Nel 1968, quando un film di Roman Polanski in cui una ragazza viene drogata e stuprata non destava ancora sospetti, fu di grande impatto Rosemary’s Baby, arrivato in Italia direttamente con il suo titolo originale e un sottotitolo di cui presto si sono dimenticati tutti (“Nastro rosso a New York“). Come capita per molti film di culto, la sua trama è nota anche a chi non l’ha mai visto: la giovane Rosemary (Mia Farrow) aspetta un figlio che potrebbe essere il figlio de lu dimonio (!!!) e i suoi vicini impiccioni sono parte di una congrega di streghe e stregoni… oppure è tutto nella testa di Rosemary, complottista ante-litteram? Se non lo avete mai visto vi basteranno 2 ore e 16 minuti per scoprirlo.
I bambini de lu Diavolo, certo, fanno paura, ma che dire dei loro nipoti? E della nuora? E dell’attrice Mia Farrow stessa??? Dopo il successo del film Rosemary’s Baby (e per i successivi 16 anni) la distribuzione italiana ha campato sulla notorietà del titolo e lo ha usato come base per inventarsi i più spudorati seguiti apocrifi. Sì, questo è un altro episodio di titoli italioti, ma prima una parolina sull’adattamento di Rosemary’s Baby.
L’adattamento italiano di Rosemary’s Baby
Facciamo le corna
Il film di Polanski è stato adattato per la C.D.C. da Roberto De Leonardis, che nello stesso anno curò anche il ridoppiaggio di Bambi e da lì a poco molti altri film di animazione Disney. Come in tutti i lavori di De Leonardis, anche qui è possibile apprezzare dialoghi naturali e generalmente ben fatti. Una cosa non facile in un film dove si parla molto e velocemente, quasi una pièce teatrale. Ci sono però alcuni punti degni di nota. Primo tra tutti, l’alterazione di un paio di nomi.
Nomi alterati
All’inizio del film Rosemary è in lavanderia e incontra una vicina che scambia per un’attrice di nome Vittoria West; nei dialoghi in lingua originale in realtà si parla di una Victoria Vetri, che poi è proprio il nome dell’attrice che interpreta il personaggio della vicina. Nel film in lingua originale questa si presenta poi come Terry Gionoffrio, ma il nome diventa Terry Gulliver nella versione italiana. Quando successivamente verrà chiesto a Rosemary come si chiamasse la donna, Rosemary dirà che aveva un cognome italiano (“an Italian name”), mentre nel doppiaggio dice più semplicemente “il cognome non lo ricordo”.
È chiaro a questo punto che il cognome italiano sia stato rimosso intenzionalmente dal copione della versione doppiata, al punto da cambiare anche il nome dell’attrice a cui dovrebbe somigliare (non più un’attrice con un cognome italiano). Non è invece chiaro il motivo di questo tabù sull’uso dei cognomi italiani, come se nel 1968 non ci fossero italo-americani a New York! Ma poi se bisogna inventare un cognome… perché proprio ‘Gulliver’? È così scemo.
Doppiaggi che odiano le donne
Sempre rimanendo su Guy, quando egli si arrabbia con Rosemary trova occasione di sfogarsi con un tipico errore di traduzione, quello di “bitch” tradotto come “puttana” invece che “stronza” o altri sinonimi:
“Questo ti dicevano quelle PUTTANE delle tue amiche?”
La vera frase pronunciata ovviamente non era così “spinta”. Guy, per quanto visibilmente alterato, non sembra il tipo da scadere così in basso. Usando quella parola con la “p” esce molto dal personaggio.
– They’re my friends, don’t call them bitches. – Non chiamarle puttane, sono mie amiche.
– They’re a bunch of not-very-bright bitches. – Ma sono un branco di luride puttane, idiote!
Improvvisamente, da thriller dal retrogusto hitchcockiano sembra di ritrovarsi in La signora ammazzatutti di John Waters. Forse in quel pendente regalato a Rosemary non c’era “radice di Tannis” ma, piuttosto, un succhione di salice! (Una battuta dedicata a chi ha visto entrambi i film)
“SUCCHIONE DI SALICE!”
