• CHIAMAMI DOLEMITE, UOMO! (Dolemite is my name, 2019)

    Eddie Murphy in Dolemite is my name che mostra un disco di Rudy Ray Moore e dice metti questo disco, uomo

    È fatta! Netflix è riuscita nell’impresa, quella di riportare Eddie Murphy ai fasti di almeno 20-25 anni fa, quando non faceva solo commedie leggere per la famiglia. “Dolemite is my name” è infatti il primo film di Murphy in vent’anni a meritarsi una classificazione “R” dalla MPAA, ossia “restricted” (minori solo se accompagnati). L’ultimo degno di tale lettera era stato “Life” nel 1999.

    A Netflix è stato sufficiente offrire all’attore carta bianca e spazio, e il nostro è riuscito a realizzare un progetto che aveva in testa da molto, molto tempo. Una biografia in stile scanzonato e spiritoso di uno dei suoi idoli della comicità, Rudy Ray Moore.
    Quello di Moore è un nome che in Italia non dice nulla: a differenza di Richard Pryor (altra grossa influenza per Eddie Murphy) non è mai stato protagonista in film noti al pubblico italico (è già di nicchia negli USA) né ha avuto particine in cose come “Superman 3” tali da portare un comico nero a un numero ancora più grande di spettatori.
    Rudy Ray Moore nasce figlio di un contadino ma ben presto è chiaro che la vita nello spettacolo è roba per lui. Le ha fatte tutte, da ballerino a cantante R&B a cabarettista e infine star del cinema nero della blaxploitation, nonché influenza fondamentale per tanti rapper della prima ora. I suoi film a basso budget ma ad alto contenuto di divertimento sono diventati dei cult già negli anni ’80 con le prime VHS.

    Una vita colorita e colorata, una divertente ascesa alla vetta che Eddie Murphy ha voluto raccontare prendendosi qualche piccola libertà ma rimanendo rispettoso del suo idolo. Ecco dunque “Dolemite is my name”, film ispirato ad una storia vera che vede lo stesso Murphy nei panni di Moore, affiancato da talenti come Wesley Snipes e Keegan-Michael Key. Il film racconta i tentativi di Rudy Ray Moore di pubblicare i suoi album comici molto spinti, nonché la travagliata produzione e il debutto nelle sale della sua prima pellicola “Dolemite” (1975) con protagonista il pappone omonimo che sarà la star di una manciata di altre simili avventure negli anni a venire.

    Il debutto in lingua italiana del film arriva in contemporanea mondiale, come avviene per queste produzioni Netflix, ed è a cura della 3Cycle di Marco Guadagno. Il titolo per il pubblico italiano rimane quello originale (in inglese), anche se non è stato così per tutti i paesi (rimane in inglese in Francia mentre per la Spagna Yo soy Dolemite e in brasile Meu Nome é Dolemite).

    Dolemite is my name poster brasiliano

    Locandina brasiliana di “Dolemite is my name”

    Una piccola premessa: la persona che scrive questo pezzo [se vi è sfuggita la firma sotto al titolo di questo articolo, non è quella di Evit] guarda zero film contemporanei, semplicemente per poco tempo e/o interesse. Il risultato purtroppo è la scarsa preparazione allo stile recitativo di oggi ma soprattutto al tipo di adattamento che si fa di questi tempi, e non essendovi avvezzo c’è da mettere in conto un minimo di shock culturale nell’entrare in contatto con certi doppiaggi quando le mie sensibilità sono praticamente ferme agli anni ‘90. Riguardo Eddie Murphy nello specifico, l’ultima volta che vidi un suo film risale al 2003 con “L’asilo dei papà”, ovvero 16 anni fa, un’era geologica per il mondo del cinema doppiato. Il ritorno alle scene di Eddie, di nuovo sorridente ed in piena forma, ha risvegliato una curiosità che “Tower Heist” (2011) non era riuscito a destare. Rimaneva un’unica incognita però: l’adattamento italiano.

    Quelle frasi non doppiate che distraggono

    Come è stato detto fino allo svenimento, il doppiaggio è un artificio necessario in cui la pratica dell’adattamento ci permette di fruire di un film straniero camminando una sottile linea tra il letterale e l’accessibile, restando sempre consci che spezzare l’illusione è maledettamente semplice. Frasi come “parli la mia lingua?” (Pulp Fiction, 1994) ad alcuni potrebbero sembrare goffe o forzate, ma sono di gran lunga una migliore alternativa al letterale “parli inglese?” che demolirebbe completamente l’illusione del guardare un film in cui gli attori parlano la nostra lingua.

    Se stiamo guardando un film originariamente in inglese ma doppiato in italiano e sentiamo una frase lasciata intatta dalla colonna sonora originale, a meno che non sia una voce alla radio completamente nello sfondo e del tutto slegata dalla trama, il risultato sarà straniante. Perché, ci si può domandare, quella voce è rimasta non doppiata? Peggio ancora se i personaggi doppiati in italiano reagiscono ad essa! Qualunque sia la ragione e per quanto buona essa sia, il risultato purtroppo è sempre lo stesso: abbiamo potenzialmente perso la concentrazione, ci siamo distratti, ci siamo ricordati che stiamo guardando un film! È un po’ come se al cinema ci passasse davanti qualcuno all’improvviso, avrà avuto i suoi buoni motivi per alzarsi ma ha distolto la nostra attenzione dallo schermo e dalla storia.

    Questo in “Dolemite is my name” avviene due volte: prendiamo in esame la prima.

    Il disco comico di Redd Foxx, beato chi ci capisce qualcosa

    All’inizio del film Rudy e il suo collega del negozio di dischi ascoltano un album di Redd Foxx, un comico noto per monologhi audaci che recitava nei night club per soli neri. Nella versione italiana l’audio del disco rimane in lingua originale, sottotitolato. I sottotitoli sono lontani da quello che dice Foxx, e bisogna qui ammettere che ciò che sentiamo nel film si tratta di uno sketch (intitolato “All’ippodromo”) non semplice da rendere in un’altra lingua senza stravolgerlo, basato com’è su giochi di parole e doppi sensi piuttosto spinti per l’epoca. Appurata la difficoltà del compito, il fatto che subito dopo uno dei personaggi doppiati ripeta una parola dello sketch, ed essa non coincida affatto con quello che indicavano i sottotitoli… è spiazzante.

    “Signore e signori, vorrei riportarvi in pista un’ultima volta, ecco un ultimo struscio. Si sono strusciati addosso ad Anna. Non è la prima volta che si strusciano, ma la scorsa è stata un peccato perché avrei voluto vedere il suo culo contro la mia Asta.”

    Così recitano i sottotitoli italiani nella scena in questione. Da qui il film riprende doppiato con questo scambio di battute:

    – Quanto mi fa ridere…
    – Non fa ridere, sono solo un mucchio di parolacce.
    – Non sono parolacce, è… brillante, non so, è… ecco: “Il mio uccello” non è il suo uccello, “Il mio uccello” in realtà è il suo cavallo!

    Scena di Dolemite is my name, l'ascolto dell'LP di Redd Foxx

    Ci avete capito qualcosa? Dov’erano le parolacce? Cosa c’era da ridere in quella registrazione di Redd Foxx? Allo spettatore non è stato dato alcun contesto, né sul comico che parla, né sul disco che stanno ascoltando, questo perché in lingua originale, anche non conoscendo Redd Foxx, si presume che lo spettatore capisca i giochi di parole al volo. Ed eccovi il contesto:

    Lo sketch “All’ippodromo” gioca su doppi sensi al limite del legale in una radiocronaca di una corsa di cavalli dai nomi molto ambigui, fino a chiamarne uno “My Dick”, che in un ambito innocente potrebbe essere “Il mio Riccardo”, ma affiancato a verbi come “spingere” e “allungarsi” è chiaramente da intendersi “Il mio cazzo”.

    Well ladies and gentlemen I’d like to take you to the race track, one more time… And here’s the late scratch ladies and gentlemen, “Anna’s Ass” has been scratched! And it’s not the first time “Anna’s Ass” has been scratched, this last one was a shame because I’d have loved seeing “Anna’s Ass” up against “My Dick” today!

    Questo il pezzo che sentiamo nel film, lo sketch intero è un po’ più lungo ed è molto carino. Ma analizziamo ciò che nel film doppiato sentiamo solo in inglese e di cui proporrò io una traduzione tra parentesi:

    Well, ladies and gentlemen, I’d like to take you to the race track, one more time

    The Both Sides of Redd Foxx, copertina del vinile

    (Signore e signori rieccoci in pista ancora una volta)

    And here’s the late scratch

    (Ci arrivano adesso le informazioni sull’ultimo scarto.)
    “Scratch” in ippica è semplicemente un cavallo che avrebbe dovuto correre ma è stato, appunto, scartato. “Scratch” nell’inglese comune è anche una grattata (di culo? di palle?). E cosa arriva dopo…?

    “Anna’s Ass” has been scratched!

    Ed ecco un perfetto esempio di double entendre o doppio senso. Se la intendiamo in un contesto ippico trattasi di un cavallo di nome “Anna’s Ass”, ovvero “Il ciuco di Anna”, che è stato scartato. Ma il doppio senso volgare è che “Il culo di Anna” è stato grattato.

    This last one was a shame because I’d have loved seeing “Anna’s Ass” up against “My Dick” today!

    Ed è un peccato che sia stato scartato/grattato anche questa volta perché – dice il personaggio del commentatore della corsa – avrei voluto vedere “Anna’s Ass” contro “My Dick” (cavallo che era stato già introdotto prima, nel disco, ma noi nel film non lo sentiamo), ovvero veder gareggiare “Il ciuco di Anna” e “Il mio Riccardo”… o vedere “il culo di Anna” contro “il mio cazzo”.

    Vedete bene che è praticamente quasi impossibile rendere questo pezzo senza riscriverlo daccapo in italiano e di sana pianta. I sottotitoli forniti da Netflix hanno provato a dare un senso a modo loro, senza che però sia poi del tutto chiaro perché chi sta ascoltando il disco ride come un matto, per poi fare riferimento a un fantomatico “Il mio uccello” che nei sottotitoli non c’era.

    Ribadiamo ancora che il pubblico americano che vede questo film ha buone chance di conoscere già quel pezzo, e ad ogni modo in inglese quei giochi di parole funzionano e quindi non hanno bisogno di troppe spiegazioni. Sono immediati.

