazie, tutto molto chiaro adesso.

    In italiano è un termine legato unicamente all’informatica come conferma Treccani:

    Nel linguaggio scientifico e tecnico, termine usato per caratterizzare operazioni compiute in modo intermittente. In informatica, modalità di elaborazione secondo la quale le richieste di servizio non vengono assolte immediatamente, ma sono accodate per essere soddisfatte quando lo consentirà la disponibilità delle risorse (in contrapp. alla modalità di elaborazione «in tempo reale» e a quella interattiva).

    Quindi, per quanto “tecnicamente” corretto, visto che si riferisce alle colture a sistema chiuso (colture in batch) dei bioreattori usati in microbiologia, l’uso in una frase simile non aiuta la comprensione, anzi, è controproducente alla fruibilità del dialogo. La scelta di lasciare “batch” vuol dire non capire cosa arriva al pubblico per il quale si traduce. Lì dove un “lotto” sarebbe stato certamente comprensibile, o dove “coltura” avrebbe risolto la frase senza dire niente di tecnicamente sbagliato.

    Fammi il backup di benzina alla macchina

    “E i contenitori di backup?”

    Traduzione di “backup canisters”. L’ossigeno può avere un “backup” a quanto pare.
    In italiano la parola backup è associata a un salvataggio di dati informatici, non certo a riserve di gas, come confermato non solo dall’uso comune ma anche dai vocabolari (che non contemplano altri usi):

    backup ‹kp› s. ingl. (propr. «sostegno, rinforzo»), usato in ital. al masch. – In informatica, procedura con la quale si realizza una copia di sicurezza (detta anch’essa backup o copia di b.) di un certo insieme di dati: la biblioteca conserva su nastro magnetico il b. degli schedarî informatici contenuti nell’elaboratore centrale.

    fonte Treccani

    Aiutoooo, sottotitoli!

    Scena da Estraneo a bordo dove si parla di contenitori di backup nel doppiaggio italiano

    Grazie. Molto meglio.

    Ma possibile che frasi così semplici debbano essere complicate da intromissioni non solo superflue ma anche errate?

    Conclusione

    Insomma come avete capito, in questo Estraneo a bordo, l’unico vero estraneo a bordo è l’inglese, una presenza che ha ancora meno senso del tizio ferito che nella trama del film qualcuno aveva sigillato dietro ad un pannello di un’astronave in partenza per Marte (???), cosa che il film non spiegherà mai. Sì, il film è stupido, ma l’adattamento di questo doppiaggio urta. E dispiace tanto perché per il resto i dialoghi sono tutti molto naturali. Mi sa tanto di intromissione dall’alto, dall’estero, perché non posso pensare che a una persona italiana venga in mente di dire “contenitori di backup” parlando di contenitori di gas. Né parlare di bet-ch-s.

    Calboni che ordine tre batches, invece che tre scotches, una gag per l'adattamento italiano di Estraneo a bordo

    Aggiornamento

    E invece, a quanto pare sbagliavo nell’immaginare interventi dall’estero o intromissioni esterofile dell’azienda Netflix. Flora Staglianò, che su Facebook si è presentata come “la traduttrice di Estraneo a bordo” (da non confondere con la dialoghista che invece ha il nome nei titoli di coda), difende tutte le scelte e ci tiene a specificare che Netflix in realtà avrebbe preferito una traduzione più “tradizionale”:

    “No, non c’è stata nessuna intromissione dall’alto. Anzi. Netflix aveva dato la direttiva di tradurre tutto in italiano, anche le sigle iniziali usate nel lancio. Ma è stata inviata una mail in cui è stato fatto presente che in italiano sarebbe stato ridicolo.”

    Flora Staglianò