Sembra strano ritrovarsi nel 2021 a raccontare di sequel apocrifi eppure eccoci qui a descrivere gli stessi mezzucci che nell’Italia degli anni ’80 e ’90 ci portarono “perle” come Alien 2, Ancora più scemo, Balle spaziali 2 – La vendetta, Il tempo delle mele 3, per non parlare di La casa 3, La casa III, La casa 5, 6 e 7 e tanti, tantissimi altri. Questa volta è toccato a Great White, film australiano spacciato come terzo capitolo di quella serie di film a base di squali chiamata “47 metri”, e arrivato in Italia come 47 METRI – GREAT WHITE.
Ripercorriamo brevemente questi “47 metri”.
47 metri e 47 metri: uncaged
47 Meters Down (2017) è uno di quei film indipendenti prodotti al prezzo di un paio di birre e una nocciolina —5,5 milioni di dollari — che però gli va di culo e finisce per incassare più di 62 milioni in tutto il mondo. Arriva anche in Italia con enormi cartonati nelle sale della catena UCI e con il titolo “47 metri“. Nel film due sorelle rimangono intrappolate in una gabbia sul fondo del mare (a 47 metri di profondità) circondate da squali, nessuno sa che sono lì e sono a corto di ossigeno. L’uscita è ovviamente estiva (dal 25 maggio) e a settembre alla casa di produzione britannica “The Fyzz Facility” già si sfregavano le mani pensando a un sequel, “48 Meters Down”.
Il seguito uscirà nell’estate 2019, ma non col titolo previsto di 48 Meters Down, verrà invece tenuto quel “47 Meters Down” ormai noto al pubblico, con l’aggiunta di un sottotitolo: 47 Meters Down: Uncaged. In italiano: 47 metri – Uncaged, perché è dagli anni ’70 che l’inglese in locandina “fa horror”.
Il secondo “47 metri” non si svolge più in una gabbia (per questo è “uncaged”) bensì tra incredibili rovine maya sommerse (presumibilmente a 47 metri di profondità, che coincidenza) e infestate da squali ciechi del pleistocene… o qualcosa del genere. Questo secondo film, “sgabbiate”, è più scemo, costa di più (12 milioni) e incassa di meno (47,5 milioni in tutto il mondo, uno per ogni metro praticamente), ma tutto sommato gli è andata ancora di culo. Qualsiasi film che faccia più del doppio dei costi di produzione è in profitto.
Senza poter neanche dare la colpa al Covid, in Italia 47 metri – Uncaged arriva solo “on demand” su varie piattaforme di streaming, quindi pagando qualcosa in più oltre all’abbonamento mensile. Il che vuol dire che gran parte degli italiani se lo sono goduti in copia pirata di buona qualità.
Visto l’andazzo al botteghino, ai produttori sarà stato chiaro che un terzo film poteva essere un rischio inutile e ad oggi la serie si è fermata al secondo film. Tranne in Italia. Noi siamo speciali.
Il terzo capitolo tutto italiano… 47 metri – Great White
Il 30 settembre 2021, a estate ormai finita, esce nei cinema italiani un fantomatico terzo capitolo, 47 metri – Great White, in cui cinque persone rimangono bloccate su una scialuppa di salvataggio braccata da uno squalo bianco. È il terzo film solo sulla carta e solo in Italia, perché in realtà il suo titolo originale è semplicemente Great White, e non ha niente a che fare con i due “47 Meters Down”.
Da dove sarà venuta l’idea? Oltre all’ovvio fatto che si tratta di un film con squali, probabilmente l’idea sarà venuta dalla locandina originale che recita: dai produttori esecutivi della serie “47 metri”. Una dicitura molto paracula visto che dei 51 executive producers totali (non scherzo, li ho contati), è vero, 3 di questi sono in comune ai precedenti capitoli. Tanto varrebbe accomunare tutti questi film dal fatto che siano usciti sul pianeta Terra.
Dallo stesso pianeta di “47 Metri”
Nel film Great White nessuno si immerge a esattamente 47 metri di profondità (non che ci sia dato sapere almeno), e la trama si svolge quasi interamente in superficie, quindi siamo proprio all’esempio di titolo italiota per eccellenza. Lo mettiamo insieme a 2002: La seconda odissea. Come film della domenica non è la cosa peggiore mai vista, forse perché le mie aspettative erano già 47 metri sotto la superficie del mare. Ma se ve lo siete perso al cinema non è poi questa grande lacuna.
Il 3 ottobre il film è stato presentato al Romics e chissà se in quella occasione uno dei tanti ospiti chiamati a parlare del film avrà menzionato il fatto che non si tratta davvero di un seguito di 47 metri. Chissà perché ne dubito. Che questo fosse il terzo capitolo della serie è stato praticamente accettato da tutti in Italia senza battere ciglio. Del resto, i distributori italiani non mentirebbero mai al proprio pubblico. 😉
Tutti e tre i film sono stati doppiati dalla Sound Farm 999 (sempre con un buon cast) e distribuiti dalla Adler Entertainment di Milano la quale, sul sito ufficiale, descrive così il film:
“La saga di 47 Metri continua con un nuovo terrificante capitolo“.
Diamo per scontato che tutto ciò sia legale. Intanto l’Italia rimane l’unico paese dove il film australiano Great White è stato spacciato come appartenente alla serie “47 metri”, solo perché… ci sono degli squali. La scelta è certamente più furba di titoli tipo “La casa 3” perché, non essendoci numeri nella titolazione, anche se dovesse uscire un “vero” terzo film, farebbe comunque la sua porca figura nella quadrilogia tutta italiana di 47 metri.
Insomma un’altra grande aggiunta all’infinita raccolta di SEQUEL APOCRIFI.
Nel 1980 sulla seconda rete (poi Raidue) arriva in Italia una serie intitolata I ragazzi del sabato sera, immediato rimando al successone cinematografico che era stato il film La febbre del sabatosera neanche due anni prima. La Rai voleva far credere agli italiani comodamente seduti a casa loro che si trattasse di un seguito per la TV di quel famoso film con John Travolta? Del resto John Travolta compariva in ogni episodio! Si è trattato invece di un altro caso di seguito apocrifo e di TITOLO ITALIOTA, ovvero quei titoli che cercano di ingannare in qualche modo lo spettatore italiano. In questo caso facendo anche uno sforzo in più rispetto al solito.
Il titolo originale: “Welcome back, Kotter”
Gabe Kotter è un professore inviato ad insegnare in una scuola superiore di Brooklyn, la stessa che Kotter aveva frequentato da giovane. Qui si spiega il “bentornato, Kotter” del titolo originale. La classe in cui va ad insegnare è composta di ragazzi poveri e problematici di un quartiere che all’epoca era malfamato. C’è l’italo-americano, l’afro-americano, l’ebreo di origini latine, etc…. È una trama che avete già visto altre volte in dozzine di film, quella del professore che è un pesce fuor d’acqua tra ragazzi di un quartiere difficile, una classe di pluri-rimandati in cui però il professore crede e aiuterà.
Il titolo italiano ha seguito la strada di un altro caso simile, il film intitolato I ragazzi di Happy Days (Sweater Girls, 1978) arrivato in Italia nel ’79 in piena onda Happy Days (dal ’77 in onda anche in Italia). Cliccare sul link per credere! A quanto pare basta mettere “i ragazzi di” come lasciapassare per tentare di rubare il successo altrui. Per usare le parole del protagonista di Quei bravi ragazzi: “è come se fosse una licenza di rubare, è la licenza di fare qualsiasi cosa”.