    Dolemite is my name, sottotitoli di Andrea Guarino per Netflix

    Il fatto che chi lavora ai sottotitoli non comunichi con chi lavora al doppiaggio è evidente ed è da accettare come dato di fatto in questa era di lavoro a camere stagne, tempi ristretti e di distributori stranieri terrorizzati da possibili fuoriuscite “pirata” di materiale. I direttori di doppiaggio e i doppiatori stessi commentano sempre più frequentemente con rammarico di come non riescano a vedere il film, a volte, finché non esce nei cinema, visto che molti distributori li fanno lavorare con copie “censurate” in cui sono visibili solo le bocche dei personaggi. Chi sottotitola poi solitamente ne sa anche meno oppure non gli viene dato abbastanza tempo per saperne (e così si finisce per rimpiangere i “fansub” amatoriali).

    Accettando questa amara realtà, bisogna guardare in faccia il risultato che ci ritroviamo nella versione italiana del film: avere parti che rimangono in inglese non funziona.

    Per quanto possa sembrare un dettaglio insignificante (abbiamo appena disquisito di una scena che dura circa 20 secondi) è un momento importante per la trama perché i personaggi presenti in quella scena vi fanno riferimento, è una fonte di ispirazione per il protagonista, forse il motore del film… e in italiano lascia semplicemente perplessi.

    Per fare una parentesi e allontanarci un attimo dal film che stiamo analizzando, non è che questa pratica di lasciare parte dei dialoghi originali inglesi sia del tutto novella. Se andate a vedere “Contact” del 1997 con Jodie Foster, lì ci sono un paio di scene in cui compare l’allora presidente Bill Clinton (inserito nel film in maniera anche un po’ truffaldina) che nel doppiaggio italiano mantiene il suo audio in inglese. Perché? Presumibilmente ha a che fare col fatto che i suoi siano filmati di repertorio presi fuori contesto, e forse vuole evidenziare anche nella versione italiana che, sì, stiamo vedendo il presidente “vero”, autentico, ed è la sua voce che sentiamo. Scene accompagnate da sottotitoli, d’accordo. Resta comunque un momento bizzarro per lo spettatore italiano.

    L’Examiner diventa un Esaminatore (e Walter Matthau dice “cazzo”)

    Scena della proiezione di Prima pagina, nel film Dolemite is my name

    Scena della proiezione di Prima pagina, nel film Dolemite is my name

    Tornando a “Dolemite is my name”, veniamo all’altro esempio di immersione falsata, e cioè una scena in cui i protagonisti, tutti neri, vanno al cinema a vedere “Prima pagina” (The Front Page, 1974) di Billy Wilder con Matthau e Lemmon, per svagarsi un po’. Loro malgrado si annoiano a morte perché è un film “bianco” realizzato per un pubblico “bianco” e uno di loro si lamenta appunto di come non ci siano “fratelli” sullo schermo.

    Nella versione italiana di “Dolemite is my name” i neri vanno al cinema a vedere un film completamente in inglese, e l’effetto bizzarro che ne deriva è quasi l’impressione che siano proprio disorientati dalla lingua straniera e non riescano a seguire la storia!

    “Prima pagina” uscì nei cinema italiani nel 1975 e fu doppiato dalle voci della C.D. – Cooperativa Doppiatori. Jack Lemmon ha la sua voce ufficiale Giuseppe Rinaldi; Walter Matthau parla invece con la voce di Ferruccio Amendola, al posto del più consueto Renato Turi, insolita ma funzionante scelta.
    Il doppiaggio di questo film non è perduto ma per ragioni che possiamo immaginare (costi, diritti, eccetera) non è stato possibile risentirlo in questa occasione, né abbiamo avuto l’alternativa, cioè che fosse ridoppiato ad hoc come accade a volte.

    Ci siamo dovuti accontentare invece di sottotitoli in italiano, che non rispecchiano i dialoghi del suo doppiaggio del 1975 (sebbene siano in un piccolo punto più fedeli), e introducono alcuni errori:

    Scena della proiezione di Prima pagina al cinema, nel film Dolemite is my name. Examiner diventa L'esaminatore

    – Non parli dell’Esaminatore? Non ci danno crediti?
    – È nel secondo paragrafo.
    – E chi mai leggerà il secondo paragrafo? Sono 15 anni che cerco di insegnarti a scrivere a comando! Devo fare tutto io? Trovare la storia e scriverla?
    – Senti, Sapientone, è meglio quel che mi esce dal cu… dal naso, di quello che scrivi tu.
    – Che dilettante del cazzo. Forse Philadelphia fa per te. Puoi scrivere battute per gli spot!
    – Ah sì? Chi è che ha scritto Le ultime confessioni di Banducci Tre-dita?

    E da qui in poi ritorna il doppiato. Ma chi è questo Esaminatore? E che crediti dà? Ed è mai possibile che in un film “pulito” del 1974 con Walter Matthau qualcuno dica “del cazzo”? Possibile che chi traduce oggi conosca solo “cazzo”, “merda” e “fottuto” a cui ricondurre il 99% delle espressioni americane? Sfumature, eufemismi, questi sconosciuti.
    Vediamo com’era lo stesso dialogo tradotto nel 1975:

    – Ferma! Non hai nominato l’Examiner! E non è tutto merito nostro?
    – Oh sì questo l’ho messo nel secondo paragrafo.
    – Sono 15 anni che cerco di insegnarti come si scrive un articolo, devo sempre fare tutto da solo? Trovare la notizia, e dopo averla trovata scrivere anche l’articolo, forse?
    – Senti, testone, anche se io scrivo un articolo col sedere, scusa cara, è meglio d’uno tuo!
    Piccolo dilettante, forse il tuo posto è proprio Philadelphia, a scrivere slogan per le creme da barba!
    – Ah, davvero?? E allora chi scrisse la confessione in punto di morte di Balducci, detto “Tre dita” ? Chi scrisse il diario di Roxy Hart? E dell’alluvione al Dayton? Persino il telegrafista si mise a piangere!

    L’Esaminatore non era un misterioso professore universitario con crediti da elargire, ma come correttamente riportato nel doppiaggio d’epoca si parlava dell’Examiner, un giornale, la testata di Chicago per la quale i personaggi di “Prima pagina” lavorano!

    Ora, non si può pretendere, come detto sopra, che le cose funzionino “come una volta”. Non si può pretendere nemmeno che gli incaricati ai sottotitoli su Netflix si vadano a cercare “Prima pagina” e leggano di che si tratta e cosa sia l’Examiner per scrivere 10 secondi di sottotitoli (o si può? Ditemi voi).
    Ma comprese le possibili ragioni di queste ed altre scelte… tutto questo continua a non funzionare!

    Non adattare “uomo”, uomo!

    Parliamo adesso di una scelta nei dialoghi che potrà più facilmente saltare alle orecchie di chi segue il film, anche quelle meno attente, ovvero il fatto che Rudy, in italiano, chiami “uomo” praticamente chiunque, per tutto il film.

    Scena del film Dolemite, negozio di dischi, qualcuno dice: metti il disco giusto, uomo!

    Una vera battuta del film.

     

    In inglese è normale che un nero chiami altre persone “man”, e la cosa è nata in reazione a chi li chiamava “boy” in maniera autoritaria, quale che fosse la loro effettiva età, prima e dopo la schiavitù —e purtroppo è un comportamento che ancora oggi persiste seppur in piccola parte— in virtù di una presunta superiorità razziale. I neri americani hanno dunque reagito introducendo “man” nel loro linguaggio perché loro non sono dei “ragazzi”, subordinati, loro sono degli “uomini”!
    Compresa questa premessa storica, si può intuire forse perché “man” sia stato lasciato come “uomo” nella versione italiana di questo film.

    È italiano scorrevole? No, per niente. Risulta curioso che per tutto il film si senta questo “uomo” a destra e a manca usato come appellativo, qualunque sia il motivo che ha portato a tale scelta di adattamento.
    Come regola generale (almeno secondo i metodi “di una volta”) un buon adattamento si vede quando si riesce a rispondere di sì alla domanda: diremmo così nella vita di tutti i giorni, in italiano?

    Come si traduce “motherfuckers”? Dipende…

    Questa domanda va posta anche e soprattutto quando si mette in ballo il turpiloquio, che l’adattamento di questo film tratta in maniera scostante: ci sono momenti in cui viene omesso, sono i punti in cui la sua presenza suonerebbe male in italiano. Questo è bene. Viceversa momenti in cui viene tradotto pedissequamente, e mai come nel caso dei dialoghi del protagonista del film che parla costantemente di “motherfuckers“, tutti traslati indifferentemente in “figli di puttana” fino ad arrivare a momenti di assoluta cacofonia.

    Giusto, sì, che si voglia tenere il più possibile la volgarità del personaggio, perché questo attributo lo contraddistingue. Meno giusto invece che si metta in secondo piano la scorrevolezza della lingua, il cui suono non deve essere artificiale o artificioso ma deve sembrare il più possibile la voce italiana di una persona reale, per quanto stravagante possa essere il personaggio!

    Nei primi secondi del film sentiamo queste parole, pronunciate dalla nuova voce di Eddie Murphy, Fabrizio Vidale:

    È così, uomo, la gente mi adora! Ehi, tu metti questo e i figli di puttana cominciano a dimenarsi e a contorcersi. Quando suonavo questo disco dal vivo, i figli di puttana svenivano! Te li ritrovavi sul pavimento e ci voleva l’ambulanza per farli rimettere in piedi, okay? Anzi, quando suonavo questo chiamavano prima l’ospedale, e gli dicevano “C’è Rudy che suona stasera, tenetevi pronti a portare via i figli di puttana dal locale”.

    Chi sono questi figli di puttana? Pensate che si riferisca a un gruppo specifico di persone che conosce, che sa essere letteralmente figli di buona donna o più semplicemente persone poco gradite?
    No, “figli di puttana” qui è usato come equivalente della parola “motherfuckers” che, per quanto possa sembrare assurdo, non solo non vuol dire figli di puttana (questo si sapeva già, se ricordate dall’articolo di Evit su Die Hard, Maldesi lo aveva trasformato in “pezzi di merda” ad esempio, e in un altro sottolineava proprio l’impossibilità di una traduzione univoca della parolaccia americana) ma non è necessariamente un insulto in situazioni come questa!

