• Lei ha mai visto un vampiro? L’adattamento italiano di Vampires (1998) di John Carpenter

    Vignetta di apertura sulla recensione del doppiaggio di Vampires di John Carpenter: regola numero uno, non lasciate i film in mano alla Cecchi Gori

    Non ricordo come e quando sentii parlare per la prima volta di Vampires di John Carpenter, ma la sua versione DVD della Cecchi Gori rimarrà in eterno nella mia memoria per una caratteristica detestabile: quella della traccia audio inglese selezionabile solo insieme ai sottotitoli in italiano, e niente sottotitoli in inglese. Per coloro che, come me nei primi anni del 2000, arricchivano lo studio dell’inglese con la visione di film in lingua originale, questo genere di DVD erano ad un livello di inutilità secondo solo ai DVD senza la traccia audio inglese.

    Nel 2018, dopo 20 anni e a grande richiesta di pubblico (me incluso), la Cecchi Gori è ritornata a pubblicare questo film, stavolta in formato Blu-Ray che (e a questo punto non so se ridere o piangere) presenta lo stesso identico problema, ovvero non ha i sottotitoli in inglese (quanto costerà aggiungerli? Ve li faccio io gratis, cazzo!), né si può scegliere la traccia audio a piacimento semplicemente premendo un tasto del telecomando, no! Nel 2019??? Che sono questi lussi sfrenati da consumatori viziati! La scelta (da effettuare esclusivamente dal menu principale interrompendo così la visione del film) è solo tra “italiano con o senza sottotitoli in italiano” e “inglese con o senza sottotitoli in italiano”.

    Per fortuna nei 20 anni trascorsi da quel primo DVD il mio inglese è migliorato, un pelo eh, quanto basta da potersene fregare dell’assenza di sottotitoli in inglese, ascoltarlo con orecchie da bilingue e mettere finalmente a confronto la versione italiana con quella originale. I sottotitoli in inglese sarebbero stati comunque comodi per alcuni “screengrab” da includere in questo articolo ma grazie di niente, Cecchi Gori!

    Come ne è uscito Vampires da questo confronto? Bene, ma non benissimo. In pochi (pochissimi) momenti inaspettati infatti il film doppiato prende strade tutte sue, in compenso le interpretazioni rimangono da primo premio e in generale rimane forse un po’ più godibile dell’originale.

    John Carpenter's Vampires. Fotogramma del titolo del film Vampires di John Carpenter

    Un cognome, una garanzia.

    Il peso dei dialoghi nei film di Carpenter

    Come scrissi nell’articolo sull’adattamento italiano di 1997: Fuga da New York, nei film di John Carpenter il budget è spesso limitato ma l’immaginazione rimane sconfinata grazie alla cosa più economica dell’intero processo di produzione cinematografica, una cosa che invece viene spesso spesso considerata di secondaria importanza: la sceneggiatura.
    Frasi buttate lì, come l’accenno ad una “brigata europea” di altri cacciatori di vampiri, ci fanno pensare a chissà quali altre possibili avventure che, di sicuro, in mano a gentaccia come i markettari della Disney sarebbero sufficienti per pianificare un vastissimo “cinematic Universe” di 40 film privi di trama, come dimostrato da Star Wars e altri. Con Carpenter invece siamo piuttosto ai livelli degli esordi di George Lucas, quando i soldi erano scarsi e venivano nominate en passant cose tipo le “guerre dei Quoti“, che non avevano certo bisogno di essere mostrate né esplorate, perché era chiaro che servivano solo per condire la storia di sfondo, così da portare la mente dello spettatore ben oltre quei 10 m² di un tugurio tunisino.

    Stessa cosa con Vampires, in mano a persone meno capaci sarebbe stato fin troppo chiaro che la scelta di girarlo nel deserto e in villaggi desolati serviva a nascondere il fatto che non ci fossero i soldi per fare molto altro. Quelli bravi invece, in mancanza di soldi, investono in qualche battuta in più che possa espandere il mondo che vediamo e che magari dia piccoli indizi sulla trama che deve ancora svolgersi.

    Tutta questa magia deriva spesso da poche battute e semplici frasi, quasi invisibili ad una prima visione, e appena cambi qualcosa di queste piccole frasi magiche hai già smontato interi pezzi di film senza rendertene conto. Un esempio (per fortuna ce ne sono pochissimi) ci viene dai primi minuti del film, quando il protagonista Jack Crowe (James Woods) ci spiega le regole della sua squadra di ammazzavampiri.

    Foto sul set del film Vampires di John Carpenter. James Woods nei panni di Jack Crowe con la sua squadra di cacciatori di vampiri

    Le regole di casa Crowe

    Le regole pleonastiche di Jack Crowe

     

    Regola numero 5: Se trovate il covo e trovate il maestro, state attenti perché è pericoloso.

    Se la regola numero cinque è essenzialmente uno stai attento perché il maestro dei vampiri è pericoloso, non vedo l’ora di sentire le altre! È chiaro che c’è qualcosa che non va in questa frase. Per quanto bene la interpreti Francesco Pannofino, niente può nascondere che si tratta di una frase scema e non sorprende scoprire che in inglese sia tutt’altro:

    Rule number 5: If you find the nest, you find the master. Usually he won’t leave it on its own.

    La regola numero cinque originale dice quindi: “se trovate il covo, trovate anche il maestro. Di solito non se ne allontana mai da solo“. Sembra una cosa da poco ma in realtà ci fornisce un indizio per interpretare una scena successiva: quando il maestro non viene trovato nel covo insieme ai suoi vampiri (chiamati goons in inglese, cioè scagnozzi) e vediamo che ha evitato la retata perché riposava a debita distanza, anche noi non professionisti della caccia ai vampiri possiamo intuire che la squadra si trova davanti ad un maestro speciale, che non si comporta come gli altri visti finora dal gruppo di “giustizieri” (slayers).

    Davanti a questa situazione Jack Crowe è giustamente perplesso perché contraddice la regola n°5 che non stabiliva di stare genericamente attenti, ma che insieme ad un covo di vampiri si trova solitamente anche un maestro. In italiano invece rimane solo un ridondante “state attenti” (ma va?!), che è il tipico “non correre papà” che piace tanto in Italia, ce lo ritroviamo in dialoghi a caso già dal 1969, durante la famosa diretta RAI dell’allunaggio.
    Eppure bastava togliere una “e” per sistemare l’impiastro e mantenere la “magia”: se trovate il covo, trovate il maestro. State attenti perché è pericoloso.