Come capita sempre con questi casi di mal interpretazione della parola “bitch”, l’uso di “puttana” involgarisce eccessivamente il personaggio che qui arriva addirittura a dire anche “luride puttane”, un’espressione di misoginia totalmente inesistente nei dialoghi originali (quel “not-very-bright bitches” era letteralmente “stronze non molto intelligenti”). Ancora più stonato è il sentirlo uscire dalla bocca di Rosemary stessa quando dice “non chiamarle puttane”, da brava ragazza cattolica del 1968, Rosemary non ripeterebbe mai e poi mai quella parola.
Per questo chiamare le donne “puttane” con così tanta leggerezza, anche a costo di tradire le intenzioni originali e la psicologia dei personaggi, diamo anche a Rosemary’s Baby un caloroso benvenuto nella mia collezione di doppiaggi che odiano le donne! Non c’è posto migliore.
Gli occhi de lu dimonio
I dialoghi finali della versione italiana (attenti che qui arrivano spoiler!) sembrano non essere sufficientemente chiari riguardo la stranezza che caratterizza il figlio di Rosemary, che poi è ciò che la fa trasalire alla vista del neonato. Sono proprio gli occhi del bambino infatti a terrorizzare Rosemary che chiede ai membri della setta “che cosa gli avete fatto?” per poi specificare in inglese “cosa avete fatto ai suoi occhi” (questo dettaglio omesso in italiano).
Le frasi he seguono continuano a non essere abbastanza chiare come invece lo sono in inglese:
– Ha gli occhi di suo padre, Rosemary. – Che cosa stai dicendo? Non è vero!
In inglese lei risponde “Che cosa stai dicendo? Gli occhi di Guy sono normali!” e la frase successiva “what have you done to him, you maniacs!” (= cosa gli avete fatto?) diventa “che cosa volete fargli, brutti mostri!”, come se si trattasse di piani futuri della setta e non di una caratteristica peculiare che il bambino già possiede (appunto, gli occhi da Satanasso).
Il capostregone a questo punto spiega la questione degli occhi: “Satan is his father, not Guy.” (È Satana suo padre, non Guy), che nel doppiaggio italiano diventa: “Tuo figlio appartiene a Satana.“.
In breve, in inglese Rosemary crede che qualcosa sia stato fatto agli occhi del suo bambino, le viene rivelato invece che al bambino non è stato fatto niente, quelli sono semplicemente gli occhi del padre, Satana. E per farceli immaginare senza mostrarci mai il pargolo, Polanski inserisce un breve momento in cui alla scena si va a sovrapporre in trasparenza il volto di Satana con gli occhi da serpente.
Occhio malocchio…
Nella versione italiana non è altrettanto chiaro che l’aberrazione sia limitata agli occhi, questi vengono nominati soltanto nella frase “ha gli occhi di suo padre” (che nel contesto sembra più di frase circostanza che altro), si punta invece su un generico “cosa gli avete fatto?” seguito da “cosa volete fargli?”, e la sovrapposizione del volto di Satana a questo punto rischia più facilmente di essere interpretata come rappresentazione delle mire future di Satana sul bambino (“tuo figlio appartiene a Satana”), piuttosto che esserne letteralmente il padre come dimostrato dagli occhi di serpente.
Non che tutto questo renda il finale meno di impatto, né credo che questa ridotta chiarezza fosse intenzionale, ma degna di nota sì. In inglese, semplicemente, questi dialoghi risultano più immediati.
E sapete una cosa? Esiste un doppiaggio alternativo di questa scena che riporta una traduzione più fedele di quelle battute. Ma non si tratta di un ridoppiaggio del film. La fonte è “Terrore in sala” (Terror in the Aisles, 1984), uscito nelle sale italiane nel luglio 1987, un documentario che mostra il meglio del cinema horror e dove le scene di dozzine di film erano doppiate ex novo, probabilmente per non sbattersi eccessivamente all’inseguimento di diritti sulle tracce audio italiane. Grazie all’amico blogger Lucius Etruscus posso farvi vedere questa clip con dialoghi fedeli al copione originale, un rarissimo caso di “e se l’avessero adattato così invece?”…
Adesso si capisce che il problema è con gli occhi. Semplice, no?