La febbre di quei bravi ragazzi con brillantina del sabato sera
La versione Rai
Negli Stati Uniti la serie è andata in onda dal 1975 al 1979, quindi iniziò prima di La febbre del sabato sera (1977), e non sorprenderà sapere che in Italia la serie sia arrivata solo nel 1980, ben cinque anni dopo (su Rete 2 a partire dal 12 maggio del 1980, alle 18:50 in fascia pre-serale dal lunedì al venerdì nel programma contenitore chiamato Buonasera con… Rossano Brazzi). Nel mondo della televisione italiana era abbastanza usuale ricevere serie estere con anni di ritardo, quando magari in America erano belle che terminate.
Quello che lascia sorpresi invece sono le palesi intenzioni della Rai: sfruttare il successone di La febbre del sabato sera, ma in particolare di John Travolta. Per fare ciò, non solo sono andati a cambiare il titolo, spostando essenzialmente l’attenzione dal professor Kotter al fantomatico “sabato sera” (ovvero a Travolta), ma decisero di far doppiare soltanto quegli episodi in cui John Travolta aveva un ruolo più consistente. Della serie in sé quindi importava poco, c’era da fare ascolti nel modo più bieco possibile. Il Radiocorriere di quella settimana del 1980 lo descriveva come “evidente richiamo al maggior successo cinematografico” e comiche sono le trame riassunte, dove ciascun episodio è chiaramente incentrato sul personaggio di Travolta, che era sì principale ma non certo l’unico. Almeno, non nella serie in lingua originale.
Qui trovate il PDF di Radiocorriere con tanto di intervista a Travolta (da pag.30)
Non sono riuscito a trovare clip italiane di questa serie, quindi non mi è dato sapere se anche nell’adattamento italiano ci sono state alterazioni atte a trasformarla a tutti gli effetti in una serie “sequel” di La febbre del sabato sera, ma non mi stupirei di scoprire il personaggio di John Travolta, Vinnie Barbarino, rinominato Tony Manero nel doppiaggio italiano. Tuttavia, non sembrano essersi spinti fino a quel punto. Da un articolone di approfondimento sul Radiocorriere e dalle trame riassunte nella programmazione televisiva, sembrerebbe che il nome di Vinnie Barbarino sia rimasto inalterato. Chi l’ha vista e se la ricorda potrà confermare o negare.
Nel 1985 la serie arriva su Canale 5 ed è in questa occasione che vengono doppiati anche tutti gli altri episodi scartati dalla Rai, quelli che non si concentravano sul personaggio di Travolta, immagino. Se ne trova traccia nella “succulenta” fascia oraria delle 18:00 in pieno agosto, tra lo sceriffo Lobo e un telequiz di Claudio Lippi.
Il doppiaggio italiano
Qui le informazioni si fanno sempre più scarse. Non saprei dire ad esempio se gli episodi mancanti siano stati doppiati dallo stesso studio di doppiaggio usato già dalla Rai (la DEFIS secondo la scheda su Antoniogenna.net) o da uno studio differente. E neanche ci è dato sapere se gli episodi già trasmessi in Rai nel 1980 siano stati ridoppiati in occasione del doppiaggio degli episodi mancanti andati poi in onda su Canale 5. Il dubbio è lecito.
Sulla pagina di Antoniogenna.net viene riportato Marcello Duranti alla direzione e ai dialoghi di I ragazzi del sabato sera. Lo stesso ha anche diretto e dialogato Happy Days. Nel cast di doppiatori sono elencati Dante Biagioni e Luigi Diberti sul professor Kotter (rispettivamente stagione 1 e stagioni 2-4), Laura Gianoli sulla signora Kotter, Antonio Colonnello su John Travolta/Vinnie Barbarino (yes, la stessa voce di Fonzie in Happy Days) e poi Emilio Bonucci, Vittorio Guerrieri, Gil Baroni e Claudio Sorrentino (occasione mancata di avere Sorrentino su Travolta). Ai dialoghi viene elencato anche Alberto Piferi, chissà se è vero. Come sempre, la fonte di tutte queste informazioni è sconosciuta.
Kotter nella cultura popolare americana
Possiamo supporre che se non fosse per la presenza di Travolta, questa sarebbe stata una delle tante serie americane mai neanche giunte fino a noi. Ad oggi resta tanto famosa in America quanto sconosciuta in Italia. O per lo meno, non ricordata.
L’unico protagonista della serie, secondo la Rai
Al contrario, l’impronta di questa serie nella cultura pop americana è pesante. Questo anche grazie a repliche anni ’90 che l’hanno fatta conoscere a chi cresceva in America in quegli anni. I riferimenti a Welcome back, Kotter infatti si sprecano nelle produzioni statunitensi, basti pensare alla miriade di serie TV americane che hanno almeno un episodio che si intitola “welcome back, X”, dove X è il nome di qualche personaggio. Omaggi per noi invisibili visto il cambio di titolo in Italia e la scarsa popolarità della serie, eppure quasi onnipresenti nella TV americana. Altri riferimenti identificabili solo in lingua originale potrebbero trovarsi in battute di serie e film dove un professore coi baffi viene inevitabilmente ribattezzato “Mister Kotter”, oppure nel nominare elementi della serie come la parola “Sweathogs” che identificava gli scapestrati della classe del professor Kotter (“imbranati” in italiano, così almeno riporta un articolo del Radiocorriere), fino agli omaggi meno diretti, come quello in Pulp Fiction, dove la storia di avere una barzelletta a episodio nella serie inventata ‘Volpi Forza Cinque’ è lo stesso stratagemma che si trova proprio in Welcome back, Kotter, che Tarantino ha nominato durante una sua intervista (quindi possibile fonte di questa trovata).
E il bello è che i riferimenti a questa serie non si sono limitati agli anni ’80 e ’90 ma continuano tuttora, a distanza di più di 40 anni dalla fine della serie. Ad esempio, la serie Supergirl alla sua ultima stagione (anno 2021), ha un episodio intitolato “Welcome back, Kara”, che a noi sembra un banale “bentornata Kara” ma per gli americani è un diretto riferimento alla serie Welcome back, Kotter, così come lo è “Welcome back, Potter” in Bob’s Burgers (2017), nell’episodio era il nome di ceramiche di seconda mano; poi ancora “Welcome back, Carter” nei Griffin (2010), e c’è un “Welcome Back, Potter” anche nei Simpson (2009) sul poster di un anziano Harry Potter , e la lista potrebbe andare avanti a lungo ma mi sono limitato a nominare esempi da serie stranote arrivate in Italia dagli anni 2000 in poi.
Anche altri tipi di riferimenti si sprecano. Ad esempio l’episodio pilota di Breaking Bad dove Jesse Pinkman dice al suo ex professore “You ain’t Welcome Back Kotter“, che nel doppiaggio italiano è diventata “questa non è l’ora di religione” (aveva senso nel contesto, giuro), oppure in Friends (S04e21) dove Joey commenta i baffi di Ross dicendo “looking good, Mr. Kotter“, nel doppiaggio italiano “sei uno schianto con quel look“.