    A volte basta veramente poco per non dire scemenze.

    Scena dal film Vampires di John Carpenter in cui i cacciatori di vampiri stanno per fare irruzione nel covo, nella vignetta il leader dice al gruppo: regola numero 6, non correte con le forbici in mano

     

    Testine per pompini

    Vampires, diciamocelo, non è il film ideale da guardare insieme a vostra madre. Al me adolescente nell’anno 2000 era venuta questa brutta idea di coinvolgere genitore 1 non solo perché quello era l’anno del nostro primo lettore DVD (e quindi ogni nuovo film in questo formato era percepito come una gioia dei sensi da mostrare a parenti e amici), ma anche perché alla stessa erano già piaciuti Fog, Essi vivono, e non dispiaciuti 1997: Fuga da New York, Fuga da Los Angeles, La cosa, Starman, Pericolo in agguato, praticamente l’intera filmografia di Carpenter. Ma bastano pochi minuti di Vampires e senti già di aver commesso un errore madornale perché è proprio in quei minuti lì che iniziano i vari “puttana qui, puttana lì”. Sempre negli stessi minuti passano su schermo vari squartamenti ben più truculenti della media carpenteriana e morsi di vampiri che portano a orgasmi.

    Il “bello” è che ciò che sentiamo nel doppiaggio non è che una versione in alcuni casi edulcorata. Infatti credo che guardandolo in italiano non si abbia una chiara idea di quanto siano volgari i membri della banda di cacciatori di vampiri di Jack Crowe.

    Scena da Vampires di Carpenter, James Woods prima di impalare una vampiressa dice: open wide, baby.

    Jack Crowe dice alla vampiressa di spalancare bene (la bocca) prima di arpionarla, con abbondanza di doppio senso. In italiano è stato cambiato in “fatti sotto!”, probabilmente “apri bene” sarebbe stata una dubbia espressione mentre in inglese è immediata: è quello che dicono dentisti e pervertiti.

    Certo, li vediamo ubriacarsi e fare baldoria con delle prostitute in un motel a spese del Vaticano, ma la loro bassezza intellettuale la saggiamo a pieno in alcuni momenti specifici, ad esempio quando i due protagonisti (James Woods e Daniel Baldwin) rapiscono una delle suddette prostitute (la Sheryl Lee di Twin Peaks) che era stata morsa dal maestro Valek e non ci risparmiano un’abbondanza di frasi in cui si fa riferimento a “questa” o “quella puttana” e a volte “troia”, per variare un po’. Fortunatamente in italiano sono stati calati un po’ i toni in accordo con la nostra percezione della volgarità (culturalmente molto diversa da quella degli statunitensi, inutile negarlo) e se l’eccesso di ceffoni che si becca “quella puttana” rimangono una scelta narrativa, per lo meno nella versione italiana quella puttana viene chiamata “quella puttana” un po’ meno spesso. Se avete trovato sgradevole il mio eccesso di “quella puttana”, allora apprezzerete di certo la riduzione di volgarità nel doppiaggio italiano di Vampires, che non è una forma di censura bensì è parte essenziale dell’adattamento culturale, tappa fondamentale prima del doppiaggio vero e proprio.

    Scena dal film Vampires di John Carpenter, Montoya (Daniel Baldwin) vicino ad una pila di scheletri carbonizzati

    In questo contesto troviamo una battuta del cacciatore di vampiri Montoya (Daniel Baldwin) che tira fuori un cranio carbonizzato e fumante dalla pila di vampiri esplosi al sole e dice al prete:

    Nothing like a little head, eh, Padre?

    In italiano…

    Le piace la testina arrosto, Padre?

    Tradotto alla lettera (mai tradurre alla lettera!) verrebbe fuori un “niente di meglio di una piccola testa”, ma è una frase che non ha alcun senso. Head oltre che per “testa” è usato in inglese anche per esprimere una volgarità, infatti la traduzione corretta di quella frase sarebbe “niente di meglio di un (bel) pompino”, che in italiano avrebbe ancora meno senso nel contesto. L’intenzione di Montoya era quella di sfottere il prete, già disgustato alla vista dei corpi carbonizzati, con un’allusione sessuale, la stessa strategia che userà il protagonista con il successivo prete. Questo fa capire già dai primissimi dialoghi che i nostri protagonisti al soldo del Vaticano sono così abituati alle peggiori atrocità da scherzarci su, ma ci dice qualcosa anche sulla loro intolleranza nei confronti dell’autorità, una caratteristica di tutti i “buoni” di Carpenter. Quante cose si capiscono da dei “semplici” dialoghi, eh?

    Con lo sfottò della “testina arrosto” si perde il sottotesto ma fa ridere lo stesso, se non altro. È dopotutto una testa carbonizzata quella che mette in mostra compiaciuto. Chissà che non si potesse giocare su un “lavoro di testa” o simili, e chissà se i tempi della battuta lo avrebbero consentito, anche quello è spesso decisivo nelle scelte di adattamento.

    Con questo ho sottolineato alcune delle cose che potreste perdervi guardando il film solo in italiano; in questo blog però non parlo solo di ciò che potreste non notare nella versione doppiata in italiano, ma anche di ciò che risulta migliore nel nostro doppiaggio, e questo ci porta al prossimo argomento.

     

    Adattare la memorabilità

     

    Daniel Baldwin che dice: e Montoya va, nel film Vampires di John Carpenter

    Vai, Montoya!
    E Montoya va!

    La voce di Montoya (Daniel Baldwin) è di Vittorio De Angelis che nella sua carriera sembra aver doppiato tutti e tre i fratelli Baldwin. È lui che ci regala la prima battuta che tutti i fan italiani del film riconoscono (“e Montoya va!”), che a vederla semplicemente scritta senza aver visto il film potrebbe dire poco ma, sarà per come è costruita (Montoya che parla di sé in terza persona), sarà per com’è recitata (Vittorio De Angelis non è nuovo alla commedia essendo stato anche la voce di Robin Hood un uomo in calzamaglia e il personaggio di Joey nella serie Friends), insomma sarà come sarà ma è quella battuta che fa subito amare il personaggio e stabilisce il tono del film.