Ultime osservazioni
Come ultime osservazioni vi lascio con un “softner” che diventa “il candeggiante” invece di “ammorbidente” (forse l’ammorbidente non era ancora così diffuso nel 1968?), la città di Baltimora che viene pronunciata all’inglese (bàltimor) senza un valido motivo tranne forse che veniva nominata in una lista di altre città, tutte dal nome molto… americano. Inoltre Rosemary parla di un “primo giorno del mio periodo” (in inglese “my period”), ovvero le mestruazioni, che per pudore sono più comunemente dette “il ciclo” o “le mie cose”. La linguista Licia Corbolante inserisce quel period tradotto come periodo tra i “falsi amici”.
Nel film il significato si capisce anche dal contesto ma se “periodo” era effettivamente in uso nel 1968, sembra essere invecchiata molto male come espressione. A naso parrebbe una traduzione troppo diretta, fatta da qualcuno a cui il ciclo non viene e non ne parla. Lascio però ampio beneficio del dubbio sulla terminologia usata 52 anni fa.
Aggiunta: sulla questione viene in mio soccorso Cinzia Andrei (assistente al doppiaggio e lettrice amica del blog già intervistata qui) scrivendo che “periodo non era comune neanche del ’68, ma non stona affatto in una conversazione di una donna giovane con anziane estranee. Tieni conto che, più che chiamare la cosa col proprio nome, era epoca in cui si ammiccava, si alludeva, si usavano parole senza senso e senza nesso. [La variante “le mie cose” ad esempio] era molto in uso, ma implicava una lieve confidenza che in quel caso non c’era”. Grazie Cinzia per aver portato luce su un argomento di linguistica che non lascia facilmente una traccia scritta.
Per concludere, in questo film c’è anche il classico di un “Douglas” pronunciato “Doglas”. Dico ‘classico’ perché fino agli anni ’80 in Italia questo nome diventava Dùglas o Dòglas a seconda dei casi. Mai capito che problema avessero con “Dàglas”. A educare l’orecchio italiano ci sono voluti “solo” 50 anni!
Tra le poche linee e tanto fruscio anaogico potreste intravedere i rari titoli di inizio cinematografici con il sottotitolo NASTRO ROSSO A NEW YORK (dalla collezione privata di Roberto Greco)
I figli apocrifi di Rosemary
Il film Rosemary’s Baby è entrato da subito nella cultura popolare italiana con il suo titolo originale anche per coloro che non avevano grande familiarità con l’inglese, il titolo dopotutto è facilmente intuibile: baby = bambino/figlio/infante e Rosemary è un nome di persona. A “il figlio di Rosemary” si arriva dunque anche senza conoscere davvero l’inglese, né le regole del genitivo sassone. Lo capiva anche chi all’epoca studiava solo francese.
Potrebbe forse essere uno dei primi casi di titoli in inglese che hanno avviato gli italiani a percepire come “più spaventosi” quegli horror dai titoli in inglese? Alien (1979) Fog (1980) e Nightmare (1985) — che non è più “un incubo in via degli Olmi” ma semplicemente Nightmare con sottotitolo dal profondo della notte — questi solo per citarne alcuni comparsi nei due decenni successivi a Rosemary’s Baby. Quante volte abbiamo detto o pensato “il titolo in inglese suona meglio” senza poterne spiegare davvero il perché?
Gli italiani spesso arrivano ad avere a che fare con l’inglese molto prima di averlo imparato in un percorso di studi ed è facile che questo tipo di esposizione porti ad associazioni di idee legate al suono della parola o della frase straniera più che al suo semplice significato. Mi riferisco a casi come “Alien” ad esempio, che potrebbe essere percepito da molti italiani come più spaventevole di “Alieno” (Alieno come titolo vi suona più “moscio” di Alien, ammettetelo!), e così se un film intitolato “Rosemary’s Baby” fa paura, allora probabilmente faranno paura anche altri film con una formula simile, perché si va a feticizzare un suono o la disposizione delle parole nel titolo, più che fermarsi al semplice significato. Ed ecco dunque che arrivano per il mercato italiano titoli completamente inventati come Sharon’s Baby.