La scomparsa di Kotter in Italia
Lo scarso impatto culturale di questa serie in Italia e il titolo completamente alterato, hanno portato alla completa cancellazione di tutte le citazioni e riferimenti della TV americananei doppiaggi italiani. Dal nominare Mister Kotter, gli Sweathogs, Barbarino, Horshack (altro personaggio della serie), alla battuta ricorrente “Up your nose with a rubber hose!” (letteralmente “ficcatela nel naso con un tubo di gomma”) o ai titoli con formula “Welcome back, X”. Tutto sparito, comprensibilmente. È la conseguenza obbligata di un mancato fenomeno televisivo.
Immaginiamo un’Italia dove Happy Days non abbia mai avuto successo, non sia mai stato replicato in TV e non lo ricordi più nessuno, ma nel frattempo centinaia di prodotti televisivi americani anche contemporanei continuino a nominare un certo Fonzie e un certo Richie Cunningham. Ecco, ci troveremmo nella stessa situazione di Welcome back, Kotter.
Mi auguro rispunti fuori come tappabuchi del palinsesto Mediaset, o addirittura su piattaforme di streaming, così da poterne identificare i doppiatori e saggiarne l’adattamento. Per il momento, rimane solo un articoletto su un titolo italiota che se lo racconti agli americani non ci credono.
Come nota conclusiva, voglio lasciare un riferimento curioso che troviamo invece nella locandina americana diLa professoressa di scienze naturali (1977), eroticomico italiano che in inglese (sì, alcuni di questi arrivavano anche all’estero) è stato intitolato School Days e gli è stata data una “tagline” che dice: “She’s hotter than Kotter“, “è più sexy di Kotter” diremmo in italiano. E anche gli “Sweatdogs” rimarrebbero allibiti. Un caso inverso di vendere un prodotto che non c’entra nulla usando riferimenti più noti nel proprio paese.
Il 17 settembre 1993 arrivava in Italia Jurassic Park di Steven Spielberg. Erano anni in cui Spielberg era ancora un Dio sceso in Terra per intrattenerci e Jurassic Park è un film che ho visto al cinema, che ho visto e rivisto in una sfuocata VHS pirata in attesa che uscisse quella ufficiale e, una volta uscita anche quella, mi sono visto e rivisto pure in VHS originale! Non che fossi in favore della pirateria, ero solo JP-dipendente e non potevo attendere un anno intero per l’uscita ufficiale. È da quelle ripetute visioni che i dialoghi italiani sono stati impressi a caldo nel mio cervello, probabilmente per sempre. Non solo le parole in sé, ma anche le inflessioni, le pause, etc… questo ancora prima di avere coscienza di cosa fosse il doppiaggio. Molti di voi avranno sicuramente familiarità con l’esperienza di guardarsi un film fino a impararlo a memoria, un fenomeno reso possibile solo con la diffusione dell’home video che ha permesso a bambini drogati (come lo ero io di Jurassic Park) di “farsi” dei loro film preferiti a piacimento fino a saperli recitare a memoria.
A 8 anni ovviamente non potevo immaginare che un giorno avrei avuto un blog dove recensire gli adattamenti di film doppiati, all’epoca volevo solo diventare genetista e lavorare al Jurassic Park se ne avessero mai aperto uno. Palesemente la lezione del film di non ‘giocare a fare Dio’ non mi era arrivata neanche per sbaglio. E non ero uno di quei bambini che già prima di JP conoscevano i nomi dei dinosauri a memoria, non ho mai prestato molta attenzione alla paleontologia, ma la parte del DNA e delle “tecnologie fantascientifiche“… uau! Insomma ero un bambino strano persino tra gli appassionati del film. Solo dopo l’esame di biologia (e quello di genetica) all’università finalmente scoprii esattamente perché non si potevano riportare in vita i dinosauri. Non credete agli articoli acchiappaclick, non si potrà mai.
Passata la mia ‘fase Jurassic Park’ preadolescenziale, per molti anni mi sono concentrato su altri film, quindi sono state poche le occasioni di riscoprirlo. Oggi Jurassic Park non è un film che rivedrei ogni settimana come facevo all’epoca e le rare volte che mi capita di vederlo non sento la voglia di rivederlo subito il giorno dopo (quello accade solo con Caccia a Ottobre Rosso). Le poche volte che mi è capitato di riscoprirlo però, mi sono sempre ritrovato a pensare “questo sì che è un signor film!”, e di recente si è aggiunta un’ulteriore osservazione: “questo sì che è un signor doppiaggio!“.
Ma parlare di un doppiaggio e di un adattamento perfetti non è per niente facile. Che cosa dovrei fare, ripetere “quant’è bell’, quant’è bell’” fino a che non avrò raggiunto le 5000 parole?
A ben pensarci, questo è l’unico modo di farlo!
Quant’è bell’, quant’è bell’!
L’adattamento di Jurassic Park. Quant’è bell’! Quant’è bell’!
Senza ancora saperlo, il me bambino di allora ampliava la propria conoscenza dell’italiano grazie a questo e ad altri film del decennio anni ’80/’90, quando per fortuna mia e di tutti noi, ai dialoghi ci lavoravano ancora persone che l’italiano lo conoscevano molto bene e quindi un film della portata di Jurassic Park ha potuto godere anche di un adattamento competente di alto livello (di Alberto Piferi) e di doppiatori al loro apice.
Infatti quando nelle primissime battute del film senti Michele Gammino (sul guardiacaccia Robert Muldoon) che dice “squadra di alaggio, ai vostri posti” (pushing team, move in there in originale) sai già che questo copione italiano sarà roba di classe dall’inizio alla fine.
Alaggio: 2. Operazione per tirare a secco, con manovra manuale o meccanica con o senza appositi carrelli o slitte, un galleggiante di limitata grandezza, sulla spiaggia, ovvero su un piano predisposto (scalo di a.), leggermente inclinato e generalmente normale alla riva. (Treccani)
Qui non si tratta di un ambito marittimo, non è una barca che viene tirata in secco o rimorchiata da un argine, ma il processo che vediamo non è dissimile. Alaggio nel film viene infatti usato per descrivere l’operazione di spostamento della gabbia del velociraptor su di uno scalo in cemento dotato di binari e con l’ausilio di un carrello elevatore. Il sito tiguidoio.it descrive così il servizio di alaggio: “Il servizio di alaggioconsente il sollevamento di barche a vela e a motore attraverso l’utilizzo di gru e di un apposito carrello idraulico motorizzato, per il trasporto nell’area di rimessaggio“.
Una soluzione interessante per una frase molto breve e per evitare di cadere in guzzantiani “spingitori di velociraptor”. E questa è letteralmente una delle prime battute del film.
Allacciate le cinture dunque, si parla del fenomenale adattamento e doppiaggio di Jurassic Park. Ma vi assicuro che il giro del parco sarà relativamente breve perché il doppiaggio, così come il film stesso, rasenta la perfezione e posso sottolineare solo un numero finito di volte quanto sia fatto bene, dalla scelta degli interpreti, all’adattamento, alla ricerca del labiale.
Quindi più che riportare le battute più memorabili (che sarebbero praticamente tutte), mi concentrerò su quelle che in qualche modo deviano dall’originale (e del perché lo fanno) e su quelle che più semplicemente offrono uno spunto per qualche approfondimento. Per una recensione vera e propria del film, con la trama e tutte quelle cose che io non tratto, vi consiglio sempre di dare un’occhiata all’articolo su La bara volante di Cassidy, che non lesina sulle citazioni memorabili come:
“Ma che ci tengono lì dentro, King Kong?”