    E se vi dicessi invece che una delle battute più memorabili di questo film è semplicemente data dalla parola “muori” ripetuta dieci volte in rapida successione? Anche da questo esempio è palese che trascrivere le battute del doppiaggio italiano di James Woods ha poco senso, perché non sono le battute in sé ad essere memorabili quanto piuttosto il modo in cui vengono recitate dal suo doppiatore, Francesco Pannofino che, con quella voce un po’ roca, si abbina benissimo al personaggio del nostro cacciatore di vampiri in jeans, t-shirt nera e giacchetta in pelle, tra lo spietato e lo sfottitore. È perfetta.

    Ehi, sta’ attento! Guardami! Muori! Muori! E Muori! Muori! Muori! Muori! Muori! Muori! Muori! Muori! Ah, era duro a morire questo figlio di puttana, mamma mia!”.

    Non mi sorprende che anche Cassidy, l’autore del blog La bara volante, abbia inserito proprio questa come citazione di chiusura del suo articolo Vampires (1998): Il buono, il Baldwin e il Vampiro, senza introdurla, né spiegarla. È bella così com’è. Il nostro inusuale e per niente politically correct eroe crociato Jack Crowe mena preti, mena le donne, mena gli amici, mena tutti! E mentre lo fa dice frasi memorabili. Risultano memorabili e divertenti anche in italiano perché chi si è occupato dei dialoghi (tale Pompilio Bisogni. Chi è? Mai sentito prima. Uniche sue tracce in serie TV doppiate dalla RAI. Da ringraziare.) si è assicurato che questi funzionassero. Una cosa possibile soltanto quando il committente non impone traduzioni alla lettera o tempi di lavorazione incompatibili con un lavoro che, in fin dei conti, è artistico.
    Lo guardi in italiano e i dialoghi semplicemente funzionano, non c’è miglior complimento per un adattamento.
    (La direzione è di Michele Gammino, quindi i complimenti vanno anche a lui.)

    Anche nei momenti in cui i dialoghi si discostano dall’originale, questi rimangono verosimili e sembrano tutte cose che potrebbe dire davvero quel personaggio in quella specifica situazione, alcune alterazioni sono funzionali a battute che devono far ridere anche in italiano. Il solo fatto che qualcuno si sia preoccupato di questo ci rincuora.

    Scena del film Vampires di John Carpenter dove James Woods chiede al prete se ha avuto un'erezione

    Padre, permette una domanda? Quando prima l’ho presa a calci… ha avuto un’erezione?
    Come ha detto?
    Eh? Le ha fatto piacere? Ci ha provato gusto? Avanti, me lo dica.

    Da notare l’espressione “give you wood” per dire “ti ha provocato un’erezione”, il legno in inglese è un suo sinonimo gergale.

    La battuta ritornerà in chiusura. Una chiusura degna dei migliori film con una coppia spaiata di protagonisti: gli eroi che si allontanano continuando a fare battute tra loro, e poi titoli di coda.

    Voglio farle una domanda, quando stamattina ha impalato quella vampira, ha avuto un’erezione?
    Non glielo dico.
    Mi scusi?
    È un segreto!
    Come?
    Era… molto più di un’erezione.
    Non esageri, padre. Non esageri.
    [musica di chiusura]

    “Linguaggio!”… non disse la versione italiana

    Chi andasse a controllare la versione originale (non negli inesistenti sottotitoli Cecchigori, ovvio) noterebbe sicuramente una battuta differente, in inglese il prete fa riferimento alla sua erezione (“wood”) definendone la durezza come “mogano”, “teak”, etc… (trasformati nella frase italiana “molto più di un’erezione”), la novella spigliatezza di padre Adam spiazza Jack Crowe il quale gli risponde: “language, Padre! Language!“. Entrambi stanno usando battute stabilite in precedenza (sia “language!” sia la domanda sull’erezione venivano da precedenti conflitti, ora evidentemente risolti), mentre in italiano viene inventato un nuovo scambio di battute. Ma non è il caso di ricorrere agli usuali cinque o sei punti esclamativi di sdegno, né lanciare anatemi sul doppiaggio in generale. Chi ha adattato il copione in italiano ha semplicemente scelto di far appello alla stessa battuta dell’erezione e di ignorarne un’altra (quella sull’invito alla moderazione del linguaggio) che in italiano infatti è assente.

    Quel “language!” emergeva a metà film, quando il giovane padre Adam, all’ennesimo “fuck you!” di Jack Crowe, gli chiede di moderare il linguaggio con un comico “language!”. Comico perché è un modo di esprimersi usato per sgridare i bambini che dicono parolacce o che rispondono male, sicuramente un rimprovero da catechismo (“Sunday school” per gli americani), ci mostra che il nuovo prete imposto al gruppo di cacciatori di vampiri non aveva ancora capito con chi aveva a che fare. Per farglielo capire meglio, Jack Crowe gli ripete quella sua esclamazione “linguaggio!” prima di pestarlo con la cornetta del telefono.

    Qui c’è la scena a confronto. Nei sottotitoli il dialogo in inglese, nelle didascalie i dialoghi doppiati:

    E qui il trascritto a confronto per vedere dove sparisce quel “language!” di rimprovero:

    doppiaggio italiano
    in originale
    traduzione diretta
    Padre: Dobbiamo eseguire gli ordini, signor Crowe.Padre: We have orders to follow.Padre: abbiamo degli ordini da seguire.
    Jack: Io me ne frego.Jack:  Fuck you, Padre.Jack:  Fanculo, Padre.
    Padre: Le ricordo, signor Crowe, che se lei non rispetta gli ordini dovrò chiamare il cardinale Alba.Padre: Language! If you’re not going to follow orders, I’ll call Cardinal Alba.Padre: Linguaggio! Se non rispetta gli ordini dovrò chiamare il cardinale Alba.
    [Il prete va al telefono e comincia a comporre un numero. Jack Crowe si avvicina con molta tranquillità, prende la cornetta dalle sue mani.]
    Jack: Permette? Ascolti.Jack:  Excuse me. Language.Jack: Permette? Linguaggio.
    [lo colpisce in faccia con la cornetta del telefono]
    Jack: Allora, stabiliamo una cosa… se non le va bene me lo dica.Jack: Let’s have a chat about language. See if this syntax worksJack: Facciamo un discorsino sul linguaggio. Vediamo se questa sintassi funziona…

    La battuta sul linguaggio, per quanto divertente a vederla scritta in una traduzione diretta, probabilmente è stata alterata perché non funzionava altrettanto bene nel doppiaggio, un doppiaggio moderno l’avrebbe invece tradotta alla lettera come ho fatto io, pur rischiando di farci ritrovare con dialoghi un po’ goffi.