Sharon’s Baby (1975)
Per il pubblico italiano del 1978 un titolo come “Sharon’s Baby” è un chiaro e immediato rimando a Rosemary’s Baby, quando il film in realtà è intitolato I Don’t Want to Be Born o in alternativa The Devil Within Her. La “3B Produzioni Cinematografiche” che lo ha distribuito in Italia nel 1978 aveva certamente compreso bene gli intenti di questo film di pura “exploitation” che, dicevano i critici del tempo, miscela in modo incompetente Rosemary’s Baby con L’esorcista [se chiedete a me sembra tanto quella commedia horror di Larry Cohen: Baby Killer], ma siamo l’unico paese dove il titolo è direttamente scopiazzato sulla formula di Rosemary’s Baby. Non mi è neanche chiaro se c’è qualcuno che si chiami Sharon nel film, immagino di sì, spero di sì! Purtroppo non sono riuscito a recuperare il film in italiano, ma dai commenti che trovo sul web sembrerebbe non esserci alcuna Sharon, il retro di copertina del DVD italiano parla di una Lucy Carlesi. Ma come ci suggerisce un lettore, Andrea Smedile, era probabilmente un riferimento a Sharon Tate, la moglie di Polanski assassinata dalla “famiglia Manson” nel 1969, mentre aspettava un bambino. Se non è abietto questo come titolo, non so proprio cosa lo sia!
Il sito IMDb riporta il titolo Sharon’s Baby anche per qualche distribuzione americana ma non ho trovato tracce di questo titolo in lingua inglese, né una VHS, né un flano, niente. La spiegazione più semplice è che qualche contributore di IMDb abbia visto la locandina con il titolo italiano e che, scambiandolo per statunitense, l’abbia aggiunta alla lista senza le verifiche del caso.
Sembra che il film goda di una certa notorietà tra gli appassionati di film brutti involontariamente divertenti: il sito web British Horror Films lo recensisce dicendo che ci sono film impossibili da descrivere (“There are some films that just defy description”). Insomma, da recuperare solo per farsi una risata. Tra l’altro sembra che per interpretare il bambino di Satana abbiano trovato l’infante più pacioccone del mondo. Sembro io da piccolo, dai!
Evil Evit
Rosemary’s Killer (1981)
A volte non è neanche colpa della distribuzione italiana, The Prowler (1981) di Joseph Zito è stato distribuito in molti paesi come Rosemary’s Killer, inclusa l’Italia (nel 1983) e figuriamoci se non si lasciavano sfuggire questa occasione ghiotta. Del resto in questo film c’è davvero un personaggio di nome Rosemary (Francis Rosemary per essere precisi) e non ci sono più bambini di Satana, bensì è un tipico slasher. È letteralmente “l’assassino di Rosemary”, nessun legame con quella Rosemary.
E quando le occasioni non vengono suggerite, tocca inventarsele. Sto parlando di…
Compleanno in casa Farrow (1981)
In originale Bloody Birthday del 1981, arrivato in Italia nel 1984 con palese riferimento a Mia Farrow, un nome inequivocabilmente associato al film Rosemary’s Baby, che evidentemente ancora faceva tanta pauuuva! Manco a dirlo, non c’è nessuna persona chiamata Farrow nel film, non nella versione originale almeno. Quella doppiata resta da verificare. In tal caso si tratterebbe di nomi alterati per il doppiaggio italiano.
Da dove gli sarà venuta l’idea? Semplice: il film inizia con la nascita di tre bambini durante un’eclissi di sole. I bambini sono particolarmente intelligenti e malvagi, ovviamente. Tutto qui.
Sempre fenomenali (e un po’ tutte uguali) le locandine di Enzo Sciotti.
Ma la Farrow lo sa?