“Senta, è previsto che si vedano dei dinosauri nel suo parco dei dinosauri?” [sostituendo “dinosauri” con altre parole, questa ve la potete giocare in qualsiasi situazione]
“Dio ci scampi! Siamo nelle mani degli ingegneri.” [la preferita di fisici e matematici]
“Guarda si muovono in branco, si muovono in branco” [Questa battuta ha trovato nuova vita al tempo dei social]
Ma io aggiungo (così da toglierceli subito di torno) anche: “Ah-ah-ah! Non hai detto la parola magica”, “ti metto sotto la macchina quando ritorno”, “Dodgson! Dodgson! È arrivato Dodgson! Non gliene frega niente a nessuno” [da qui la mia vignetta autoironica], “È buono! / Qui non si bada a spese.” [se non la usate in risposta a un “è buono” che vi viene detto state sprecando le occasioni migliori che la vita vi mette davanti], “C’è qualcuno che gira per il parco ad alzare le sottane delle dinosaure?”, “L’hai fatto. Brutto figlio di puttana!”, “Sei furba, eh?” [questa è più celebre nel mondo anglosassone: clever girl! In italiano non ha la stessa riconoscibilità], “Qui non si può mica andare a spasso”, “Quelli sono degli anima…erotics?” [“are these characters auto-erotica?“, comico in entrambe le lingue, l’avvocato voleva dire animatronics]. Sicuramente ne ho saltate molte altre. Come dicevo, i dialoghi di questo film sono memorabili in entrambe le lingue dall’inizio alla fine.
Molte di queste battute sono tranquillamente utilizzabili (e sono da me utilizzate) nella vita quotidiana. E se avete la mia età e non vi viene automaticamente in mente il suono della mucca mangiata dal raptor quando vedete delle fitte foglie tropicali non vi voglio conoscere. Punti aggiuntivi a chi la imita pure.
Ma passiamo alle osservazioni. Come dice la voce di Marco Mete nel film: Si parte, si parte!
“Si parte, si parte!”
“Life finds a way”
Life finds a way è sicuramente tra le espressioni più significative e memorabili dell’intero film. La sentiamo per ben due volte, prima da Ian Malcom quando lancia la sua profezia sull’uso che viene fatto della scienza al Jurassic Park, e poi da Alan Grant quando si trova a constatare che Malcom aveva pienamente ragione.
(dopp.) La vita vince sempre. (orig.) Life finds a way.
(dopp.) La vita alla fine ha trionfato. (orig.) Life found a way.
Entrambe corrette per la situazione in cui si trovano.
L’espressione “Life finds a way” tornò a fare la sua comparsa nel trailer di Jurassic World – Il regno distrutto, (Jurassic World – The Fallen Kindgdom, 2018), sempre per bocca del personaggio di Ian Malcom che nella versione italiana recita “la vita trova una strada“, una traduzione letterale piuttosto bruttina, poco naturale e che ha senso solo se la ritraducete mentalmente in inglese. Lasciamo che Google Maps trovi una strada, e lasciamo che la vita trionfi o vinca. Chi direbbe mai che la vita “trova una strada”? Semmai la vita avrebbe potuto trovare “la sua” strada, che comunque rimane un’espressione inusuale. Ma perché stare a cambiare ciò che Piferi aveva già reso in maniera così elegante e naturale in ben due varianti?
Alla fine, nel film Il regno distrutto, questa frase non è neanche comparsa, era stata inserita solo nel trailer per stimolare l’effetto nostalgia e farci credere che Malcom sarebbe tornato come personaggio attivo nel film (non è successo), ma sarà difficile innescare una qualsiasi nostalgia quando si va a cambiare la formula originale.
Il nostro cordon bleu Alejandro e le Connection Machine
Il nostro Cordon Bleu Alejandro…
“Our gourmet chef, Alejandro” diventa nel film in italiano “il nostro cordon bleu, Alejandro“. Potrebbe sembrare una battuta di spirito ma non sta dicendo che ‘Alejandro’ è un tipo di cotoletta alla costaricana, cordon bleu è invece l’esatta traduzione di “gourmet chef”, come ci ricorda la Treccani:
cordon bleu 1. Titolo con cui si riconosce grande abilità, grande merito; nell’uso internazionale designa un cuoco o una cuoca particolarmente abili, o alcune qualità di champagne particolarmente pregiato. (Treccani)
È facile immaginare come oggi probabilmente sarebbe rimasto “gourmet chef” anche in italiano, soprattutto se lasciato in mano a certi direttori di doppiaggio che negli ultimi 15 anni si sono autoproclamati (=improvvisati) dialoghisti e hanno riempito i cinema di film con brutti calchi dall’inglese e anglicismi superflui. Magari avrebbero tenuto in inglese anche parole come “padlock”, oppure “dock”, che in questo film è “l’imbarcadero”.
imbarcadèro (o embarcadèro) s. m. [dallo spagn. embarcadero, attraverso il fr. embarcadère]. – La banchina o il pontile a cui accostano i bastimenti per imbarcare o sbarcare i passeggeri. (Treccani)
Non che con questo voglia dire che la versione italiana di Jurassic Park rifugga a tutti i costi dall’uso di parole inglesi, solo che sa dosarle bene e sa usarle quando necessario. Addirittura c’è una frase che ne aggiunge una non presente in originale:
(dopp.) Conosce uno in grado di collegare Connection Machine e fare il debug a due milioni di linee per la miseria che mi dà? (orig.) You know anybody who can network eight machines and de-bug two million lines of code on my salary?
Sembra un’aggiunta un po’ casuale e invece se andate a vedere la descrizione di “Connection Machine” scoprirete non solo che è il nome di una serie di supercomputer (quindi rimane invariato anche in italiano), ma sono proprio quei supercomputer che vediamo nella sala di controllo dove viene detta questa battuta (le lucine rosse alle spalle di Dennis Nedry nell’immagine sopra). In particolare al J.P. usavano il modello CM-5, scelto dagli scenografi per via del suo look “hi-tech” che ancora oggi funziona egregiamente.
Questa informazione l’ho trovata su Internet in pochi minuti ovviamente, ma che ne sapevano nel 1993? È probabile che l’informazione sia arrivata al dialoghista Piferi grazie ad annotazioni che alcune produzioni a volte forniscono insieme al copione, o tramite la collaboratrice di Spielberg che ha seguito da vicino l’intero lavoro di doppiaggio (come si capisce da questa intervista a Valeria De Flaviis), oppure che Piferi stesso fosse appassionato di informatica o forse sarà bastato anche solo dare un’occhiata ai titoli di coda.
Nel 1993 i CM-5 erano i supercomputer più potenti al mondo. Ma del resto lo sappiamo che al Jurassic Park non si bada a spese e il livello di attenzione nel copione italiano non è stato certo da meno. Altro che “la vita trova una strada”.
Quant’è bell’, quant’è bell’!
A proposito di informatica, programmatori e hacker…
(dopp.) Piantala! Maledizione. Che stronzi questi programmatori. (orig.) Please! God damn it. I hate this hacker crap.
Qui la scelta italiana supera il copione originale che usava un po’ impropriamente la parola “hacker“. Chiaramente era percepita dagli sceneggiatori come sinonimo di “qualcuno che incasina i computer”. Solo che Dennis Nedry non aveva hackerato un bel niente, il programma era suo e aveva inserito dei sistemi di protezione che ai troppi tentativi di accesso innescavano la sua faccia ridente che fa “ah, ah, ah! Non hai detto la parola magica“. Si può parlare di “hacking” in caso di auto-sabotaggio? È opinabile.