    In lingua originale la riappacificazione finale tra i due protagonisti, Jack Crowe e padre Adam, passa dunque dal ripescare quell’espressione “linguaggio!”, mentre nel copione italiano viene sostituita da un altrettanto efficace “molto più di un’erezione. / Non esageri, padre, non esageri“, che è ugualmente divertente e rispecchia perfettamente il personaggio.

    L’intero copione italiano, se preso frase per frase, si discosta spesso da quello originale, ma è difficile trovare battute che non portino comunque un significato equivalente, la stessa essenza. I cambiamenti non sono tali da alterare la trama, la comprensione della trama, o i personaggi… per quanto, a volte, sembra allontanarsi più del necessario. È chiaramente un copione che si preoccupa prima di tutto di funzionare in italiano e, salvo per quel “non correre papà” in apertura del film e pochissime altre cose così irrilevanti che non sono stato neanche a prenderle in considerazione, il film non ha errori veramente degni di tale nome, solo scelte di adattamento, per lo più discrete.

    Valek, il vampiro di Vampires di John Carpenter

    Quel singolo errore!!!

    Lei ha mai visto un vampiro? Per prima cosa sono doppiati bene…

    Mi sento dunque di concludere con un complimento ad un doppiaggio il quale, nonostante alcune comprensibili differenze e poche sviste, rimane comunque più citabile (e Montoya va!), un pochino meno volgare (e tanto comunque ne resta!), dialogato in modo “naturale” e che, dopotutto, fa ridere là dove deve far ridere… se non è questo il segno di un buon doppiaggio, non so proprio cosa lo sia. Lode anche a Francesco Pannofino, penso di non averlo mai apprezzato tanto come l’ho apprezzato in questo film, e infatti vi lascio con il “suo” discorso sui vampiri, cioè il discorsetto che sembra fatto a posta per poterlo mettere nel trailer per le sale cinematografiche. Il film Blade, anche lui del 1998, ne aveva uno simile, ma Vampires è uscito nelle sale americane qualche mese prima, quindi reputo Jack Crowe di John Carpenter il primo vero caso di protagonista che stabilisce le regole del gioco smontando il mito dei vampiri romantici che in quegli anni era più vivo che mai (Dracula di Coppola è del ’92, Intervista col vampiro del ’94).

    Lei ha mai visto un vampiro? Per prima cosa non sono romantici, chiaro? Non assomigliano affatto a un branco di transessuali che se ne vanno in giro in abito da sera a tentare di rimorchiare tutti quelli che incontrano, con un falso accento europeo. Dimentichi quello che ha visto al cinema. Non diventano pipistrelli, le croci non servono a niente. L’aglio? Vuole provare con l’aglio? Si metta una treccia d’aglio intorno al collo e quei vigliacchi le arrivano alle spalle e glielo mettono allegramente a quel posto mentre intanto le succhiano il sangue senza cannuccia.
    Non dormono in bare di lusso foderate di seta. Vuole ammazzarne uno? Gli pianti un paletto di legno direttamente in mezzo al cuore.”

    Il trailer la fa più breve.

    https://youtu.be/19X6lHqPgpo


    Altre recensioni carpenteriane su questo blog:
  • 6 Underground: Mettere su famiglia, facendo esplodere il centro storico di Firenze

    Il testo che segue è la copia di una mia recensione sul film 6 Underground, pubblicata il 22 gennaio 2020 sul sito web di riferimento per il cinema di serie Z, Il Zinefilo di Lucius Etruscus. È lì che ogni tanto mi diverto a recensire “film brutti”, niente a che vedere con doppiaggi e adattamenti.


    Scena dal film 6 Underground di Michael Bay, suore italiane che mandano affanculo con il dito medio

    Per me la locandina del film

    Chi non ha seguito le cronache fiorentine di fine agosto 2018 potrebbe essersi perso qualche perla dell’uomo-cappellino Michael Bay che, a fronte delle polemiche cittadine (quelle a Firenze sono sempre di casa), cercò di tranquillizzare la popolazione in un’intervista per le TV locali:

    Aumenterà il turismo perché darà alla città un aspetto sexy.

    È ciò di cui Firenze aveva certamente bisogno. Bay in quell’intervista però viene colto subito da allucinazioni competitive quando dice che il film porta all’Italia quasi 90 milioni di dollari («It brings close to 90 million dollars to Italy»). Ma non era costato 150 milioni di cui 30 milioni sono andati a Ryan Reynolds? Gli altri attori come li pagavano, in noccioline? Diciamo che le sue sparate mi lasciano un attimo perplesso. Sono certo che se glielo chiedete, Bay vi dice che è stato anche azzurro di sci.

    Mentre qui a Firenze aspettiamo l’arrivo di un nuovo tipo di turisti, quelli che l’hanno vista in Six Underground (grafia alternativa del titolo originale) e sono stati attirati dal suo “aspetto sexy”, vi scrivo qualche parolina sul film in sé.

    poster di 6 underground, film di Michael Bay con Ryan Reynolds e Firenze in locandina

    La locandina con 30.000 lire e il mio grafico me la faceva meglio

    Una recensione prevenuta

    La mia recensione di 6 Underground è prevenuta non solo perché ne scrivo da fiorentino (già questo un difetto gravissimo), ma anche da persona che ha perso completamente i contatti con quel tarapia tapioco che si fa chiamare Michael Bay [ho controllato, è il suo vero nome], questo già dai tempi del secondo Transformers, quando capii che ormai faceva film tutti identici: stessi i ritmi, stessa la personalità, stesse le inquadrature sui culi, stessi i temi. Quali temi? Sempre lo stesso da 20 anni: la costruzione di una famiglia putativa, fatta di persone (o robot) a cui vuoi bene. Del resto, perché soffrire per la mancanza di una famiglia vera quando hai dei veri amici?