Il vero seguito di Rosemary’s Baby
Ironicamente, Rosemary’s Baby ha avuto un vero e proprio seguito girato per la TV americana e intitolato Guardate cosa è successo al figlio di Rosemary (Look What’s Happened to Rosemary’s Baby, 1976), dall’ignota distribuzione italiana (non è arrivato al cinema e vista la cornucopia di titoli alternativi riportati su Wikipedia posso immaginare che sia arrivato almeno in TV) e definito —da chi lo ha commentato su YouTube— come “stupido oltre ogni limite” (this is beyond stupid) mentre qualcun altro suggeriva che “quelli che dicono che L’esorcista II: L’eretico di John Boorman sia il peggior seguito mai concepito dovrebbero essere obbligati a guardare questo”. IMDb lo riporta con i seguenti titoli italiani: Guardate cosa è successo al figlio di Rosemary e Cosa è successo a Rosemary’s baby?. Quest’ultima in particolare, con “Rosemary’s baby” lasciato in inglese è certamente la più scema.
Ma quanto so’ frignoni sti figli di Rosemary?
I discepoli di Rosemary
Alla distribuzione italiana sono persi una buona occasione con Necromancy (1973) con Orson Welles, che in Italia è arrivato al cinema nel 1976 come Il potere di Satana ma all’estero ha avuto anche il titolo di Rosemary’s Disciples (i discepoli di Rosemary), a riprova che la titolazione furbastra non è solo cosa nostra. Le curiosità su questo film non si fermano qui visto che nel 1983 il film fu rimontato completamente e gli venne dato un nuovo titolo, The Witching. Questa versione, è riportato su Wikipedia, è arrivata in Italia nel 1992 su VHS Mondadori con un nuovo titolo e un nuovo doppiaggio: Magia nera. Evidentemente negli anni ’90 ormai era tardi per un altro titolo apocrifo a base di rosmarino.
Ah, la necromachia! (semi-cit.)
Nota: l’utente ‘dag68’ nei commenti ci fa notare come nella locandina americana di Necromancy siano usati degli apostrofi per mettere in evidenza il nome Roman: “NEC’ROMAN‘CY”, altro sottile riferimento a Polanski inserito a martellate.
Conclusione
Forse il più illegale di tutti (moralmente parlando) resta quello di Compleanno in casa Farrow, è uno dei pochi casi in cui nel titolo viene usato il nome di un attore per ingannare lo spettatore italiano. Ma non è il solo. A costo di allontanarmi dall’horror, impossibile non nominare L’ultima follia di Mel Brooks, noto in patria come Silent Movie. Originariamente presentato alla censura italiana semplicemente come “L’ultima follia” (fonte Italiataglia.it), ma i furbacchioni della Fox devono essere stati ben consci che poi sarebbero andati a ingrandire quel “di Mel Brooks” collocato sotto al titolo della locandina per farlo diventare parte integrante del titolo stesso, e presentarono in questa forma anche alla stampa (ne avevamo già parlato per i titoli italiani dei film di Mel Brooks).
Con questo concludo. Il periodo di Halloween era occasione troppo ghiotta per non trattare qualcosa di genere horror e questi fratellini apocrifi del figlio di Rosemary mi hanno proprio preso per la gola.
I figli della Farrow più che posseduti da Satana mi sembrano dei cagacazzi!
Suppongo che Spiritika si debba leggere come la parola “spirìtica” di “seduta spiritica” ma io non riesco a non chiamarlo “spiritìca”… come si pronuncia non si sa mika. Questo titolo con la “k” non so da dove se lo siano tirati fuori Carlo Verdone e Vittorio Cecchigori quando il 23 luglio 1987 la loro neonata azienda Giulia Vittoria Audiovisivi porta Witchboarddi Kevin Tenney al cinema in Italia. La data è quella dell’anteprima romana ma si comincerà a parlare di questo film solo a ottobre dello stesso anno.
“Abbiamo deciso di dedicare alle nostre figlie Giulia e Vittoria – ha precisato Verdone – la società con la quale stiamo operando dall’anno scorso con due interessanti film: “Cavalli di razza” e “Spiritika”. Ho deciso di reinvestire i miei guadagni nel cinema perché, dopo la famiglia, è la cosa che mi piace di più ed è quella alla quale tengo maggiormente nella vita. Certo ci vuole molta dedizione ed oculatezza ma io ho la fortuna di avere un socio molto esperto e bravo come Vittorio Cecchi Gori”.