    Dolemite is my name - Scena fuori dal cinema

    Nel linguaggio afroamericano “mothafucka” è usato con disinvoltura per riferirsi a chiunque, in senso negativo e positivo. Qualunque giudizio di carattere è dato da altre cose, contesto, tono di voce… ma di per sé la parola “motherfucker” in questo frangente è praticamente appellativo neutro. Per fare un paragone forse un po’ azzardato si può scavare nella storia europea e rammentare come anticamente si chiamava “cristiano” chiunque, e la parola era usata come useremmo oggi “persona” o “essere umano” perché si riferiva ai battezzati. La cosa è sopravvissuta in parte in espressioni antiquate tipo “parlare come un cristiano” o addirittura rimane tale e quale a se stessa nel sud Italia, nella sua accezione originale.

    Dunque ci sta che potremmo anche dire a un nostro amico “motherfucker, chill!” per dirgli di star calmo e non si offenderà perché non lo abbiamo chiamato — letteralmente — un fotti-madre.

    Riporto il testo originale per riferimento:

    I ain’t lyin’, man, people love me! Hey, if you play this song I guarantee you mothafuckas start hoppin’ and squirmin’. When I used to play this record live, mothafuckas would actually faint. They would faint on the floor, I had to call an ambulance to pick all these mothafuckas up, okay? Everytime I played, in fact they’d start calling the hospital in advance and tell them “Rudy gon be singin’ tonight, make sure you’re ready cause we finna be carryin’ mothafuckas out the club”.

    Quelli di voi che conoscono un po’ di inglese noteranno che l’ambulanza non serviva per “farli rimettere in piedi”, come dice l’adattamento italiano del film, ma per “portarli via”… in barella (NdR: vedi che guai a tradurre “pick up” alla lettera?), e chi ha un po’ di familiarità col vernacolo dei neri americani riconoscerà che usano certe parole come “motherfucker” e “shit” come punteggiatura nonostante siano parolacce, in maniera analoga a come un siciliano usa la parola “minchia”, per esempio.

    Vediamo una possibile alternativa all’adattamento sentito su Netflix, questa è una proposta:

    Non ti prendo in giro, la gente mi adora! Se metti questo disco è matematico, qualunque stronzo salta e si dimena. Quando suonavo dal vivo questo pezzo, credimi, la gente sveniva. Finivano in terra e mi toccava chiamare l’ambulanza per portare via tutti quegli stronzi, chiaro? Anzi, ogni volta che suonavo, chiamavano in anticipo l’ospedale e dicevano “Stasera canta Rudy, preparatevi perché qui tra poco svuotiamo il locale”.

    L’adattamento italiano di questo film invece sembra concentrato solo a rendere pari-pari molte di queste espressioni che in americano hanno senso, ma in italiano non diremmo mai. E quindi sentiamo frasi tipo “ma che è quella merda?” o “vanno pazzi per quella merda”.

    Ecco un esempio di una frase riportata così com’è e che avrebbe forse giovato di un ritocchino. Se Wesley Snipes nel film, stizzito d’essere stato schizzato da una pozzanghera, dice…

    “I’m brown sugar, I melt!”

    …questa frase non va tradotta letteralmente con:

    ”Sono zucchero di canna, mi sciolgo!”

    per quanto divertente sia recitata da Pino Insegno (bravissimo in quel ruolo). La ragione è che “brown sugar” è una espressione idiomatica legata agli afroamericani, vuol dire sì “zucchero di canna” ma vuol dire anche “donna nera molto attraente”. Nel caso vi chiedeste perché è detta da Wesley Snipes, nel film interpreta il regista D’Urville Martin, un personaggio un po’ eccentrico e quantomeno ambiguo (in tutti i sensi). Il fatto che sia un’espressione idiomatica dovrebbe dissuadere immediatamente dall’idea di tradurlo alla lettera, tra l’altro in italiano il concetto di “zucchero di canna” in quella battuta non è altrettanto immediato, la prima cosa che viene in mente dello zucchero non è il fatto che si sciolga ma che sia dolce; “caramello”, invece, è una parola molto più evocativa, immediatamente fa pensare a qualcosa del colore giusto, che in acqua si squaglia e che è anche possibile associare all’erotismo (di certo più dello zucchero di canna), sarebbe stata un’alternativa azzeccata per questa simpatica gag. Zucchero di canna è una traduzione, caramello è un adattamento. Per fortuna la battuta “Sono zucchero di canna, mi sciolgo!finisce per far ridere lo stesso grazie alla recitazione di Pino Insegno, quindi la noteranno in pochi.

    A proposito, questo è il cast di doppiaggio di Dolemite is my name, con Fabrizio Vidale, Domitilla D’Amico, Pino Insegno, Roberto Gammino, Mauro Gravina, Massimo Bitossi, Francesco Cavuoto, Antonio Palumbo.

    cast doppiaggio dolemite is my name con fabrizio vidale

    Dolemite molto piacere, fare il culo ai figli di puttana è il mio mestiere!

    Sempre in tema di linguaggio e ancora una volta circoscritto al protagonista, ecco la frase ricorrente che dà il titolo al film:

    “Dolemite is my name, and fuckin’ up mothafuckas is my game!”

    Che viene resa letteralmente in

    “Dolemite molto piacere, fare il culo ai figli di puttana è il mio mestiere!”

    E per quanto si possa apprezzare il fatto che questa e altre frasi siano rimaste in rima, perché parte del personaggio, ancora una volta sembra valere questa equivalenza “motherfuckers” = “figli di puttana” che non funziona perché ignora, come già detto, l’uso indiscriminato che ne fanno i neri più sboccati con tanta disinvoltura.

    Senza contare poi che come tanti altri omaggi, il fatto che Moore dica quella frase, data senza contesto e quasi come se fosse la catchphrase del personaggio, in realtà è un richiamo a una scena del suo film “Dolemite” in cui fa un discorso d’incoraggiamento alle sue ragazze. Qui la scena da cui origina la frase:

    “Girls, we gonna give one of the damndest parties this city has ever seen! Queen Bee is gonna send out invitations to all of our friends and associates from all over the country. And I’m gonna let em know that Dolemite is back on the scene!
    I’m gonna let ‘em know that Dolemite is my name and fucking up mothafuckas is my game!”

    Che adattato potrebbe essere reso più o meno così:

    “Ragazze, daremo una delle feste più toste che questa città abbia mai visto! Queen Bee manderà inviti a tutti i nostri amici e conoscenti in tutto il paese. E io dimostrerò loro che Dolemite è tornato in pista!
    Dimostrerò loro che Dolemite è il mio nome e rompere il culo a tutti è il mio cognome!

    Scelta che sacrifica a prima vista un po’ dei toni del linguaggio colorito, ma all’improvviso sembra già qualcosa che una persona vera potrebbe dire nella nostra lingua. L’idea nell’adattamento italiano di fare la rima molto piacere / il mio mestiere in sostituzione di my name / my game è indubbiamente buona ma non tiene conto del contesto perché quando Dolemite la dice non si sta presentando a degli sconosciuti, sta ribadendo chi è alle sue prostitute.

    Il fatto che il nuovo film la usi a iosa come se fosse una catchphrase è una scelta degli sceneggiatori che tiene conto dei tanti appassionati del film originale: essi hanno sentito la frase in contesto, la riconoscono e magari pensano “ah, ecco la dice sul palcoscenico e poi la userà nel film!”. Sono chicche buttate lì per i fan che le sapranno apprezzare, come la comica scena di sesso in cui finisce per crollargli il soffitto in testa e che in realtà appartiene al seguito (The Human Tornado, 1976), o la scena in cui Rudy propone di inserire una possessione demoniaca nel copione ma rinuncia subito al pensiero di dover ripulire il vomito verde, e nondimeno aggiunge: “il demonio lo metteremo in un altro film” alludendo al film intitolato Petey Wheatstraw (1977) che produrrà qualche anno più tardi [nessuno di questi film è mai arrivato in Italia].

    Adattare frasi ricorrenti ex novo è, giocoforza, un rischio perché se non si conosce l’argomento o un eventuale contesto pregresso si rischiano incomprensioni come questa. Poi mettiamoci in mezzo l’uso di un linguaggio forzato, come si è già detto, ed ecco una frase che risulta bizzarra ogni volta che la si sente.

    Dolemite molto piacere

    fare il culo ai figli di puttana è il mio mestiere

    Brodo di topi e chi se lo mangia

    Rudy ha un particolare insulto per la gente che disprezza, e che utilizza più volte nel film: “rat soup-eatin’ mothafucka”, ed è anche questo preso direttamente dal suo film “Dolemite”, è praticamente la prima battuta che il personaggio omonimo pronuncia sullo schermo. Gli sceneggiatori di Dolemite is my name hanno scelto di fargliela ripetere più volte per far intendere che era la “sua” frase e che l’avesse inserita nel suo film perché era una cosa che diceva nella vita reale.

    Nel doppiaggio italiano viene resa pedissequamente con “mangia brodo di topi” all’interno di discorsi o stringhe di epiteti anche abbastanza lunghi, con risultato non proprio ottimale.

    “Stronzo mangia brodo di topi”

    (in originale: “Rat soup-eatin’ mothafucka”.)

    “Stronzo buono a nulla mangia brodo di topi cacasotto nato per sbaglio!”

    (in originale: “No business-born, rat soup-eatin’, insecure mothafucka!”. Tra l’altro l’unico caso in cui mothafucka diventa stronzo invece di figlio di puttana, perché non c’è modo di farcelo entrare in una frase già così lunga)

    E così via con un paio di variazioni simili. Il senso di quella battuta è il seguente: avendo Moore visto coi propri occhi cosa vuol dire fare la fame, l’essere tanto poveri e malmessi da accontentarsi (idealmente) di un brodo di topi! Un po’ classista forse come insulto da parte di uno che dal fango ci è venuto ma ahimè questi atteggiamenti sono quelli di chi ha una paura matta di tornarci, e per un uomo nero negli anni ‘70 la paura fa novanta. Il film sembra voler accennare che fosse il modo in cui il padre lo chiamava da bambino per sminuirlo e quindi Moore da grande riutilizzava questa frase con la stessa rabbia covata verso la sua figura paterna.