Oggigiorno quel “I hate this hacker crap” dei dialoghi originali (alla lettera potrebbe essere: ‘le odio queste stronzate da hacker’) fa ancora ridere perché Samuel Jackson dice la sua frase proprio ‘alla Samuel Jackson’, ma come battuta è invecchiata maluccio, sembra proprio da sceneggiatura degli anni ’90. Al contrario, la frase italiana “che stronzi questi programmatori” rimane ancora valida e non rischia di farci impelagare in diatribe sulla definizione di ‘hacker’, che comunemente viene percepita in modo negativo ma dovrebbe avere una connotazione neutra. Su questo argomento rimando all’articolo della linguista Licia Corbolante Tanti hacker: buoni, cattivi, etici, “maliziosi”).
Nedry era un programmatore stronzo, non ci sono dubbi. Da questo punto di vista i dialoghi di Jurassic Park sono invecchiati meglio in italiano.
Quant’è bell’, quant’è bell’!
La parola hacker non è stata però “censurata” dai dialoghi italiani, più tardi infatti abbiamo Lex che dichiara di essere un hacker. In questo caso la ragazza è o si crede una hacker, quindi non solo viene mantenuta la parola anche in italiano (qui ha senso tenerla) ma in qualche modo viene anche spiegata a chi avrebbe potuto non conoscerla con la frase “non sono una secchiona, sono un’esperta in computer“. C’era tempo e modo di farla capire a chiunque, quel tanto che basta per comprendere il perché alla fine del film la ragazzina riesce a riattivare il parco con un computer che certamente non era usuale nelle case dei comuni mortali (un Silicon Graphics da $86.000, l’equivalente di $160.000 oggi, con sistema operativo IRIX, specifico di quelle macchine e basato su UNIX, con interfaccia 3D per esplorare le cartelle).
Nel doppiaggio: – Starà chiusa dalla mattina alla sera a giocare con il computer. – Io sono un hacker. – E io che ho detto? Sei una secchiona. – Non sono una secchiona, sono un’esperta in computer.
In originale: – She’ll sit in her room and never come out and play on her computer. – I’m a hacker! – That’s what I said! You’re a nerd. – I am not a computer nerd! I prefer to be called a hacker!
Tre anni dopo sarebbe arrivato in Italia Hackers, con Angelina Jolie, piano piano la parola hacker si diffondeva fino ad arrivare sulla bocca di tutti, anche se spesso interpretata male (al negativo). Attenti che gli informatici si arrabbiano! Con “programmatori stronzi” invece non si offende nessuno.
incidenza della parola “hacker” nella lingua italiana dal 1980 al 2019
Ah, se volete giocare anche voi a fare gli hacker, sappiate che esiste un sito che replica il sistema del Jurassic Park. Si chiama Jurassic Systems, da “giocare” direttamente su browser. E così anche voi potrete definirvi ‘hacker’, secondo il linguaggio del cinema anni ’90. Un suggerimento: date subito il comando “music on”. Non si hackera senza la musica giusta.
Giornate a prezzi popolari
– Possiamo prevedere delle giornate a prezzi… popolari. – Well, we’ll have a coupon day… or something.
Un’altra perfetta frase adattata che rende esattamente il senso di ciò che voleva esprimere l’avvocato Donald Gennaro in lingua originale. Per chi non lo ricordasse o non avesse visto il film, in questa scena l’avvocato immaginava che avrebbero potuto sparare qualsiasi cifra come prezzo di ingresso al parco (“possiamo far pagare quello che vogliamo, 2.000 dollari, 10.000 dollari al giorno, e la gente li pagherà“), ma il creatore John Hammond gli ricorda che “il parco non è stato creato solo per i super ricchi” e che “tutte le persone di questo mondo hanno il diritto di godersi questi animali”. A questo l’avvocato risponde (in inglese) che potranno esserci dei coupon day, ovvero delle “giornate a sconto” (accessibili tramite coupon).
E avrebbe potuto certamente dire “giornate a sconto” anche in italiano al posto di “giornate a prezzi popolari“, ma riflettiamo sul diverso impatto di queste frasi. Il personaggio dell’avvocato in questa scena deve passare da pezzo di merda, sta immaginando già di poter speculare al massimo sul Jurassic Park, ma quando gli viene detto che il parco dovrebbe essere accessibile a tutti e non solo ai super ricchi, Gennaro è disposto a scendere a un compromesso: concedere il parco per pochi giorni anche ai non ricchi, cioè avere delle giornate “per i poveracci” essenzialmente. Questo in inglese è reso con quel “coupon day”, che automaticamente fa pensare alle classi sociali meno abbienti che fanno la spesa ritagliando coupon dalle riviste da parrucchiere, un’attività che non si immagina possano fare i super ricchi [e invece una ricerca del 2011 ha dimostrato che i ricchi sono quelli che li usano di più, così sfatando un vecchio mito]. Quindi se avesse detto “giornate a sconto” non sarebbe arrivato l’insulto insito in quelle parole e il distacco elitario che si voleva ottenere. Del resto a una generica giornata scontata possono accedervi anche i super ricchi e non sarebbe stato come sentir parlare di “giornate per poveracci”, che poi è ciò che sottintende Gennaro con il suo coupon day. Per questo le “giornate a prezzi popolari” sono la perfetta sintesi del concetto espresso in inglese con “coupon day”.
Quant’è bell’, quant’è bell’!
Di’-di-no sauro
(dopp.) Sa come si chiama un dinosauro disobbediente? Di’-di-no-sauro (orig.) What do you call a blind dinosaur? Do-you-think-he-saurus.
(dopp.) E un dinosauro obbediente? Di’-di-sì-sauro. (orig.) What do you call a blind dinosaur’s dog? A Do-you-think-he-saurus Rex.
Se vi piacciono le freddure, sarete tra quelli che ridono a queste due battute. Per limiti miei, non ho mai sopportato queste sequenze con i ragazzini ma non nego che nella versione italiana siano state adottate delle buone soluzioni per il gioco di parole “do-you-think-he-saurus” che gioca sul suono di “saurus” avvicinandosi a “do you think he saw us?” (pensi che ci abbia visto?), usata come nome del dinosauro cieco. Oppure per il nome del suo cane, che aggiunge solo il suffisso tassonomico ‘Rex’ (già tipico nome da cane). In italiano si sfrutta “di no” + “sauro” per ricreare la parola “dinosauro” in “dì di no-sauro”.
Inoltre, in entrambe le lingue il meccanismo della seconda battuta è simile, cioè si basa sul cambiamento di una piccola porzione della frase (in inglese aggiunge ‘Rex‘ alla precedente, in italiano cambia un no con un sì) ma, come si dice… quando la spieghi non fa più ridere! Ciò che voglio dire è che sono diverse nel contenuto, ma equivalenti nell’effetto. Frasi sceme per allentare la tensione e concludere una scena.
Non so perché a mio padre faceva sempre ridere quella del di’-di-no-sauro.
I pirati dei Caraibi prima di Johnny Depp
– Quando aprirono Disneyland nel 1956 non funzionava niente. – Sì, però, se il villaggio dei Caraibi va in tilt, i pirati mica si mangiano i turisti.
– If the Pirates of the Caribbean breaks down, the pirates don’t eat the tourists.