Il vero protagonista della pellicola è un oggetto di proprietà intellettuale della Parker Brothers (attualmente della Hasbro) e, da quando nel 1973 è comparso nella veramente vera storia vera ispirata a storie ancor più vere e certamente accadute veramente nella vita reale, L’esorcista, terrorizza gli italiani anche solo a guardarla o sentirne parlare. “Uh, attento a giocarci che non si sa mai…”. Sto parlando ovviamente della tavoletta “Ouija”, che come la nomini lo spirito capitalista della Parker Brothers compare e ti chiede di pagarne i diritti di sfruttamento. Gli autori del film narrano che il timore di ripercussioni legali sia stato il motivo del cambio di titolo, da Ouija (titolo sulla sceneggiatura e anche durante le riprese) a quello definitivo arrivato nei cinema americani, Witchboard, che per ammissione degli autori “suona anche più figo”.
E così perché non farci un film sopra, avrà pensato l’appena trentenne Kevin Tenney? Dire che Spiritika sia un film derivativo dell’Esorcista è quasi scontato perché tutti i film horror dopo il 1973 ne sembrano essere stati influenzati nella stessa misura in cui Dante ha influenzato la Chiesa Cattolica con la sua iconografia dell’aldilà.
Scena dal film L’esorcista (1973)
A parte la tavoletta spiritica — di origine ottocentesca ma con picco di popolarità negli anni ’20, quando erano tutti molto forti in sumerìa. (cit.) — Witchboard ruba a L’esorcista anche il concetto di “intrappolamento progressivo“, cioè se la usi in solitaria più ti ci trastulli e più lo spirito comincia a possederti e ti fa bestemmiare (bella scusa, veneti e livornesi!) fino ad arrivare alla possessione vera e propria che, in questo caso, ricorda più un furto di identità che altro. Parlando di furti, un’altra idea rubata all’Esorcista è quella di diffondere leggende su misteriosi avvenimenti durante le riprese del film. Anche quelli avvenuti veramente veramente. Del resto lo sanno tutti che se a Hollywood non giri un horror con spiriti veri non sei nessuno.
UGIA, OUGIA, UIGIA, BAUGIGIA… ma come si pronuncia “Ouija”?
“in un clima di ritorno all’esorcismo impiega come gioco di società un tabellone alfabetico, iellatore e criminale” (Repubblica, 10 ottobre 1987)
I dubbi sulla sua pronuncia sono più che leciti perché derivano dall’improvvisa comparsa nella nostra lingua di un oggetto nuovo dal nome strambo. Infatti, per quanto oggi sembri famosa a molti, la tavola ouija è cosa relativamente nuova in Italia, dove non c’è mai stato un vero e proprio “fenomeno” di massa che l’abbia popolarizzata come invece è avvenuto nel mondo anglosassone e per fare un resoconto di ciò mi sono dovuto districare tra dozzine e dozzine di frescacce nate da storici passaparola e leggende infondate. Non sono qui per ricostruire la storia completa di questo “tabellone alfabetico, iellatore e criminale” ma voglio dargli un po’ di contesto limitandomi ai fatti (“fatti, non pugnette!” cit.), così da capire perché ogni film di questa trilogia finisca per pronunciare “ouija” un po’ come cacchio gli pare.
Prima degli anni ’80 io non esistevo e agli inizi del secolo nemmeno voi, quindi per parlare di incidenza di una parola nel passato mi devo basare sul numero di volte in cui questa parola compare nella letteratura e in generale nella carta stampata, con tutti i limiti che ne conseguono visto che non tutto nella cultura popolare lascia tracce scritte. Questa mia analisi è stata svolta con l’ausilio di uno strumento di Google chiamato Ngram Viewer grazie al quale è stato possibile verificare che la presenza della parola “ouija” nella carta stampata registrò un boom di presenze in tutto il mondo anglosassone negli anni ’20 del XX secolo, e di riflesso se ne trovano tracce anche in Italia e in altri paesi europei, seppur molto limitate.
La tavoletta ouija nella cultura americana
“ouija” e “witchboard” in inglese americano, da Ngram Viewer di Google
Curiosità: L’unico articolo veramente documentato sulla storia commerciale della “tavoletta parlante” lo trovate sul sito The Big Game Hunter, a cura dello storico dei giochi da tavolo Bruce Whitehill il quale, invece di copiare e incollare informazioni false lette altrove, narra di ben altre vicende paurose avvenute per davvero… come ad esempio dei tentativi di vendere la tavola Ouija evitando la tassazione statunitense. Che oggetto mistico!