    Che sia una cosa che dice solo lui nel film è stabilito, serve però un modo fluido e originale di renderlo in lingua italiana. Mangia-ratti? Mastica-ratti? Ciuccia-ratti? Qualunque sia la soluzione si potrà far meglio di questo “mangia-brodo-di-topi” detto ogni volta per intero. Alle volte girare attorno a un concetto è meglio dell’essere letterali a discapito della naturalezza.

    Si scrive Moore, si pronuncia “Mor” ma diventa… Mur (?)

    È a questo punto della discussione sull’adattamento italiano di “Dolemite is my name” che bisogna puntualizzare: il cognome del protagonista del film, Moore, fa rima con la parola inglese door, o con la parola italiana amor. Non si pronuncia “Muur” come invece sembrano essere convinti tutti i personaggi nella versione doppiata, incluso il diretto interessato.

    Ora, errori di pronuncia sui nomi dei personaggi di un film non sono novità, esistono dalla preistoria del doppiaggio, e perfino in un film la cui versione italiana è tanto carina e ben fatta come quel “Prima pagina” sopracitato dove c’è un grosso errore su “Earl” pronunciato “Irl” (la pronuncia corretta è “Erl”). Ma, mentre potremmo passare con molta clemenza sugli errori del passato perché non tutti parlavano l’inglese una volta, né avevano a disposizione gli strumenti che abbiamo oggi, adesso siamo nel 2019: abbiamo tutti uno smartphone in mano al quale possiamo chiedere, volendo, anche come si pronuncia il nome di un personaggio davvero esistito, o tirar fuori in 0,38 secondi circa un migliaio di video su YouTube nel quale tale nome si sente chiaro come il canto del gallo al mattino.

    Com’è che un doppiaggio che mira ad una fedeltà anche troppo alla lettera poi non si cura della pronuncia dei nomi e Moore (pronunciato Mor) può diventare arbitrariamente Muur? Strane scelte di doppiaggio per un film che mira ad essere biografico.

    Eddie Murphy in Dolemite is my name

    Ti ho pizzicato sul nome, eh?

     

    La scimmia lingualunga

    Il film inoltre accenna vagamente al concetto di “Signifyin’ Monkey” che è una figura della tradizione afroamericana dalla quale attinge a piene mani Rudy Ray Moore. Praticamente Moore ha preso una sorta di Pulcinella (per fare un altro paragone azzardato) e l’ha vestito con abiti moderni, facendolo suo.

    Il termine è menzionato di sfuggita in una scena soltanto, nella quale i protagonisti, dopo aver sentito un barbone declamare dei versi volgari, ne hanno riconosciuto l’origine in delle rime popolari della loro tradizione orale: sono le rime di Dolemite e anche di “the Signifyin’ Monkey” (a breve vedremo che cos’è) e in italiano questa lista di personaggi viene resa con la frase “Dolemite, scimmia insensata”. Sembra che Dolemite sia definito “scimmia insensata”, ma sono personaggi distinti.

    La leggenda della “Signifyin’ Monkey”

    È un concetto legato al folklore dei neri americani che non sembra avere una traduzione in italiano, e se esiste è affogata in qualche polveroso tomo chissà dove. La storia di questa “signifyin’ monkey”, trasudata negli anni anche in brani musicali come “The Signifying Monkey” di Smokey Joe del 1955 (chicca, Smokey Joe era bianco!), racconta di una scimmietta che prende in giro il leone, re della foresta, dandogli a bere che l’elefante abbia sparlato di lui.
    La scimmia dice al leone “ho saputo che c’è un tale che dice peste e corna di te e della tua famiglia” e il leone si arrabbia tanto che va a minacciare l’elefante, ma le prende di santa ragione. Tornato il giorno dopo tutto ammaccato, il leone subisce ancora le spiritosaggini della scimmietta impertinente che però, dopo averlo sfidato, non riesce a scappare e le prende a sua volta.

    È una storia raccontata in tanti modi diversi e discendente da vere tradizioni africane. Alle orecchie di Rudy Ray Moore arrivò grazie ai senzatetto che per due spiccioli ripetevano queste filastrocche volgarissime piene di insulti in rima tanto originali quanto elaborati.

    La scimmia “insensata” è una traduzione corretta?

    La scimmietta del racconto viene dunque definita “insensata” dall’adattamento italiano. Alla luce di tutto questo, “Signifyin’” potrebbe forse significare più qualcosa come “spiritosa”, “spaccona”, “furba” o addirittura “lingualunga” che sembra racchiudere tutte queste sfumature. Dando per certo che in Italia nessuno ha familiarità con questa figura della Signifyin’ Monkey, quanto sarebbe stato comunque più significativo o almeno evocativo fargli dire “Dolemite, la scimmia lingualunga”! È un nome che ha del fiabesco, capiamo che fanno riferimento ad una qualche leggenda e non che stiano dando della scimmia a questo Dolemite.

    Aggiungiamo anche che sul forum del sito wordreference.com, interessante risorsa linguistica, degli utenti spagnoli che si chiedevano la stessa cosa sono arrivati a simile conclusione:

    US informal (among black Americans) exchange boasts or insults as a game or ritual.

    Me inclinaría por los dos que provees: “choteo” / “vacilón“.

    da Wordreference.com

    Cioè che prende in giro / spiritosa. Non insensata.

    Altre cose lasciate così come sono

    La grande, irreprensibile Sandy Duncan…

    Nella già menzionata scena in cui il gruppo di amici di Rudy va al cinema a vedere “Prima pagina”, i ragazzi sono perplessi da quello che vedono perché il film è lontano dalle loro sensibilità e si mettono a sussurrare. Finché dalla fila davanti una ragazza con i capelli biondi si gira e fa “ssshhhhh”, infastidita. Al che Jimmy Linch, interpellato, risponde con un “Ehi, non fare sshh a me… Sandy Duncan!

    Donna al cinema che invita a fare silenzio, una scena di Dolemite is my name

    Sshhh!

     

    E chi diamine è Sandy Duncan?

    Beh, Sandy Duncan era un’attrice all’epoca nota per la sitcom “The Sandy Duncan Show” (già “Funny Face”) andata in onda sulla CBS dal ‘71 al ‘72. La scelta di questo nome è emblematica del ragazzo nero di inizi anni ‘70 che percepisce uno show TV come quello della Duncan come “roba per bianchi”, blanda e insipida, e quindi il nome dell’attrice protagonista ne diventa sinonimo. Non importa nemmeno che la ragazza a cui è rivolto “l’insulto” non assomigli lontanamente a Sandy Ducan.

    Cast del Sandy Duncan Show

    Per noi, pubblico italiano, è un nome che ha rilevanza? No. Non quanto in America, dove la conoscono per la televisione, su Wikipedia in italiano difatti a stento ha una sua scheda. E allora perché è stato lasciato intatto nella versione italiana del film? Fedeltà assoluta al copione, certo, ma a che pro se la battuta non ci colpisce per niente? Una sostituzione con un nome come quello di Doris Day, per esempio, avrebbe già fornito il risultato sperato: stesso periodo storico, attrice e cantante bianca di successo con i capelli biondi. Voilà! È un nome più noto al pubblico italiano del 2019, per il quale stiamo adattando un film.

    Esempio già collaudato: in Ritorno al futuro (1985) il personaggio di Doc Brown nel 1955 chiede sarcasticamente a Marty McFly chi sia il presidente degli Stati Uniti nel futuro e sentendosi dire “Ronald Reagan”, che all’epoca era attore del cinema, rincara la dose dicendo “suppongo che la first lady allora sia Jane Wyman” (perché era stata la prima moglie di Reagan). Ah, non ricordate la battuta su Jane Wyman? Questo perché la versione italiana del film menziona invece Marilyn Monroe, che nella memoria collettiva (anche in quella italiana) era associata al presidente Kennedy già dai primi anni ‘60 pur senza essere anacronistica visto che l’attrice era già stranota in quel 1955 in cui si svolge il film.

    Ma niente, in “Dolemite is my name” di Netflix apparentemente è importante che vengano lasciate in inglese cose come “party record”. Che cavolo è un party record, vi chiederete?

    Il party record

    Sì, nei dialoghi italiani si sente un scambio di battute dove viene nominato un party record.

    – Perché diamine c’è la fila? Avevi detto che andavamo a un party.
    – Stiamo andando a un party. Registriamo un party record.

    E se la parola “party” è entrata nel dizionario italiano, ormai anche da prima degli anni ’70, non si può dire lo stesso di “record” nella accezione che si intende qui, né allora né oggi né mai! In italiano quando parliamo di “record” ci riferiamo a un primato registrato (record viene appunto dal verbo registrare in inglese) in una disciplina sportiva o nel famoso libro sponsorizzato da una nota birra irlandese.

    In inglese per “record”, in questo contesto, si intende un disco in vinile! Che è quello che appunto Rudy Ray Moore si prepara a registrare in quella scena. Per chiarire, un party record era un album di genere comico proprio come quello del sopracitato Redd Foxx. Erano detti “party records” quei dischi comici che contenevano materiale un po’ più audace rispetto ai più comuni “comedy records”, che invece erano registrazioni di monologhi dal vivo di materiale comico non vietato ai minori.

    Si sarebbe capito di lì a poco cosa fosse un “party record”? Sì, perché viene svelato pochi secondi dopo. È lingua italiana corrente? Mille volte no! In italiano non esiste l’espressione “party qualcosa” (su Google a stento compare qualche risultato pertinente se lo limitiamo alla lingua italiana) e con queste frasi calcate dall’inglese senza ricordarsi il contesto, il destinatario e la fruibilità, siamo al limite della lobotomia ormai.

    Era strettamente necessario riportare anche questo concetto, così (lasciatemelo ripetere) pedissequamente dall’inglese? A conti fatti, no. Si poteva benissimo inserire una frase qualunque invece di menzionare “party record”, come si è fatto tante volte nella storia del doppiaggio proprio per evitare che rimanessero discorsi insensati.

    Hipster nei dialoghi anni ’70?