    Dagli USA, il paese dove il senso di famiglia è spesso un’utopia, nel 2020 Michael Bay ancora parla di famiglia…

    Avanguardia pura, meme dal film Il diavolo veste prada

    Se Bay non ci racconta niente di nuovo rispetto a molti altri suoi colleghi statunitensi, si può dire che riesce a nascondere bene questo tema banalissimo e abusatissimo dietro il costante suono di armi da fuoco che saltuariamente viene interrotto dal suono di esplosioni e dallo stridio di gomme sull’asfalto, quindi magari non ci avevate fatto caso. E non c’è niente di male a farsi piacere ammazzamenti continui e un bel messaggio sulla famiglia. Nella mia vita da spettatore mi sono accontentato di molto meno.

    Ci potremmo chiedere come abbia fatto Bay a passare da quel capolavoro di The Rock (1996) ad una marea di film virtualmente identici e dalla medesima personalità ma, almeno, chi ne apprezza lo stile e i ritmi non avrà certamente niente da ridire su questo Six Underground. È sempre lui, è sempre riconoscibile, non cambia di una virgola, non cambia mai stile. È praticamente il Luciano Ligabue del cinema.

    La trama

    Scena da Brian di Nazareth, soldato romano che cerca di non ridere al sentir nominare Marco Pisellonio

    Ha una trama, cosa credi…

    Vi dirò, ho avuto serie difficoltà a seguire la trama di “6 sottoterra”. Proverò a dirvi ciò che ho capito.

    Deadpool-senza-maschera (oh, non è colpa mia se i personaggi di Ryan Reynolds so’ tutti uguali) è un insospettabile miliardario che finge di essere morto pur continuando ad incassare soldi dai suoi migliaia di brevetti da genio. (E Tony Stark muuuto!)
    Invece di godersi i soldi e la vita agiata, ha assemblato una sorta di A-Team che fa missioni sparacchiose in tutto il mondo ed è formata da ex-specialisti in qualcosa: c’è un ladro, c’è un killer, c’è l’atleta di parkour etc… il finale della barzelletta inventatelo voi. Per entrare a far parte della squadra sparacchiosa è necessario simulare la propria morte, proprio come ha fatto il fondatore. È così che si evadono le tasse da veri professionisti e si fanno i miliardi con le royalties del cubo di Rubik.

    Proprio come l’A-Team, anche “i 6 sotterrati” fanno un po’ le missioni che cazzo gli paiono a loro. La prima missione è a Firenze (per me dunque era un film da vedere d’ufficio) dove il film si apre con una fuga sparacchiosa in auto tra le strade del centro, i nostri sono inseguiti da una quarantina di SUV di mafiosi (?) i quali, come tutti i mafiosi che si rispettino, sparano impunemente con mitragliette in pieno centro storico. Il motivo? Un qualche sgarro al boss (sempre con sede a Firenze). Boh. Se dicevano alla loggia massonica ci avrei creduto di più.

    “Parkour! Parkour!” (cit.)

    Ma tanto non avrete tempo di pensare, l’inseguimento prosegue incessante come la mia calvizie, i mafiosi sparano facendo solo danni estetici, l’abilità del pilota infatti consente di evitare la morte a costo di rovesciare qualche Vespa e far cascare per terra delle suore che poi ti mandano affanculo con il dito medio (e il Vaticano muuuto!), intanto il team in fuga deve intercettare/recuperare il loro specialista di parkour che, per raggiungerli, discende dalla cima della cupola del Duomo, correndo dall’esterno (furbamente la scena viene tagliata prima che la pendenza diventi di quasi 180%). Poco dopo si ritroverà a saltare tra i tetti di Firenze. Dev’essere proprio bravo col parkour. Che ci faceva in cima alla Cupola? Boh. Non c’è tempo per pensare! L’auto dei nostri protagonisti è ancora inseguita da dozzine di SUV mafiosi che sparano in pieno centro, in pieno giorno, c’è solo tempo di fermarsi ad osservare una bella ragazza in Vespa, con vestito rosso da sera e che si muove a rallenty per titillare la fantasia americana sulle donne italiane. Del resto è pur sempre Michael Bay, se una scena così non ce la mette lo rimandano davvero a fare il gelataro a New York.

    Comunque a Firenze si può anche viaggiare tra le anguste strade del centro per 15 minuti filati, a tavoletta, a bordo di un bolide da corsa senza mai incontrare il numero 23 che t’ha bloccato un intero incrocio per via di un’auto parcheggiata in doppia fila che gli impedisce la svolta. Forse era domenica.

    L’inseguimento è letteralmente fantastico: svolti un angolo e ti ritrovi a Siena, svolti un altro angolo e sei di nuovo a Firenze. È veramente una città magica. Potrei essere pignolo e dire che il film non rispetta la geografia della città (Inferno di Ron Howard lo faceva!), infatti ogni inquadratura di mezzo secondo mostra l’auto dei nostri protagonisti in un angolo diverso dalla città, ma se non siete del posto non ci farete caso.
    Altre magie di questa città: entri a tutta velocità nel portone di palazzo Medici Riccardi e ti ritrovi nel Salone dei Cinquecento, al secondo piano di Palazzo Vecchio. Se ci siete stati potreste ricordare le scalinate non proprio a prova di automobile. Però era bello farci sgommare una “super car”, chi se ne frega. Le vetrate non vengono pulite dal 1800 perché c’è il vincolo, ma sul pavimento in cotto del salone invece si può sgommare… aò, è proprio vero che c’è un prezzo per tutto.

    BOOOOOOOOOOOOOOM!

    Michael Bay stesso, in un’intervista su Vanity Fair (che qui traduco), si è dichiarato sorpreso che il Comune gli permettesse simili follie:

    «In questo film compare tanta di quella roba inestimabile, tipo nella scena delle auto che saltano in aria vicino ad un obelisco. Perché mi abbiano permesso di avere macchine che saltano in aria vicino ad un obelisco di 800 anni fa, proprio non lo so. Ma non abbiamo danneggiato niente.»