I pirati dei Caraibi, prima di diventare dal 2003 una fortunata serie cinematografica con Johnny Depp vestito da Johnny Depp, era l’attrazione più famosa di Disneyland, popolata di pirati animaerotics animatronic e anche l’ispirazione per il videogioco Monkey Island. L’attrazione però era tanto famosa in America quanto sconosciuta in Italia. Chiaramente la battuta non poteva rimanere tale e quale. Ottima dunque l’idea di far riferimento al “villaggio dei Caraibi” di Disneyland. Anche questa battuta dunque è invecchiata più che bene visto che modernamente in Italia la prima cosa che ci viene in mente sentendo parlare di “pirati dei Caraibi” non è certo l’attrazione di un parco giochi negli Stati Uniti ma i film con Johnny Depp.
La sentiamo quasi identica anche nel trailer italiano (“Ma se c’è un guasto al villaggio dei Caraibi, i pirati mica si mangiano i turisti“) che, come tutti i trailer, è stato adattato e doppiato separatamente, prima ancora di aver visto il film, di conseguenza ha battute un po’ diverse da quelle che ritroviamo nel film, e anche una “distribuzione” diversa (così si chiama l’assegnazione dei doppiatori ai personaggi). Nel trailer Michele Gammino è la voce del dottor Grant invece che del guardiacaccia Muldoon, Marco Mete è su Ian Malcom invece che sull’avvocato Gennaro e John Hammond ha la voce di Sergio Graziani e non di Cesare Barbetti. Il trailer che segue viene da YouTube, qualcuno deve aver preso l’audio del vero trailer italiano registrato dalla TV e lo ha montato sul video del trailer americano.
Se qualcuno ha il trailer di qualità audio migliore lo tiri fuori che questo fa schifo.
Pochissime scelte infelici
Ci sono giusto un paio di frasi sulle quali ho qualcosa da ridire, ma noterete che sono osservazioni su dettagli minori così da poco che in nessun modo vanificano o intaccano i miei precedenti complimenti a quello che, ci tengo a precisare, ritengo uno tra i migliori adattamenti di quegli anni.
Tecnologie fantascientifiche
Una frase che non mi è mai andata a genio è la seguente: “servendosi di tecnologie fantascientifiche gli scienziati hanno estratto il sangue conservato nelle zanzare“, al posto di “using sophisticated techniques” del copione originale. In italiano sembra che il documentario di Mr. DNA stia prendendo in giro i propri spettatori. È vero che in inglese si rimanda genericamente a tecniche sofisticate, ma nel momento in cui il film cerca di creare un mondo “credibile” o “plausibile” (già di per sé la sfida più grande per qualsiasi film), non dovrebbe andare a sottolineare che ciò che stiamo vedendo sia… fantascienza. Per dirla meglio: un film di fantascienza nessuno dovrebbe venire a dirci che quello che stai vedendo sia letteralmente “roba da fantascienza”, non so se mi spiego. Capisco le intenzioni, era un filmato destinato ai bambini che si approcciava a loro con simpatia, ma un “servendosi di sofisticate tecnologie” sarebbe bastato.
Computers e files
Usare parole inglesi al plurale (es. “Super computers” con la s finale come dice Mr. DNA nel film) andava tanto di moda già negli anni ’80 e ce lo ritroviamo anche qui nei primi anni ’90, limitatamente a quelle poche parole di informatica che compaiono nel film. Anche la ragazzina Lex parlerà di “files di tutto il parco“. Per quanto abituale in quei decenni, era un errore all’epoca e lo è anche adesso. Per fortuna è uno di quegli “abusi” andato poi a svanire col tempo. Infatti, per quanto oggi piaccia lasciare parole in inglese a caso, è molto raro che qualcuno dica “computers”. L’abitudine non è morta definitivamente (in TV si sente parlare di “rumors” ad esempio e sono sempre i giornalisti i principali diffusori di ignoranza), ma il plurale con “s” sembra almeno non inquinare più i film doppiati.
“Questo è un sistema Unix, io lo conosco. Ci sono i files di tutto il parco.”
Come scrive Licia Corbolante sul suo blog Terminologia Etc.
I forestierismi non adattati entrati nel lessico italiano, al plurale rimangono invariati: si dice le omelette, i croissant, i leitmotiv, i sudoku, i manga, i golpe, gli sport, i quiz, i rider. Eppure molte persone sono convinte che per indicare il plurale degli anglicismi sia preferibile aggiungere una s finale. Quasi sempre è un’imprecisione dovuta non solo al desiderio di dimostrare di avere familiarità con l’inglese ma anche ad alcuni equivoci sui meccanismi di formazione del plurale. […] La saggiunta agli anglicismi per dimostrare che si conosce l’inglese rischia di diventare un segno dell’ignoranza della grammatica italiana. […] Per non sbagliare ed evitare figuracce basta quindi trattare tutti i forestierismi, qualunque sia la lingua di origine, come nomi invariabili.
Come ho già detto qui e in passato, il plurale con la “s” era molto comune nei doppiaggi anni ’80 e ’90, all’epoca andava di moda parlare così a quanto pare, ed è tra le poche cose invecchiate male nei dialoghi di quei due decenni (notate che ho usato decenni e non ho detto decadi che invece vuol dire dieci giorni).
Errori che non sono errori: “Etciù! Dio ti benedica.”
Quando il brachiosauro starnutisce su Lex riempiendola di muco giurassico, il fratellino Timmy dice al dinosauro “Dio ti benedica“, come traduzione di “God bless you“, che normalmente tradurremmo invece come “salute!” in risposta a uno starnuto. “Salute” è il modo corretto di tradurre “God bless you” nel caso di starnuti.
Non penso però che la decisione di tenere una traduzione letterale (Dio ti benedica) sia dovuta al non sapere che in inglese si risponda “God bless you” a uno starnuto, piuttosto è probabile che il movimento della bocca di Timmy non abbia consentito un cortissimo “salute!”. Con “Dio ti benedica” sembra che Timmy, da vero fratello, gioisca del fatto che quello starnuto abbia creato disagio alla sorella, facendole essenzialmente un dispetto. E non è questo, dopotutto, il motivo per cui lo vediamo ridere dopo aver detto “salute” al dinosauro? Alla fin fine, quello che potrebbe sembrare una svista, porta allo stesso risultato. Non si tratta di un errore banale, ma di una scelta precisa che non cambia la psicologia del personaggio anche se apparentemente sembra una traduzione letterale. Sapete, quella cosa che una volta si chiamava… ADATTAMENTO?
Scozzesi, inglesi sudafricani, neozelandesi… c’è qualche americano nel suo parco degli americani?
Questo film è senza dubbio godibile in entrambe le lingue in maniera equivalente. L’unica battuta che mi manca davvero della versione in inglese è l’espressione “bloody move!” che il guardaparco Muldoon, terrorizzato, usa per intimare a Malcom di spostarsi dalla leva del cambio (lasci libero il cambio!). L’accento inglese del Sud Africa lo rende ancora più spiritoso.
Una piccola parentesi su una parola apparentemente semplice come “bloody”. Bloody, dal 1750 al 1920, era diventata la peggior parolaccia che si potesse dire in Inghilterra (e fino al 1960 il suo uso era ancora molto controverso). Come tutte le parole tabù, era usatissima ed era così tipica dell’epoca vittoriana che ancora oggi viene usata abitualmente in molte delle ex-colonie britanniche del Commonwealth in quelle stesse situazioni in cui magari un americano avrebbe detto invece “fucking”. In India addirittura hanno adottato “bloody” come parolaccia a sé stante (praticamente come noi potremmo dire “fanculo!”), invece che come aggettivo. Questo video di due indiani che si ripetono “Bloody! / You bloody!” ne testimonia l’uso bizzarro specifico della regione indiana. A parte questa deviazione inusuale, la formula è sempre quella del “bloody qualcosa” che in tempi moderni è più un modo per non dire qualcosa di peggio, così come noi diciamo “cacchio”.