    In una scena viene pronunciata la frase “Lo ascolta ogni hipster nero”, e in inglese la parola hipster ha motivo di esistere negli anni ‘70, ma non in italiano. Pur essendo una parola che ha origini negli anni ‘30 del secolo scorso, è entrata nel nostro vocabolario solo l’altro ieri, e nel frattempo dalla sua nascita ha cambiato significato tre volte. Negli anni ‘70 avremmo detto che un ragazzo era “in” per indicare che era parte di una cerchia “speciale”.

    Sold-out nei dialoghi anni ’70?

    Come non è italiano dire che un cinema è “Tutto sold-out per le dieci e mezzanotte” come esclama un organizzatore alla prima di “Dolemite”. Si è sempre detto “tutto esaurito”, qual è la ragione di questo bizzarro “sold-out” in una frase in italiano messa in bocca ad un personaggio di un film ambientato negli anni ‘70? Per non parlare della sciocca ripetizione mettendo un altro “tutto” davanti a “sold-out”, è proprio TUTTO TUTTO esaurito. Non c’è ombra di dubbio.

    Grafico con l'incidenza delle parole "sold out" e "tutto esaurito"

    “Sold out” versus “Tutto esaurito”, nel 1972

     

    Aggiungiamoci pure che sentiamo parlare di una “registrazione live” che negli anni ’70, mmmh.

    “Stiamo per fare un album, stasera. Una registrazione live

    Vediamo l’incidenza di questa definizione rispetto a “registrazione dal vivo” nei primi anni ’70.

    Grafico a confronto dell'incidenza tra le chiavi di ricerca "registrazione live" e "registrazione dal vivo"

    Direi letteralmente inesistente.

    Qualche complimento finale, mothafuckas!

    Che dire? Il film visto in inglese è molto divertente, Moore nella vita reale non ha fatto dei capolavori ma si è meritato di essere ricordato perché è stato d’ispirazione per comici come Eddie Murphy, che ha creduto tantissimo in questo progetto, e per rapper come Snoop Dogg, il quale interpreta nel film il disc jockey del negozio in cui lavora Rudy e che ha affermato: “Senza Rudy Ray Moore, Snoop Dogg non sarebbe mai esistito”. Sul finale del film, Moore viene accreditato come “Padrino del Rap”.

    Della versione italiana posso dire che mi sono piaciute le rime che il personaggio di Dolemite decanta sul palcoscenico. Si sente che chi le ha composte si è divertito e riescono a rendere bene tono e intenzione di quelle originali. Fare questo lavoro in rima non è cosa da niente. Apprezzo che, dove possibile, quando i personaggi menzionavano un altro film, sia stato riportato il suo titolo italiano e non lasciato in inglese (né inventato di sana pianta, come abbiamo visto in tanti prodotti doppiati). Anche questo non è scontato e rivela che è stato prestato un minimo d’attenzione.

    Pollice in su anche per la voce di Eddie Murphy in questo film, Fabrizio Vidale, ha fatto un buon lavoro nello star dietro all’attore facendo per conto suo pur non disprezzando di replicare (benissimo!) la famosa “risata” che Tonino Accolla aveva inventato tanti anni fa. Un simpatico omaggio ad un artista non dimenticato e indimenticabile.

    Eddie Murphy risata primo piano da Dolemite is my name

    Sapete di quale risata sto parlando!


    Letture consigliate

    “Dolemite Is My Name,” the Signifying Monkey and the Black Comedic Tradition, del giornalista Joshua Adams [in inglese]

  • L’eroe che ci meritiamo, ma non quello di cui abbiamo bisogno

    Il testo che segue è la copia di un mio intervento/editoriale incluso nell’articolo Gualtiero Cannarsi, nel di lui caso – Reazioni pubblicato il 19 settembre 2019 sul sito Dimensione fumetto. In questo blog non ho mai parlato degli adattamenti italiani dei film di Miyazaki, questa è una riflessione sui fan delle opere di adattamento di Gualtiero Cannarsi, se vogliamo. Per l’analisi linguistica di alcuni casi-esempio da parte di qualcuno che il giapponese lo conosce, non posso che invitarvi invece a leggere tutti gli articoli della serie “nel di lui caso” di Mario Pasqualini.


    Il primo ospite di questo rassegna di editoriali è Enrico Viticci, docente in scuole di formazione, traduttore bilingue e blogger appassionato di cinema e di adattamento linguistico. Il suo blog Doppiaggi italioti, aperto nel 2011, è il primo (e unico) blog italiano interamente dedicato all’adattamento, conosciuto e apprezzato da direttori di doppiaggio, dialoghisti, linguisti e doppiatori.


    Il fenomeno Cannarsi è certamente singolare in Italia, forse al mondo. Ma questa volta c’è poco da vantarsene.

    L’eroe che ci meritiamo, ma non quello di cui abbiamo bisogno

    di Enrico Viticci

    La rete ha dato voce proprio a tutti, incluso me che da oltre sette anni parlo di adattamento sul mio blog Doppiaggi italioti, con recensioni che cavalcano un sottile filo tra l’intrattenimento e l’informazione, e nelle quali elogio adattamenti meritevoli e castigo quelli errati, sempre argomentando le mie posizioni.

    La rete ha dato spazio anche a quelli che dicono che La morte ti fa bella è un titolo “italiota”, perché secondo loro è una traduzione sbagliata di Death Becomes Her solo perché non conoscono questo modo di dire anglosassone, eppure si accaniscono su esempi simili con tanta sicurezza e altrettanti punti esclamativi; il mio pensiero va anche a quelli che, bontà loro, pensano che una nave “destroyer” si traduca come “distruttore” invece che “cacciatorpediniere”.

    Del resto l’argomento doppiaggio è diventato sempre più popolare in Italia nell’era dei social media: in molti ne parlano ed è inevitabile che spuntino fuori anche discorsi simili. Così come quel vostro parente con la terza elementare sa cosa sia meglio per la sanità italiana (i vaccini sono velenosi e causano autismo, meglio i rimedi balzani suggeriti da un tizio su Facebook) e offende il virologo Burioni su Twitter accusandolo di scellerata disinformazione per conto dei poteri forti®, così altri sentono la stessa voglia di decretare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato nel complesso mondo delle traduzioni e dell’adattamento. Il tutto sulla base di opinioni personali e una scarsa, ma spesso sovrastimata conoscenza della lingua estera. Solitamente meno ne sanno e più si fanno estreme le loro posizioni, e interagire con certi personaggi e certe cricche è esattamente come cercare di dialogare con i complottisti delle scie chimiche per il controllo mentale a opera di una élite ebraica o con gli antivaccinisti che temono una sterilizzazione globale per aprire la strada ai musulmani o ai gay (se non c’è dietro anche del razzismo o dell’omofobia godi solo a metà). Sono pochi, ma fanno sempre tanto chiasso e così danno l’impressione di essere in tanti o di rappresentare il sentire comune.

    Una sovra-rappresentazione di minoranze chiassose finisce per influenzare, direttamente o indirettamente, anche la persona qualunque sui temi più disparati, incluso il doppiaggio (oggi anche lo zio con la terza elementare ha un’opinione in merito), argomento sul quale si diffondono luoghi comuni estremizzati che diventano parte della cultura popolare tanto quanto la sfiducia verso i vaccini, l’attrazione verso l’omeopatia o il dubbio su quelle scie nei cieli… che chissà che contengono, i poteri forti ci vogliono malati. Allo stesso modo, quante volte nel quotidiano abbiamo sentito posizioni estreme come “il doppiaggio italiano è il migliore del mondo” e la sua variante “era il migliore del mondo”, esempi eccessivamente positivi, oppure esempi eccessivamente negativi come “il doppiaggio è il male assoluto” o “una pratica barbara”, “da abolire senza se e senza ma”, “meglio i sottotitoli”… in italiano ovviamente.

    Come per tutte le posizioni estremiste, è facile trovarci delle grosse falle logiche, ma imparare una lingua estera a livello madrelingua è impegnativo e richiede anni, sono necessari non solo passione e interesse personale, ma anche vero studio. Improvvisarsi è molto più facile, scrivere un commento su Facebook o sotto un articolo di un blog è un attimo.

    In questo marasma non trovo strano venire a scoprire che Gualtiero Cannarsi sia stato scelto come responsabile dell’adattamento di film di animazione giapponese a partire da una petizione su un forum. Chi se ne stupisce non ha idea del potere che può avere un gruppo su Internet, a volte anche piccolo.

    Durante il boom dei forum, circa 2004-2008, ho assistito più volte a produzioni hollywoodiane, e neanche sconosciute, parlo di Spielberg ad esempio, influenzate da certe opinioni che andavano di moda su forum tematici (nel caso di Spielberg si parla di oggetti di scena di un film, ma è uno di tanti casi), ambienti dove l’autorevolezza di alcuni utenti e delle loro opinioni influenzano il forum intero e anche gli esterni che dal forum traggono informazioni, seguendo dinamiche che in psicologia sono stranote da almeno 50 anni. Una di queste, ad esempio, è un bias cognitivo noto come effetto carrozzone (o effetto bandwagon): fa sì che certe opinioni ci appaiano più convincenti se le percepiamo essere condivise da una maggioranza di persone. In un ambiente come un forum su Internet è normale che una minoranza più attiva sia percepita come la maggioranza degli utenti.

    Di conseguenza, basarsi su opinioni emerse dai forum è sempre molto rischioso. In un sistema simile è facile bypassare certe verifiche di competenza che in altre situazioni sarebbero state tappe obbligate, tanto più quando queste opinioni vengono personificate nelle figure dei guru, eletti o sedicenti che siano. Quello dei guru “dal basso” tra l’altro è un altro fenomeno tipico del complottismo in cui si fa il tifo per “uno di noi”, anti-sistema, che si infiltra nei palazzi del potere (in questo caso le sedi di doppiaggio di Roma viste come un’entità unica, elitaria e malefica) per fare chissà quale azione rivoluzionaria, come far dire a una giapponese che le cose «si sono inguaiate».

    Se in questo meccanismo di falsata attribuzione di autorevolezza ci cascano gli assistenti di produzione del regista Steven Spielberg in una dinamica alla quale ho assistito personalmente, perché dovrei credere che la Lucky Red sia immune a certi bias cognitivi? La decisione di affidare lavori di adattamento (il ruolo più delicato nel mondo del doppiaggio) a una persona che alcuni chiassosi appassionati di animazione giapponese (e potenziali acquirenti), in un preciso momento nei primi anni 2000 hanno eletto a punto di riferimento non deve sorprendere affatto, né però devono sorprendere poi i risultati: derisi da migliaia di persone, difesi a spada tratta da pochi utenti con idee molto personali su ciò che dovrebbe essere addirittura l’intera filosofia della traduzione e dell’adattamento linguistico.