    Insomma a 15 minuti di film è già chiaro chi ha pagato la linea 2 del tram. La città di Firenze ve ne è grata. Inferno di Ron Howard aveva già contribuito a finire in tempi record la linea 1 della Tramvia, la cui costruzione, se non lo sapete, è stata (ed è ancora) uno degli argomenti principali e più ricorrenti nei salotti fiorentini.

    Per farla breve, muore il pilota, scappano da Firenze, Deadpool-senza-maschera ingaggia un nuovo componente della squadra, nuove missioni a caso li attendono in altri bei posti del mondo, Hong Kong, Abu Dhabi… Boh, in tutti questi posti si spara comunque, il che è un po’ come viaggiare all’estero e ordinare sempre gli spaghetti.
    Lo sparare è così abbonante e così continuo durante tutto il film da diventare un costante rumore di fondo, come il suono delle rotaie su un treno, che ha portato ad addormentarmi per almeno 20 minuti. Al risveglio ancora sparavano, non credo di essermi perso più di tanto.

    I pochi momenti di dialoghi purtroppo fanno rimpiangere lo spara-spara, privi di alcuno interesse ma, proprio perché superficiali e banali, risultano essere le scene più difficili da seguire. Per questo ho trovato difficoltà a raccontarvi una trama e, sebbene non vi sappia dire quale fosse la scusa che portava i nostri sparacchiosi 6 in varie parti del mondo a sparare alla gente, l’arco narrativo del protagonista in compenso lo si può capire anche a occhi chiusi (stavo solo riposando le palpebre!): da un’iniziale non volersi affezionare ai suoi compagni di squadra ai quali aveva persino proibito di conoscersi per nome e imposto la regola del Menga (cioè chi rimane indietro s’attacca), alla fine del film arriva ad accettare l’idea che questi suoi sei macellai sono diventati una famiglia dove tutti si guardano le spalle a vicenda e nessuno viene più lasciato indietro.
    Nessuno ha mai detto che Bay parli dei massimi sistemi.

    L’A-Team patinato riesce a far fuori un generico dittatore arabo e al suo posto sale il fratello che, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere altrettanto terribile, ma non ce ne frega niente e la missione è compiuta: i membri della squadra hanno imparato a volersi bene, non è questo che conta in fin dei conti?

    Scena della camminata di Michael Bay da 6 Underground

    Scena presa da qualsiasi film di Michael Bay

     

    Aspettando 7 Underground

    Il finale si apre tranquillamente all’idea di un seguito e, sicuramente, la squadra dei 6 sottoterra (diventati poi 7 dopo mezz’ora di film), ora unita come una famiglia, potrebbe trovare nuovi posti bellissimi dove sparare alla gente. Magari con l’ausilio di una sceneggiatura potrebbero anche conquistare una loro nicchia di mercato. Non essendoci un botteghino su Netflix, è anche difficile valutare se sia stato un film di successo o meno.

    Come dice Cassidy del blog La Bara Volante il film è indubbiamente autoriale, quindi mi risulta difficile valutarlo secondo i semplici parametri del “mi è piaciuto” o “non mi è piaciuto”, valutazione che comunque lascerebbe il tempo che trova. L’azione c’era? Costantemente. Era memorabile? Non particolarmente. Mi ha fatto dormire? Beatamente. Lo rivedrei? Noncipensopropriamente. Merita un seguito? Sicuramente.

    Spero vivamente in un seguito (7 Underground?), nuovamente ambientato per soli 10 minuti a Firenze, perché la linea 3 della Tramvia dovrebbe arrivare proprio sotto casa mia riducendo notevolmente i tempi di spostamento al lavoro, quindi prima arriva meglio è. Viva Michael Bay! Torna presto!

    Se non lo avete ancora visto e non avete intenzione di farlo, il trailer vi può bastare. Tutte le cose memorabili del film sono lì.

     


    Altri articoli di Evit pubblicati su altri siti

  • Doctor Sleep: adattare alla perfezione, spiegato dal dialoghista Valerio Piccolo

    Tre locandine italiane del film Doctor Sleep del 2019

    Cosa non facile proseguire sulle tracce di Shining di Stanley Kubrick e ancora meno facile proseguire sulle tracce della sua versione italiana diretta dalla squadra storica scelta da Kubrick stesso: Mario Maldesi (alla direzione), Riccardo Aragno (alla traduzione) e, nel caso di Shining, Simona Izzo ai dialoghi (lei inventò il termine “luccicanza”). Per fortuna Doctor Sleep, seguito di Shining e basato sull’omonimo romanzo di Stephen King del 2013, è stato dato in mano a persone competenti che non solo hanno portato dialoghi in italiano che oserei definire perfetti, ma che si ricollegano anche senza soluzione di continuità a quello Shining adattato nel 1980, quasi quarant’anni fa. Oggi giorno una caratteristica non affatto scontata.

    Doctor Sleep insomma è un altro splendido adattamento di Valerio Piccolo, sempre attentissimo ai riferimenti storici, mai una parola fuori posto, dialoghi naturali e, soprattutto, nessun inglesismo superfluo, insomma un adattamento invisibile, come dovrebbe essere sempre. È proprio questo che caratterizza ciò che ho definito “dialoghi perfetti”. La saggista e critico cinematografico Daniela Catelli (Comingsoon, Ciak), anche lei intransigente per quanto riguarda adattamenti dall’italiano stentato o forzato, concorda in un suo tweet con la mia impressione definendolo: “uno dei pochissimi doppiaggi che non mi hanno dato fastidio“.

    Dal libro "Tradurre: una prospettiva interculturale" di Pierangela Diadori.