Ma se il guardiacaccia Muldoon fosse stato americano e non sudafricano avrebbe sicuramente detto “fucking move!”.
– Lasci libero il cambio! – Get off the stick! Bloody move!
In Italia, in una situazione simile [quella tipica di un T-Rex che insegue la tua Jeep e sta per mangiarti perché un passeggero terrorizzato si è spostato sulla leva del cambio mettendo in folle. A chi non è successo almeno una volta?], al posto di “bloody move!” forse avremmo detto “si tolga, cazzo!“. Questa (o un’espressione equivalente) chiaramente non c’era tempo di infilarla nei dialoghi italiani vista la brevità della frase originale, e l’avrebbe resa più volgare del necessario visto che oggi “bloody” nel Commonwealth sono 100 anni che non scandalizza più nessuno a sentirlo, e in America non è mai neanche diventata una parolaccia, è solo una cosa che gli americani sentono nei film dove ci sono persone inglesi (es. in Titanic). In italiano “lasci libero il cambio!” non è tra le frasi più memorabili del film ma, come succede in qualsiasi doppiaggio, avremo sempre frasi che rimangono più impresse in una lingua piuttosto che nell’altra. Al netto di tutto, il film in italiano forse ha più frasi memorabili dell’originale. Questa nello specifico rimane più memorabile nella sua forma originaria “Bloody move!”. Capita.
Parlando d’accenti, il personaggio del vecchio John Hammond è scozzese, nel film in lingua originale parla con un marcato accento scozzese nelle prime scene per poi ripiegare su un “inglese aristocratico”, da riccone. Ma quando ricorda la sua prima attrazione (un circo delle pulci) e dice che questa aveva un piccolo trapezio, usa l’espressione “a wee trapeze“. ‘Wee‘ è una parola usatissima in Scozia al posto di “little” per identificare qualcosa di piccolo e carino, Hammond la usa mentre ricorda le sue origini e quindi la sua mente ritorna ad espressioni familiari del posto in cui è nato, la Scozia appunto. L’attore Richard Attenborough se lo era studiato bene il personaggio, non c’è che dire. Sono piccole curiosità che necessariamente sfuggono ad una visione solo in italiano ma a cui ora potrete fare caso se vi trovaste a guardarlo in lingua originale.
Ho visto le pulci, mammina, tu le vedi le pulci?
Al neozelandese Sam Neill, criticato in passato per un poco convincente accento americano, venne concesso da Spielberg di recitare con il suo accento nativo, salvo poi ritrattare e chiedergli di fare una via di mezzo tra l’americano e il neozelandese. Questo lo ha raccontato Sam Neill stesso in un recente documentario su Netflix (“I film della nostra infanzia“, stagione 2, ep. 3, 2021). Nel film in lingua originale potreste sentire alcune frasi dette all’americana e altre alla neozelandese, sempre che le sappiate distinguere. Io personalmente non ho esperienza con australiani e neozelandesi quindi non ci avevo mai fatto caso.
Altre curiosità sull’adattamento di Jurassic Park
L’importanza di chiamarsi Wu
(orig.) Wuinserted a gene that creates a faulty enzyme in protein metabolism. (dopp.) Abbiamo creato un gene che altera il metabolismo proteinico
Questa battuta è di Samuel Jackson quando spiega la storia della lisina. Nella versione italiana si perde il rimando al dottor Henry Wu, il genetista che avevamo visto solo all’inizio film durante la schiusa dell’uovo di raptor. L’omissione del riferimento a Wu è stata fatta chiaramente per i tempi della battuta e non sarebbe neanche degna di nota se non fosse per il fatto che adesso il dottor Wu è tornato con la nuova trilogia di Jurassic World, ottenendo un ruolo sempre più rilevante, ma già da questa frase del primo film si capisce (in inglese e se non avete letto il romanzo) che il dottor Wu non era soltanto uno dei tanti genetisti al servizio di Hammond bensì il responsabile dell’intero progetto di creazione dei dinosauri. Colui che “gioca a fare Dio”. Ed ha ancora più senso che in futuro torni come “cattivo” della serie.
In tutti i film in cui compare (Jurassic Park, Jurassic World, Jurassic World – Il regno distrutto), il personaggio del Dr. Wu è stato doppiato da Loris Loddi. Tanto di cappello a Sandro Acerbo, direttore di doppiaggio dei nuovi film, che deve aver deciso di chiamarlo a reinterpretare lo stesso ruolo, dando così una continuità sui personaggi minori.
“La voce che state ascoltando è di Richard Kiley”, ma chi è Richard Kiley?
Kiley era un attore diventato negli anni ’90 narratore di documentari della National Geographic. Un nostro equivalente italiano di quegli anni sarebbe stato Claudio Capone che era la voce narrante nei documentari di Superquark. Ma Capone sembra non aver mai lavorato per la società che invece ha doppiato Jurassic Park, quindi forse era esclusiva di altre società di doppiaggio (?). Sarebbe curioso sapere se lo avessero considerato al tempo.
Nel film Richard Kiley è doppiato da Saverio Indrio, una scelta che si sarebbe rivelata azzeccata molti anni dopo (1998), quando Indrio diventò il narratore della serie documentaristica Il magico mondo degli animali, della Disney.
Lo potete sentire in questo video:
Non vi aspettate che da un momento all’altro dica che il dilofosauro sputa il suo veleno alle sue prede causando cecità seguita da paralisi? Io sì.
Curiosamente, al giorno d’oggi la voce narrante per eccellenza nei documentari naturalistici in lingua inglese è David Attenborough, fratello di quel Richard Attenborough che nel film interpreta il creatore del parco John Hammond. Ma nel 1993 David Attenborough non era ancora un nome così noto agli americani. Inoltre la scelta di Kiley viene direttamente dal romanzo di Crichton (scritto negli anni ’80), che per fortuna loro era ancora valida all’inizio degli anni ’90.
Per i trekkies tra di voi, Richard Kiley è comparso anche in Star Trek Deep Space Nine (doppiato da Luigi Montini). Wikipedia riporta queste sue altre voci italiane Giuseppe Rinaldi (in Luci sull’asfalto), Pino Locchi (in Mano pericolosa), Cesare Barbetti (in Il piccolo principe), Renato Mori (in Amore senza fine), Massimo Rinaldi (in Un anno nella vita), Sergio Tedesco (in Phenomenon).
“paralisi seguita da cecità”
Scheda di doppiaggio di Jurassic Park
Direttore di doppiaggio: Manlio De Angelis
Dialoghista: Alberto Piferi
Società di doppiaggio: C.D.C.