    Se poi però si va a chiedere come dovrebbero essere svolte dunque queste traduzioni e questi adattamenti, ognuno di quei discepoli anti-sistema ha un’opinione tutta sua, formalmente rigorosa nella sua semplicità (il metodo del tabellone ad esempio, fesso chi non ci aveva pensato prima!), eppure – poi si scopre – strapiena di eccezioni alla regola che comunque, di base, resta sempre assurda se veramente applicata alla lettera come dicono di fare o di voler fare. Proprio come capita per le scie chimiche, sulle quali tutti i complottisti sono accomunati dalla convinzione che siano un fenomeno dannoso e non naturale (non vengono forse dette le stesse cose del doppiaggio “tradizionale”?), ma quando poi si cerca di entrare nel dettaglio di cosa dovrebbero essere esattamente allora ognuno tira fuori la sua idea pazzesca e in contrasto con tutte le altre: per qualcuno è certo che siano veleni per rovinare i raccolti, per un altro servono al controllo di eventi climatici (dalla nebbiolina al terremoto), ci fanno ammalare, sono responsabili della mia diarrea di ieri sera, oppure servono al controllo della mente per scopi finali ancora meno chiari… e c’è sempre quello che alla fine tira fuori gli alieni e i «microchippe sottochiappali» (cit.).

    Gli esempi sui complottisti sono facilmente paragonabili alle idee espresse dagli appassionati e difensori del “metodo Cannarsi”, il livello intellettuale dei suoi paladini è proprio quello e medesimi sono gli atteggiamenti. Un’occhiata ai commenti ai precedenti articoli ne è l’immediata riprova, e sono certo che molti di quelli contenenti offese gratuite e personali sono stati già filtrati a priori dal proprietario del sito. In ogni caso ricordiamo sempre che, statisticamente, il 47% dei lettori non avrà compreso il contenuto degli articoli che sono corsi a commentare.

    In questa Italia dove le proprie capacità linguistiche sono generalmente sovrastimate (effetto Dunning-Kruger) e dove sembra che “tutti”, a parole, detestino il doppiaggio italiano pur non avendo realisticamente le conoscenze per abbandonarlo (memorabile la fuga da The Hateful Eight proiettato in lingua originale, ma senza sottotitoli), direi che Cannarsi è l’eroe che molti si meritano. Dite che vi piacciono le traduzioni pedisseque? Ciucciatevi i sommi fratelli, l’acqua versata per benino, le pulzelle, gli «Ah, perdono» quando vi viene offerto qualcosa. Volete fedeltà assoluta ai dialoghi originali? Beccatevi «Ora come ora per quel che venisse mi batterei con questo» o «A dire che ti dispiace tanto se poi verrai spazzata via dalle bombe non vorrò saperne», oppure ancora «Ma anche io se potrò andare ancora non s’è deciso mica» (da fiorentino mi fa sorridere, ad altri non so poi quanto). Salvo poi scoprire che i dialoghi non sono neanche poi così fedeli, che le sue rielaborazioni personali (basate comunque su traduzioni d’altri) sono appunto personali, nonostante vengano spacciate come unica vera “via” di adattare e, da quanto abbiamo capito da questi articoli anche noi che il giapponese non lo conosciamo, sono anche piene di errori, dal banale al madornale in uno schema che non è occasionale, ma ricorrente, e di solito sono difesi con fierezza dall’autore stesso, dalla prima parola all’ultima senza spazio per alcun dubbio. Così si parla in giapponese… in italiano!

    Nel mondo del doppiaggio non è comune, ma neanche difficilissimo trovare altri adattatori che, posti davanti a scelte molto discutibili quando non palesi errori di traduzione, le difendano caparbiamente oltre ogni ragionevole dubbio: anche gli adattatori del resto sono esseri umani, ma non serve conoscere il giapponese per capire che c’è qualcosa che non va con quelli che sono diventati a tutti gli effetti dei dialoghi-barzelletta dallo stile immediatamente riconoscibile – tranne per quello sparuto gruppo di persone che pensa, tra le tante assurdità, che una traduzione per essere vera debba essere quasi una traslitterazione parola per parola. Secondo questo inedito approccio alla traduzione e all’adattamento, una qualsiasi frase di un film di Miyazaki DEVE suonare strana alle nostre orecchie di spettatori italiani, i bambini che vediamo su schermo devono “parlare strano” perché non sono dialoghi che provengono da bambini italiani che parlano italiano, la struttura di una frase giapponese e anche i modi di dire sono diversi da quelli italiani e così deve apparire… Un concetto assurdo per chiunque, tranne che per i commentatori che troverete qui sotto, per i quali invece è una Verità per la quale vale la pena offendere personalmente voi e le vostre mamme.

    È questa la vera differenza che rende Cannarsi una voce completamente fuori dal coro nel grande (e imperfetto quanto volete) mondo dell’adattamento: il mettere in discussione l’idea stessa del processo di traduzione da quando esiste la traduzione nella storia dell’umanità (prime prove datate circa 3200 a.C.); quasi un esperimento pionieristico personale a spese della Lucky Red, del suo pubblico e dell’accessibilità stessa al cinema d’animazione giapponese nel nostro paese. Mi domando con quali libri siano cresciuti i fan del “metodo” del buon Cannarsi, in quale italiano erano scritti quei testi, quali libri leggano oggi e se si infervorino allo stesso modo per come sono stati tradotti (se di libri ne leggono).

    Di motivi per criticare il doppiaggio ce ne sono sempre stati, inutile dire che prima era meglio o peggio, ogni epoca del doppiaggio ha avuto i suoi pregi e i suoi discutibili difetti proprio perché rimane in tutte le sue fasi un’arte (dalla traduzione testuale alla recitazione al microfono) e possiamo essere in accordo o in disaccordo quanto vogliamo sulle scelte dei singoli adattatori nell’alterare un nome, un riferimento, una battuta, un modo di dire, nell’adottare (o nel non adottare) una determinata soluzione linguistica, ma nel “metodo Cannarsi” quello che i traduttori chiamerebbero “errore” fa semplicemente parte del metodo stesso e quindi non è un errore! Una logica di ferro per chi la propone e la applica, ma che alla fin fine lascia gli spettatori frasi del calibro di «Vi ho arrecato grande preoccupazione. Da oggi per intanto torno una studentessa esaminanda. Vi prego di rasserenarvi» oppure «Papà, che stanotte si va a prendere in prestito era promesso, eh?» di fronte alle quali non possiamo che esternare il sessantunesimo «dio bestia!».

    Un tale “metodo” (più che metodo bisognerebbe parlare di “trattamento”) applicato a qualsiasi altro film importato in Italia avrebbe lo stesso gusto tragicomico di ritrovarsi i no-vax al Ministero della Salute. Speriamo dunque che non si espanda a nuovi orizzonti: il mondo del doppiaggio ha già tanti problemi per conto suo, di un “trattamento Cannarsi” esteso anche ad altre opere cinematografiche non ne abbiamo proprio bisogno. Rimaniamo l’unico paese dove lo slogan “nuova traduzione più fedele” non rassicura il consumatore, ma piuttosto desta preoccupazione, quasi un sospetto: ci avrà messo le mani Cannarsi? Che questa sia la prima domanda che si pone il consumatore italiano davanti a un qualsiasi prodotto di animazione giapponese non è un dato incoraggiante. Tutt’altro.

    (inviato il 16 gennaio 2019, pubblicato su Dimensione fumetto il 19 settembre 2019)


    Altri articoli di Evit pubblicati su altri siti

  • Quando la strega Elvira perse contro la mascolinità fragile italica

    Elvira

    TETTE!

    Ora che questa parola ce la siamo tolta di torno e ho la totale attenzione del pubblico maschile possiamo passare a parlare dell’adattamento italiano di Una strega chiamata Elvira (Elvira: Mistress of the Dark, 1988), il debutto cinematografico del personaggio di Elvira, presentatrice vamp di Movie Macabre (1981-1993), un contenitore televisivo americano forse paragonabile al nostro Notte horror di quelle uniche due estati ’89-’90 con lo Zio Tibia. Il film arriva in italia con un adattamento lesivo del personaggio e non c’è bisogno di essere bilingue né di averlo visto in lingua originale per rendersene conto, le battute alterate nel copione italiano sono ben più evidenti dei seni di Elvira di cui tutti parlano in qualsiasi recensione.

    Elvira e il cane Gonk

    Il cane punk con il nome “da frocio”

    Le modifiche al copione che troviamo nel doppiaggio italiano non inficiano la comprensione del film, ma di sicuro alterano la percezione del personaggio di Elvira che ci viene praticamente spacciata come una ninfomane che fa battute sui “froci” quando è chiarissimo che Elvira non direbbe mai niente del genere!

    L’attrice che la interpreta, Cassandra Peterson, ha dichiarato che la sicurezza di sé e il suo caratteristico atteggiamento vengono dall’essere stata allevata (professionalmente parlando) “da un branco di drag queen e omosessuali” quando da adolescente in Colorado lavorava come ballerina e cantante in un bar con spettacoli di drag queen, esperienza che l’ha poi portata successivamente a Las Vegas come showgirl, un decennio prima dell’arrivo in TV come presentatrice. Cassandra ha vissuto l’equivalente di 1000 vite diverse, avendo cantato con Elvis Presley, recitato in un film di Fellini, in un film di James Bond, cantato in una band italiana degli anni ’70, scambiato ricette di cucina con Vincent Price, perso la verginità in modo violento con Tom Jones (immaginavate che Tom Jones fosse un aggressivo donnaiolo? Neanche Cassandra) ed è la creatrice (ed oggi unica azionista) del marchio Elvira. E gran parte di queste cose le ha fatte prima dei 30 anni (sigh!).

    Life goals

    Il fenomeno Elvira, sconosciuto in Italia

    Su Wikipedia è riassunta alla perfezione come una presentatrice televisiva di una rubrica horror con un aspetto da vamp malvagia controbilanciato dalla personalità pimpante di una donna verace con la risposta sempre pronta. O almeno questo è un mio estrapolato dalla pagina di Wikipedia in inglese perché la versione italiana è troppo presa dal descrivere le sue curve: “La Peterson non ha mai avuto necessità di alcuna chirurgia plastica o di impianti per migliorare le sue naturali “curve” [senza fonti].