    Definizione di traduzione. (Foto di © Fabrizio Scuderi dalla pagina Facebook “Gualtiero Cannarsi, cambia lavoro”)

    Da anni, pur essendo il suo un lavoro che lo tiene nell’ombra, Valerio Piccolo lavora sodo e lavora bene, firmando i dialoghi di tanti film che hanno il pregio di essere così invisibili (nel suo campo è un complimento) da non finire mai tra le lamentele di questo blog. Nel 2015 lo avevo già intervistato per i dialoghi di Mad Max: Fury Road (ricordate la “blindocisterna”? Roba sua e approvata dal regista) e in questi anni tante altre sono state le occasioni in cui ho apprezzato silenziosamente il suo lavoro (Blade Runner 2049, The Hateful Eight, Pacific Rim – La rivolta… sono solo alcuni, qui una lista completa sul sito dell’Accademia Nazionale del Cinema), arrivando ogni volta a fine visione senza una singola obiezione sul lavoro di adattamento per poi, sui titoli di coda, poter esclamare: “ah-ha! È di Piccolo, lo sapevo!“. [NdA: non mi informo mai su chi adatta e doppia un film prima di entrare in sala, così da evitare bias personali, lo scopro soltanto arrivato ai titoli di coda]

    Avendo la possibilità di intervistare Valerio, non mi sono lasciato sfuggire questa occasione, perché dopo la visione di Doctor Sleep le domande che frullano per la testa sono tante, eccovi dunque la seconda conversa di Doppiaggi italioti a Valerio Piccolo. Una conversazione, anzi. La prima la trovate qui.

    L’intervista al dialoghista Valerio Piccolo

    Evit: Anche se ci scambiamo qualche “like” sui social e ogni morte di Papa ci scriviamo in privato, sono ben quattro anni dall’ultima volta in cui abbiamo fatto un’intervista, cosa è successo nella tua vita lavorativa nel frattempo?

    Valerio: Diciamo che non è cambiato molto, più che altro gli impegni sono aumentati e con loro anche le responsabilità. Ho avuto il privilegio di lavorare a grandissimi film, di creare parole per opere di registi del calibro di Spielberg, Scott, Polanski, Tarantino, Villeneuve eccetera, e di godermi film di eccelsa qualità. Per me questo lavoro, dopo 20 anni, non è ancora disgiunto dal piacere e dalla mia passione di cinefilo per cui, ogni volta che mi chiamano per assegnarmi un bel prodotto, il primo a essere felice è il Valerio amante del cinema.

    E: Scopro adesso che non solo sei il dialoghista per il film Doctor Sleep ma hai curato anche i dialoghi anche della versione estesa di Shining che è uscita di recente in home video anche in Italia con un nuovo doppiaggio nei 24 minuti che originariamente furono tagliati. Per Doctor Sleep e per la versione estesa di Shining sono state coinvolte società di doppiaggio diverse e direttori di doppiaggio diversi, l’unica costante sei tu. Come sei diventato essenzialmente il curatore dell’opera di Maldesi?

    V: Non c’è una “strategia” comune dietro tutto questo, come hai detto tu sono lavori arrivati da due committenti diversi. Adattare Doctor Sleep è stata (credo) una conseguenza abbastanza naturale del mio adattamento di “The Dark Tower”, altra opera cinematografica tratta da un libro di King su cui avevo messo le mani nel 2017. Le scene tagliate-e-poi-rimesse di “The Shining” sono state curate, per la direzione del doppiaggio, da Rodolfo Bianchi, con cui collaboro pressoché stabilmente da diversi anni, e quindi penso che alla base della società di doppiaggio (e della distribuzione) ci sia stata la volontà di affidarsi a questa “coppia artistica” già ben collaudata.

    Warner Bros presenta, titoli di inizio del film Doctor Sleep

    I titoli di inizio tradotti in italiano (foto scattata al cinema)

    E: Una gran fortuna per lo spettatore. Ci puoi raccontare i retroscena della lavorazione a Doctor Sleep (e anche alla versione estesa di Shining)? Che genere di libertà vi vengono concesse? Chi supervisiona il lavoro? Chi ha l’ultima parola sulle scelte di adattamento?

    V: L’ultima parola – di regola – spetta sempre al Capo Edizioni della società di distribuzione (la Warner Bros. Italia, nel caso di “Doctor Sleep”), che è anche colui/colei che supervisiona il lavoro, partendo dai dialoghi fino ad arrivare al doppiaggio e al mix del film. Il concetto di libertà è un concetto molto delicato e pieno di sfumature. Io, in quanto traduttore, sono dell’idea che, quando si lavora a un adattamento, è bene pensare in assoluto di non concedersi troppe libertà e di rimanere invece “incollati” il più possibile al testo originale. Ma è un discorso molto complesso, questo. Il caso di “Doctor Sleep” è uno di quei casi in cui bisogna affrontare la questione di una traduzione italiana del libro già esistente, e di eventuali decisioni legate al diritto d’autore, laddove – come appunto nel caso di “Doctor Sleep” – si decida di tradurre anche i “nomignoli” dei personaggi. Quando il doppiaggio di un film viene fatto seguendo tutti i passaggi, c’è sempre a monte una linea editoriale che viene discussa e decisa in primis tra capo edizioni e adattatore, e poi di conseguenza anche con il direttore di doppiaggio. Impostata quella linea, è ovvio che poi il dialoghista ha piena libertà di “ricreare” l’opera come meglio crede.

    Sottotitoli della versione cinematografica italiana di Doctor Sleep

    Sottotitoli descrittivi (foto scattata al cinema)

    E: Sicuramente potrà essere un po’ diverso da film a film ma è possibile dire che, generalmente, se in un adattamento italiano troviamo parole o nomignoli lasciati in inglese solitamente è per scelta del capo edizioni che segue una linea editoriale dettata dalla società di distribuzione?

    V: Sì, è possibile. Ed è anche giusto – credo – che un capo edizioni detti la linea editoriale. Poi, ovviamente, se ne discute insieme. In questo lavoro, a mio modo di vedere, il confronto è una grande chiave. È un lavoro di squadra, e le sfumature soggettive sono milioni. Quindi è giusto che se ne discuta, ed è giusto che ci siano anche più voci a cantare, ovviamente sempre restando nella linea editoriale dettata dall’alto.