Il cast di doppiatori
Stefano De Sando: Dr. Alan Grant (Sam Neill) Isabella Pasanisi: Dr. Sattler (Laura Dern) Roberto Chevalier: Dr. Ian Malcom (Jeff Goldblum) Cesare Barbetti: John Hammond (Richard Attenborough) Michele Gammino: guardiacaccia Robert Muldoon (Bob Peck) George Castiglia: Tim (Joseph Mazzello) Valeria De Flaviis: Lex (Ariana Richards) Claudio Fattoretto: Ray Arnold (Samuel L. Jackson) Vittorio Stagni: Dennis Nedry (Wayne Knight) Marco Mete: Avv. Donald Gennaro (Martin Ferrero) Loris Loddi: Dr. Henry Wu (B.D. Wong) Maurizio Reti: Dr. Harding (Gerald R. Molen) Eugenio Marinelli: Juanito Rostagno (Miguel Sandoval) Simone Mori: Dodgson (Cameron Thor) Paolo Vivio: bambino del Montana (Whit Hertford) Dario Penne: Mr. DNA (Greg Burson) [fonte Antoniogenna.net]
Saverio Indrio: voce della guida interattiva (Richard Kiley) [da Wikipedia]
Alessandro Rossi: capo manovre [non ha nome, è il tizio con la pettorina arancione nella scena di apertura ed è la prima persona che parla in Jurassic Park. Questa curiosità ve la porto io.]
Questa lista di nomi non penso riesca da sola a far capire quanto sia indovinata la scelta degli interpreti in questo doppiaggio, ogni personaggio è caratterizzato alla perfezione, ogni voce è giusta sul personaggio, nessuno è fuori posto. Di solito mi limito all’analisi dell’adattamento e non parlo mai delle voci, perché non è materia mia e perché, personalmente e salvo rarissimi casi, trovo che quasi tutti i doppiatori che ritroviamo al cinema e in TV siano bravi attori e quando diretti bene diano davvero il massimo. Forse negli anni ’90 questo doppiaggio neanche spiccava tra i tanti altri suoi contemporanei, altrettanto ottimi, ma a vederlo oggi e mettendolo a confronto con la recitazione moderna dei film americani e di conseguenza dei doppiaggi italiani, è ancora più sorprendente.
Vittorio Stagni su Dennis Nedry personalmente è il mio preferito. Potreste ricordare la sua voce su Lord Casco di Balle spaziali, Mama Fratelli nei Goonies (sì, era di un uomo), il papero in Howard e il destino del mondo, il capo delle faine in Chi ha incastrato Roger Rabbit, e questi solo per nominarne alcuni. Aveva già doppiato lo stesso attore Wayne Knight in JFK – Un caso ancora aperto (1991) e qui in Jurassic Park, è quasi inutile sottolinearlo, riesce a caratterizzarlo alla perfezione. Degna di nota è la scena in cui balbetta mal celando ansia e colpevolezza prima di mettere in moto il suo piano di fuga. È facile dare per scontata una buona recitazione e anche una buona “distribuzione” delle voci quando queste sono così perfette, perché tendono a non farsi notare (questo è il loro scopo del resto), lo spettatore pensa al personaggio e non a chi lo “reinterpreta”. In quanto a interpretazione, i film di quegli anni ci hanno abituato bene. E Jurassic Park del 1993 è tra quelli che ci hanno abituato troppo bene.
Mistero. Chi è la voce del tizio al molo che aiuta Nedry?
“Non te lo posso promettere”
La scheda del cast di doppiaggio presente sul sito Antonio Genna per questo film è bella corposa, mancano giusto un paio di voci minori. Una di queste compare in quella scena della “diretta video” di Nedry (lo so, palesemente un video riprodotto con Quicktime, la sappiamo tutti questa) con il tizio al molo che nel cast è chiamato “The Mate” ed è interpretato (lo scopro solo mentre scrivo questo articolo) dal famoso direttore della fotografia Dean Cundey! Una voce italiana molto familiare, di sicuro qualcuno della “scuderia” C.D.C., eppure non mi viene in mente chi potrebbe essere. Se avete idea, fatemelo sapere nei commenti.
L’utente ‘Catoblepa’ nei commenti suggerisce che possa essere nuovamente la voce di Simone Mori (che già dà la voce a Dodgson) e in tanti altri concordano con questa scelta. ‘Giacomo’ suggerisce che potrebbe essere invece una ripetizione di Loris Loddi.
Un’altra voce ancora non identificata è quella di Billy, il “volontario” (così lo definisce IMDb) dello scavo in Montana che si occupa dell’analisi sonar dei resti del raptor. Questo è lo stesso personaggio (scopro anche questo solo adesso) che in Jurassic Park III è stato poi interpretato dall’attore Alessandro Nivola, il “ladro di uova” per chi ricorda il film.
‘Antonio L.’ nei commenti suggerisce che la voce di Billy possa essere di Lucio Saccone mentre ‘Giacomo’ punta su Massimiliano Virgilii. Il mio collaboratore Finarolli (il mio “orecchio ufficiale” per queste cose) concorda al 100% su Virgilii.
Poi nell’inquadratura successiva ci sarebbe un “brusio”, molto familiare ma purtroppo molto breve, di qualcuno fuori campo che dice “quel ragazzino è incredibile“. Potrebbe essere nuovamente Massimiliano Virgilii?
Se riconoscete questi doppiatori fatevi vivi nei commenti, cercheremo di confermare la loro identità, se possibile.
Un articolo lungo 65 milioni di anni, lo so.
Da che doveva essere un rapido giro del parco ho finito per approfondire fin troppo come faccio sempre, ma siamo arrivati alla fine della gita. Tremo al pensiero di come potrebbe essere adattato oggi un film del genere, specialmente in mano a certi personaggi già noti alle cronache di Doppiaggi italioti. Avremmo forse sentito frasi come “non capisco questa mentalità luddista” al posto di “mentalità retrograda”, perché oh, in originale dice così! E il parco sarebbe stato “riportato on-line” invece che “riavviato”? Di certo “gourmet chef” sarebbe rimasto “gourmet chef” e la vita avrebbe sicuramente trovato “una strada”, perché “più fedele”… qualunque cosa significhi fedele. Se non altro tutti i seguiti di questo film, che io ricordi, sono rimasti in buone mani. I trailer non fanno testo.
Tornando a colui che scrive questo articolo, me, me stesso medesimo, sebbene alla fine non sia mai diventato genetista (ci sono andato abbastanza vicino), è curioso che la vita poi mi abbia portato a diventare dialoghista invece, e proprio per la stessa società che si occupò del doppiaggio di Jurassic Park nel 1993, a contatto con alcuni dei professionisti che avevo tanto ammirato in questo film, quando ancora non sapevo neanche chi fossero o cosa fosse il doppiaggio, l’adattamento etc…; sono agli inizi ma l’ascesa è stata rapida (sono stato messo a lavorare quasi subito con nomi famosi che compaiono anche nel doppiaggio di questo film, cosa che ancora stento a credere) e se quello che faccio viene apprezzato dai miei superiori è solo perché mi appoggio sulle spalle di giganti (anche questa è una semi-citazione del film), ovvero dei dialoghisti degli anni ’80 e ’90 che ho tanto studiato senza neanche rendermene conto. Oggi che rivedo Jurassic Park con occhi diversi, queste frasi di Malcom assumono per me un altro significato, molto personale: “voi avete letto quello che altri hanno fatto e di lì siete partiti. […] Siete saliti sulle spalle di altri“. E che spalle, direi!
Anche se non siete (o non siete stati) malati di Jurassic Park come me, penso che sia evidente che l’intero lavoro di localizzazione di questo film sia da capolavoro, da manuale direi anzi. Insomma, tornando all’argomento di questo articolo e concludendo: dopo attenta considerazione ho deciso di avallare l’adattamento di Jurassic Park.
Tararà-ra-ra, tararà-ra-ra, tararaaà ra ra raaaaaaa!
Mille ritocchi inutili in digitale e quella maledetta ragnatela alla fine del film sta sempre lì!
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