    Molto enciclopedico

    Per capire il fenomeno Elvira in America, immaginate se Zio Tibia di Notte horror fosse stato una donna vestita in modo provocante e con la battuta pronta. Avremmo ancora 40enni che ne parlano su Facebook nei gruppi “che ne sanno i giovani d’oggi…”. Invece in Italia è arrivato direttamente il suo primo film senza una precedente notorietà televisiva e quindi senza neanche sperare di poter lasciare un segno nella cultura popolare italiana.

    Personaggio di Booberella o Popparella dalla serie i Simpson

    Un po’ come successe per il personaggio televisivo Pee-wee Herman il cui primo film, popolarissimo in America,  Pee-wee’s Big Adventure del 1985 (in cui compare anche Cassandra Peterson), fu doppiato (secondo il Genna) appena negli anni ’90 e arrivò in home video in Italia direttamente in DVD nel 2006 (secondo Wikipedia)… e solo perché il regista si chiama Tim Burton, sennò manco quello. Il suo sequel, Big Top Pee-wee – La mia vita picchiatella (1988), paradossalmente uscì molto prima in Italia, in VHS, alla fine degli anni ’80. In tal senso Elvira è stata molto più fortunata dal momento che entrambi i suoi film sono arrivati regolarmente nel nostro paese.

    In molti potrebbero aver visto la sua versione a cartoni nei Simpson, “Booberella” (o “Popparella” in italiano), ancor prima di essere esposti al film o al personaggio, magari scambiandola per una versione sexy di Morticia Addams, a cui il personaggio di Cassandra Peterson comunque si ispira.

    Come distruggere un icona con battute sul (e del) cazzo

    Il personaggio di Elvira è arrivato da noi oltremodo distorto a causa del suo adattamento che riflette quello che è ancora oggi un problema-Paese. C’è infatti una differenza che gli italiani del 1989 (e sono certo anche quelli del 2019) non hanno chiara: una donna può vestirsi in modo appariscente e avere anche atteggiamenti “sexy” e allo stesso tempo non essere di facili costumi. Questo concetto è chiarissimo sin dall’inizio del film, quando il produttore che allunga le mani finisce istantaneamente col culo per terra e piagnucola con il suo assistente “mi avevi detto che era ninfomane!” per poi licenziarla. Come dice la stessa attrice del suo personaggio: “Elvira è una donna sexy ma anche forte, che non si fa mettere i piedi in testa“, sa ciò che vuole e ci insegna subito (anche a suon di botte) a non giudicarla dall’aspetto esteriore. Tutti i viscidi cascamorti che incontriamo nel corso del film finiscono letteralmente a calci fuori dalla porta e il suo nemico naturale, ancor prima dello zio stregone assetato di poteri ultraterreni, sono i cittadini moralisti, ipocriti e bigotti della provincia americana dove Elvira finisce suo malgrado. E qui ci potremmo vedere del materiale per Tim Burton ma io ci vedo anche un po’ Footloose, con la gioventù di provincia soggiogata dai genitori puritani.

    Chi se le cerca è solo quello con il cappello da cowboy

    Chiaramente chi ha adattato i dialoghi italiani di questo film non ha capito il personaggio di Elvira altrimenti non le avrebbe fatto dire con disprezzo che al cane Algonquin hanno dato un nome da frocio, né le avrebbero fatto dire di essere una depravata puttana! Elvira potrà essere anche ammiccante e non far mistero del fatto che le piaccia il sesso (che schifo il sesso, vero?), potrà anche essere intraprendente con gli uomini che le piacciono, ma in lingua originale non è LETTERALMENTE UNA NINFOMANE (oggi comunque si dice “ipersessuale“), né tanto meno un’omofoba. Ma potremmo sospettare che il pregiudizio personale di qualcuno si sia infiltrato nell’adattamento italiano oppure che il copione sia stato alterato ad uso e consumo del maschio italico anni ’80, quella figura mitologica nota come “Er canotta“. Questo spettatore ideale è l’uomo che si sente a proprio agio soltanto quando vede riconfermati i suoi pregiudizi: se si veste da (quella che egli percepisce come) troia, è troia. Al massimo può essere una troia simpatica.

    Tutte le battute che alterano il personaggio di Elvira nel doppiaggio italiano

    Elvira che imbraccia un bazooka, la vignetta dice: ve lo faccio saltare in aria questo adattamento

    Elvira non è omofoba

    Il film inizia con le riprese di un episodio del suo show televisivo nel quale presenta horror d’annata prendendoli anche in giro e in chiusura augura a tutti la buona notte ricordando una massima da bar sport: “fatelo poco ma fatelo bene“, che culturalmente parlando è ad un passo di distanza da “mio nonno campò cent’anni perché si faceva i cazzi suoi”. La battuta sul farlo poco e farlo bene ovviamente non esiste in inglese, è un invenzione italica per trasformare da subito la nostra presentatrice fatalona in una ninfomane che parla solo di sesso. In inglese augurava semplicemente “unpleasant dreams“, letteralmente “sogni sgradevoli”, al posto di “sogni d’oro”, che poteva sicuramente essere resa in modo creativo senza subito ricorrere a battute da cinquantenni costantemente allupati.

    In questo genere di battute, l’ironia del personaggio di Elvira è la medesima che caratterizza la famiglia Addams, dove i modi di dire normalmente “in positivo” o le abituali norme comportamentali vengono riproposte in un’inaspettata variante negativa da mondo alla rovescia (Morticia che invitava i figli a “giocare col cibo” o che tagliava i petali delle rose prima di metterle nel vaso). Innocuo umorismo senza pretese, dite? Certamente, gli Addams ci hanno campato per decenni ed è un topos tipico della commedia. Del resto è il tipo di umorismo usato anche dal nostro Zio Tibia. “Unpleasant dreams” ritornerà come battuta finale ma anche in quel caso tradotta in un’ottica diversa, ma ci ritorniamo tra poco.

    Show televisivo di Elvira

    Altro momento esemplare arriva dopo l’arresto di Elvira (per stregoneria) quando, in maniera offensiva, le viene negato il diritto a una telefonata, risponde quindi al poliziotto esordendo con un “senti, finocchio!“. Un’altra offesa gratuita che non verrebbe mai dal suo personaggio, non a caso in inglese dice “listen, paunchy!” (senti, panzone!). Ai pochi italiani che hanno visto il film sarà sfuggito il perché della reazione del poliziotto, che si guarda istintivamente la pancia. Magari pensavano si guardasse l’uccello per assicurarsi che fosse ancora lì. Ah, le grasse risate a spese degli omosessuali. Uah-uah-uah… lo ha chiamato finocchio, uah-uah-uah, da morì da i’ ridere proprio.

    Per concludere sull’argomento omofobia inesistente in originale, quando Elvira tosa il cane Algonquin (il barboncino ereditato dalla prozia) e lo addobba da cane punk con tanto di borchie e cresta colorata, decide di cambiargli anche il nome abbreviandolo in “Gonk” perché Algonquin lo riteneva un “sissy name“, cioè un nome da femminuccia, inadatto evidentemente al nuovo look. Ma un conto è dire “un nome da femminuccia“, un conto è dire “un nome da frocio“. Le parole hanno un peso ben preciso. Esigenze di labiale, dite? Forse, ma a questo punto il labiale diventa il problema minore.

    Gonk il cane di Elvira

    Gonk is not amused

    Perché Elvira è omofoba nel copione italiano?

    Una supposizione. Il suo avercela con i “froci” rientra perfettamente nella mentalità maschilista di chi ha adattato il copione con questo personaggio inventato della ninfomane impetuosa: siccome ella vorrebbe farsi qualunque uomo le capiti a tiro, taccia di “finocchi” coloro che le si mettono contro, perché comunque non le sarà possibile accoppiarsi con loro. Se negli anni ’80 questo genere di commedia era ovunque in Italia, oggi sa di marciume (anche se la mentalità rimane comunque latente per un gran numero di italiani).

    Da quando esiste la commedia è esistita la commedia con personaggi omosessuali, Mel Brooks ad esempio ne ha sempre inserito qualcuno, spesso personificato nello stereotipo della “checca isterica”, ma senza tuttavia implicare che fossero dei mostri da disprezzare o detestare in quanto omosessuali. In Italia la commedia in cui si accenna all’omosessualità si è quasi sempre limitata al puntare il dito contro qualcuno per dirgli con spregio “finocchio!” oppure all’idea del “fa ridere perché lo ha chiamato finocchio e lui non lo è“, dando per scontato che nessuno degli spettatori vorrebbe mai esserlo. Er canotta di certo non vorrebbe esserlo. In pratica la commedia italiana non ha mai superato la quinta elementare. Qualcuno, Pozzetto ad esempio, si salva ma sono veramente pochi. Peccato però che questo tipo umorismo sia andato a contaminare anche altri prodotti esteri al loro arrivo in Italia (ricordate il lavoro del Bagaglino su Fritz il gatto? Da galera), inclusa Elvira che con questa mentalità non ha proprio niente a che vedere.

    Se Elvira è dichiaratamente mascolina, questa sua componente da “maschiaccio” è stata traslata nel nostro paese in “maschiaccio italico”, er canotta, e invece di giocare sul contrasto, il personaggio di Elvira e il film stesso finiscono per essere una sorta di riconferma di tutti i pregiudizi maschilisti, dall’omofobia al giudicare una donna dal modo in cui si veste. Se un doppiaggio potesse mai rappresentare il pensiero “se lo merita perché si veste così”, quello sarebbe proprio il doppiaggio di Una strega chiamata Elvira. Si può anche giocare sull’essere sexy senza essere necessariamente maniaci sessuali. Ah, questo ci porta al prossimo punto.

    Elvira non è una maniaca sessuale

    Durante la prima notte nella casa ereditata dalla prozia, Elvira si siede allo specchio della toletta e imita la Regina Cattiva di Biancaneve:

    Elvira davanti allo specchio come la regina cattiva di Biancaneve

    Mirror, mirror on the wall, who’s the most drop-dead gorgeous of them all?