    Scritte alla lavagna sottotitolate in italiano nella versione cinematografica di Doctor Sleep

    Foto dalla proiezione cinematografica

    E: La cosa più bella dei tuoi dialoghi è che sembrano sempre nascere direttamente in italiano, senza forzature, quindi quando parli di rimanere “incollati” al testo originale intendi dire, suppongo, che non vai ad inventarti niente di sana pianta, ma neanche si può dire che traduci mai “alla lettera”. È una distinzione che mi preme sempre di sottolineare visto che, come conseguenza di un accresciuto interesse e attenzione da parte del grande pubblico verso l’argomento traduzioni, serpeggia l’idea, un po’ ignorante, che fedele voglia dire alla lettera.
    Quasi anticipando questo trend recente, il traduttore italiano del romanzo Doctor Sleep, in una conversazione del 25 febbraio 2014 avvenuta in diretta streaming sul canale YouTube Libro martedì e intitolata Giovanni Arduino e Doctor Sleep, ad esempio, diceva che “la traduzione letterale non è una traduzione letteraria”:

    La traduzione letterale non è una traduzione letteraria. Quindi ogni traduzione letteraria è un’interpretazione, giocoforza. Quindi, voi non leggete Stephen King, voi leggete Stephen King tradotto da Giovanni Arduino, che questo sia chiaro. Ma questo è vero per qualsiasi cosa, soprattutto poi quando c’è un autore con una voce particolarmente forte, io seguo la sua voce ma naturalmente la filtro attraverso la mia esperienza, la mia sensibilità e tutto il resto. […] Si tratta semplicemente di capire dove King ha preso alcuni termini — perché non è che li abbia inventati dal nulla, niente si inventa dal nulla — e cercare un riferimento simile italiano e reinventarlo, naturalmente basandosi sulle origini della scelta di King. […] Non è un lavoro facile, è un lavoro lungo, però si fa. Le famose note piè di pagina sono il traduttore che si arrende, dal mio punto di vista in un romanzo di narrativa le note a piè di pagina sono praticamente inammissibili.

    Quella del reinventare basandosi sulle origini della scelta dell’autore mi ricorda un po’ il caso della tua blindocisterna di Fury Road. Ti ritrovi nelle parole di Arduino?

    V: Sì, molto. È esattamente questo il lavoro di un traduttore. Ed è quello che, secondo me, si nota di più negli adattamenti fatti da chi ha anche tradotto il testo. Cosa che, almeno per i prodotti di lingua inglese (ma anche spagnolo e francese, direi, considerando quello che arriva sul nostro mercato), dovrebbe essere di regola. Ma purtroppo non è così.

    E: Potremmo dire che questa regola di evitare di tradurre alla lettera si applichi ancora di più al cinema dove non ci possono essere note a piè di pagina?

    V: Sicuramente. Le note a margine, secondo me, in alcuni casi le potremmo traslare in intonazioni/interpretazioni dei doppiatori. Ovvero: aggiungere una sfumatura dove la lingua può rivelarsi leggermente ambigua o non esattamente “dritta”. Ma, ovviamente, i punti critici sarebbe meglio risolverli sempre a monte, ovvero in fase di adattamento.

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    E: Della lavorazione alla versione estesa di Shining cosa mi dici?

    V: Posso dire solo che è stato un grande onore, esclusivamente un grande onore, mettere le mani su qualcosa del genere. Non lo considero nemmeno un vero lavoro, ma una specie di regalo che mi è stato fatto. 

    E: Originariamente quella ventina di minuti era stata tradotta, adattata e doppiata ma non è mai arrivata al cinema, e nessuno quindi l’ha mai potuta sentire, ora è stata ridoppiata in occasione del suo recente restauro. Tu che hai lavorato alla nuova versione di quei 24 minuti, sai qualcosa di più di quei pezzi doppiati nel 1980 e, al momento, dati per dispersi? La Warner per l’occasione ha mai tirato fuori del materiale inedito legato al doppiaggio dell’epoca?

    V: No, io ho lavorato solo su materiale attualmente esistente e disponibile, ovvero le due versioni (originale e doppiata), in modo da potermi uniformare al meglio al doppiaggio dell’epoca.

    E: Ho notato che sei sempre accreditato come dialoghista mentre altri tuoi colleghi ricevono il nome di adattatore. C’è una differenza tra la definizione “dialoghi di” e “adattamento di” che vediamo nei titoli di coda dei film doppiati in italiano?

    V: Che io sappia, no. La definizione del nostro ruolo (e del nostro mestiere) è intercambiabile: dialoghista o adattatore. Adattatore è senz’altro quella più formale. Ufficiale, diciamo.

    E: So che oltre a musicista e dialoghista adesso sei anche docente. Vuoi chiudere l’intervista facendo un po’ di sana pubblicità al corso di adattamento dialoghi in cui ti hanno chiesto di insegnare, il Master Lab di adattamento dialoghi? Ogni quanto si tiene? Dove si tiene? Chi lo organizza? Chi sono i tuoi studenti tipici? Perché un interessato a questo mestiere dovrebbe iscriversi al corso (oltre all’ovvio fatto che ne sei tu il docente)? Vendimi il tuo corso.

    V:  Vendertelo è molto facile, perché il mio laboratorio si tiene in una città stupenda (Bologna) e in una sede ancora più bella, un palazzo stupendo in pieno centro dove questa struttura pazzesca e super-professionale (l’Accademia del Cinema) tiene corsi di qualsiasi tipo legati al cinema (da trucco a hairstyling, a regia/montaggio e perfino sound engineering) tenuti da tutti docenti di massimo livello (fioccano David di Donatello e premi Oscar). Il mio lab è un percorso in otto incontri, diretto e molto pratico, per impostare la figura dell’adattatore e renderlo pronto quanto meno a misurarsi con le sue stesse capacità: alla fine del lab, cioè, credo di poter sempre capire (e far capire agli allievi) se una persona può o non può cimentarsi in questo mestiere che – ci tengo a sottolinearlo – non è da tutti. Questo è un mestiere dove essere ottimi traduttori è fondamentale, ma a volte può non bastare, perché tecnica, ritmo e musicalità (queste due ultime, a mio avviso, sono requisiti imprescindibili per un adattatore) sono doti che non sempre si riescono a possedere del tutto. Il mio lab mette quasi subito alla prova l’allievo, e cerca di rispondere presto alla domanda fondamentale di chi si iscrive: è il lavoro che fa per me? Classi piccole (massimo 16 persone) e quindi interazione reale. Basta? 🙂

    E: Direi di sì, e sottolineiamo che non becco l’ombra di un quattrino per averne parlato. Se però dovessi consigliare di approfondire la conoscenza di questo mestiere da qualcuno, quello di Valerio Piccolo è certamente tra i primi nomi che mi vengono in mente.
    Speriamo di rivederlo sempre più spesso, specialmente su opere “delicate” come questa.

     

    Titoli di coda di Doctor Sleep

    Titoli di coda di Doctor Sleep