    “Drop-dead gorgeous” vuol dire bella da morire, da togliere il fiato, uno schianto, etc… insomma avete capito. Non certo una “depravata puttana” come dice nel doppiaggio italiano. Oh, sì che lo dice:

    Specchio delle mie brame, chi è la più sensazionale e depravata puttana del reame?

    E la successiva battuta invece di essere “lo dici tanto per dire” (oh, you’re just saying it!) è adattata in accordo con quanto appena detto: “sfacciato!“. Elvira in italiano si vede come una puttana depravata e questo è ribadito in modi diversi e più volte nel doppiaggio mentre in inglese ha semplicemente un’alta stima di sé. Se non è cambiare il personaggio questo, non so proprio cosa lo sia. L’unico momento in cui appare sfacciata è quando trova un uomo che le piace (uno in tutto il film, il timido Bob) e si approccia a lui come Elvira potrebbe fare.

    Una scena di Una strega chiamata Elvira, Elvira con i ragazzi

    In una scena successiva Elvira cerca di convincere i ragazzi ad andare a vedere “uno dei peggiori film mai fatti” ma a questi è stato proibito di frequentarla, pena l’espulsione dalla scuola, quindi restano impassibili alle sue descrizioni sulla bruttezza del film, e lei rincara la dose:

    Insomma parla di certi… movimenti. Spiega cosa si può fare in barca per esempio.

    Il “cosa si può fare in barca” è detto mentre mima il gesto di remare. Sembra che voglia convincere i ragazzi promettendo un film pieno di sesso. In realtà sta mimando la gestualità di Michael Jackson che canta “Bad”:

    It is bad! You know, like “bad” as in… bad, like, “I’m bad, shamone, you know it!”.

    Non che si potesse rendere la stessa battuta anche nella nostra lingua ma, ovviamente, dove va a parare l’alternativa italiana? Sempre lì…

    Maccio Capatonda che fa il gesto di scopare

    Scopare!

    Per ribellarsi ai genitori bigotti, la descrizione di un film brutto non è sufficiente e così Elvira si gioca la carta della pietà facendo finta di avere tendenze suicide: preannuncia che avrebbe messo la testa nel forno e conclude dicendo:

    Se qualcuno vi chiederà di me, ditegli che avevo un gran bel paio di gambe… e anche un gran bel paio di tette.

    Se vi sfugge la battuta è perché non è stata tradotta. In inglese recitava questo:

    Se qualcuno vi chiederà di me, ditegli che ero più di un gran paio di tette… ero anche un incredibile paio di gambe.

    Come con tutte le battutine di Elvira, non è la battuta in sé a far ridere, è il modo in cui viene detta. E se in inglese gioca sul “sono più di quello che vedete” (sovvertendo due volte le aspettative), in italiano dichiara semplicemente di essere un paio di tette e un paio di gambe, senza dubbio alcuno… e penso che chi ha adattato questo film in italiano non se lo sia posto proprio, il dubbio.

    I was more than just a great set of boobs

    Più di un gran paio di tette, ci sono anche le gambe.

    Arriviamo così alla proiezione del filmaccio di mezzanotte, Elvira commenta in diretta Pomodori assassini (Attack of the Killer Tomatoes!, 1978) e a fine serata richiama l’attenzione dei ragazzi con un “ladies and dobermans” che in italiano diventa “patatine e piselloni“. Anche qui Elvira passa per assetata di sesso, quando la battuta era facilmente traducibile come “ragazze e bestioni”, ben diversa anche come intenzioni. “Doberman” non ha altri significati noti nella lingua inglese oltre la razza di cani, a meno che gli sceneggiatori non ne forzino uno loro, come sottolineato in questa risposta su Quora.
    Invece di chiamare gli uomini delle bestie, che ricade perfettamente nel suo personaggio, in italiano ne apprezza gli enormi peni. L’esatto opposto.

    Maccio Capatonda che fa il gesto di scopare

    Continuando sullo stesso tema, la frase “la vendetta è meglio dell’orgasmo” è la reinterpretazione italo-sessuomane di “revenge is better than Christmas” (la vendetta è meglio del Natale”). Peccato, ci siamo persi un gadget a tema natalizio molto simpatico.

    Tazza di Elvira con scritta la vendetta è meglio del Natale

    Anche l’ultimissima frase del film, quando per la seconda volta Elvira augura a tutti la buona notte con il suo tradizionale “unpleasant dreams” seguito da un occhiolino ammiccante (la battuta di chiusura dello suo show televisivo), in italiano deve dire qualcosa di zozzo: “non fate sogni bagnati“.

    [insert meme-scopare.jpg]

    È il classico caso dove potremmo usare una volgare espressione popolare con riferimento alla persona che ha adattato il copione del film. Posso dirlo? Lo dico. Se invece di adattare questo film si faceva una sega era meglio.

    L'attore Kurt Fuller in una scena del film Una strega chiamata Elvira

    Il responsabile dell’adattamento italiano?

    In questa continua ricerca della battuta a sfondo sessuale, è curioso che gliene sia sfuggita una presente invece nel film in lingua originale! Questa arriva durante il restauro della vecchia casa quando Elvira, approfittandosi della smania di guardarla che hanno degli adolescenti della piccola cittadina, li mette tutti a lavorare “aggratis” per rimettere a posto la casa della prozia così da venderla e scappare al più presto a Las Vegas. Le basta sfoderare quelle pose sexy che usa nel suo programma televisivo che i ragazzi accorrono letteralmente a frotte per poi ritrovarsi a scartavetrare, martellare e dipingere la vecchia casa. Quando Elvira viene avvertita dell’arrivo di nuove leve, si trova in ginocchio che sculetta a passo di Shout!, si gira verso di loro e dice “fantastico! Allora fate qualcosa anche voi.”. Questa frase in originale era “Great! Just grab a tool and start banging“, ovvero “fantastico! Allora prendete un attrezzo e dateci dentro”. Come hanno fatto a perdersi un’altra occasione per darle della puttana?

    Occasioni mancate

    Altre piccole traduzioni errate

    Elvira invita Bob a mangiare a casa sua ma non sa cucinare, così prende il libro di ricette della prozia (che si rivelerà essere un libro di incantesimi) e getta le peggio schifezze nella pentola sperando che ne venga fuori qualcosa di commestibile, per questo quando esce dalla cucina con l’intruglio appena preparato esclama “it’s soup!” (letteralmente “è minestra!” o, a giudicare dall’aspetto finale, forse è più un “minestrone”).
    In italiano Elvira esclama “il pranzo è servito!” e non so se volesse essere un riferimento al popolare quiz televisivo italiano di quel periodo Il pranzo è servito (1982-1993) e di per sé non è un’alterazione sbagliata se non fosse che la scena si svolge palesemente di notte, chi pranza di notte? Difatti, letteralmente due battute dopo, Elvira dice “spero che tu abbia fame perché ecco qui la cena“.

    Mostro emerge dalla pentola in una scena di Una strega chiamata Elvira

    La cena

    Aggiungo qui una piccola nota che potrebbe sfuggire anche guardando il film in inglese sottotitolato. Quando Elvira nomina alcuni film “I married Satan” e il suo seguito “I married Satan 2” (entrambi inventati) ci perdiamo un gioco di parole che vuole che il numero “2” in inglese si legga esattamente come “too” che in quella frase vuol dire “anche io”. Quindi il seguito suona anche come “Anch’io ho sposato Satana!”. Ovvio che certe cose non sono riproducibili nella traduzione e non gliene facciamo una colpa.

    Vederlo in italiano o in inglese?

    Mi dispiace per i vari amici blogger (ne hanno parlato sia La bara volante sia La cupa voliera del Conte Gracula riassumendo il film molto meglio di me) che lo hanno recensito probabilmente senza sospettare che l’umorismo di Elvira in lingua originale fosse in alcuni punti radicalmente diverso da quello che è arrivato a noi. In italiano Una strega chiamata Elvira sembra essere stato adattato dagli antagonisti del film stesso, i “benpensanti”, i moralisti di provincia che giudicano Elvira per il suo aspetto e la chiamano apertamente puttana, a volte troia. Il film è stato adattato da loro, dai puritani, e mentre in inglese Elvira è ancora un personaggio al passo con i tempi, non lo si può certamente dire della sua versione italiana.

    È come se facessero bestemmiare Pee-Wee Herman. Lo capite anche senza vedere la versione originale che c’è qualcosa che non quadra. Oppure Dodò dell’Albero azzurro. L’affronto più grave è che le voci della CVD sono fantastiche, in particolar modo quella della doppiatrice Mavi Felli che è un vero fenomeno sul personaggio di Elvira! Uno spreco enorme.

    A prescindere dalle alterazioni sul suo personaggio, consiglio caldamente di scoprire (o di riscoprire) questo film in italiano non solo agli appassionati del doppiaggio anni ’80 ma anche a tutti gli apprezzatori di commedie in cui un’inusuale protagonista sconvolge lo status quo di una provincia americana bigotta e retrograda, aiutando i cittadini a diventare persone migliori. Il film esiste in DVD e vi basterà ignorare i vari “frocio!” per scoprire una commedia comunque gradevole e divertente, anche grazie alla recitazione dei doppiatori coinvolti. Nel 2001 ne è stato realizzato anche un sequel, La casa stregata di Elvira (di cui sconsiglio la visione in qualsiasi lingua), anche di questo esiste il DVD italiano ma il cast di doppiaggio non è il medesimo.

    È solo grazie al DVD che finalmente ho potuto esplorare “Elvàira” (così si pronuncia in inglese) anche in lingua originale, scoprendo quanto risulti ancora moderna la nostra “padrona delle tenebre”.

    Infatti, se all’estero questo film è già stato identificato come un film profondamente femminista [vedi gli articoli Why Elvira: Mistress of the Dark is a feminist masterpiece di “NYCEA” aprile 2014 e Cult icon Elvira is the 1980s feminist hero we need right now di Lisa Beebe, ottobre 2018. E sono solo due dei tanti!], in Italia, con quel doppiaggio e senza essere avvertiti in anticipo, sarà difficile che qualcuno riesca a guardare oltre ai seni per arrivare alla stessa conclusione. Al massimo arrivano anche alle gambe [ba-dum, tsss!].

    E anche questa recensione è conclusa…

    Boom!