Dopo il picco di popolarità degli anni ’20, questa tavoletta per mettersi in contatto con gli spiriti rimane una presenza costante nella cultura popolare americana grazie non solo alla furba commercializzazione che la collocava sugli scaffali dei negozi insieme ad altri giochi da tavolo, ma anche grazie alla cultura americana stessa che, come dice Linda Rodriguez McRobbie nell’articolo The Strange and Mysterious History of the Ouija Board (2013, Smithsonian Magazine), portava a non percepire alcun conflitto tra spiritualismo e fede cristiana, quindi era accettabile per gli americani farsi una seduta spiritica il sabato sera con gli amici e poi andare a messa la mattina dopo senza scrupoli di sorta (non a caso nel film Spiritika sentiamo questa frase “avrò amici per il fine settimana e vogliamo usarla“). Si trattava di un’attività ricreativa compatibile con la vita religiosa, almeno fino all’arrivo nel 1973 di The Exorcist che ha terrorizzato i timorati di Dio cambiando completamente la percezione di quel gioco da tavolo; da quel momento in poi, tutti i successivi horror in cui compare la tavola non hanno fatto che rinsaldare l’idea che usandola si possano inavvertitamente spalancare le porte dell’inferno, oppure che possa portare all’ottavo stadio Yoga che permette la torsione della testa di 360°.
Prodotto in serie in una fabbrica di Salem, in Massachusetts, da streghe tenute al minimo sindacale (e quindi ancora più vendicative)
A prescindere da come sia cambiata la percezione di questo spiritico gioco da tavolo, gli americani lo conoscono “da sempre”. Non a caso sul finale del film Witchboard l’anziana padrona di casa trova la tavola ouija ed esclama: “una “uiglia”, ma guarda! Non ne avevo viste più da quando ero bambina“, la nipote adolescente le risponde “non sapevo che esistessero da tanto tempo“. Ebbene sì, i giovini negli anni ’80 non sanno che la First Lady Mary Todd Lincoln ne usò una per una seduta spiritica spiritika tenutasi alla Casa Bianca nel 1862 dopo la morte del figlio William Wallace Lincoln (nome vero, giuro!). Purtroppo la ouija non le diede la chiaroveggenza necessaria (cit.!) per prevedere l’assassinio del marito, appena tre anni dopo. Ah, ci saranno tante altre “cit.” nell’articolo, vi avverto.
La tavoletta ouija in Italia
“ouija” in italiano, da Ngram Viewer di Google
A differenza degli Stati Uniti, in Italia questa parola “ouija” dopo qualche fugace apparizione negli anni ’20 fa perdere tracce di sé fino a molti decenni dopo, negli anni ’70, quando comincia a ricomparire successivamente all’uscita di (provate a indovinare da soli…) l’Esorcista, nel 1974, ovviamente! Nel film non veniva nominata direttamente (solo mostrata) ma immagino che il film avrà portato su questo oggetto un’attenzione “transmediale” di cui vediamo un riflesso nella carta stampata italiana; una presenza che arriverà a picchi significativi durante i successivi anni ’80 e ’90 quando i film sulle possessioni in cui compare questo giocattolo cominciano ad essere sempre più numerosi.
Film anni ’80 e ’90 in cui compare la tavola ouija, le date sono quelle di uscita in Italia
La vera e propria notorietà per la parola ouija esplode però nella seconda metà degli anni 2000 dove fioccano film e film sull’argomento, fino al 2014 dove la parola “ouija” comincia a comparire addirittura nel titolo del film, a dimostrazione che ormai il nome è dato per conosciuto (almeno per chi si è tenuto aggiornato sugli horror degli ultimi 10 anni) e non c’è più bisogno di “farlo arrivare” al pubblico con l’ausilio di concetti più familiari come ad esempio quello della seduta spiritica, o… spiritìka, se preferite. Ma perché la kappa? C’entra forse qualcosa la Perestrojka? O la paprika? Boh.
Non sorprenderà quindi lo scoprire che nel doppiaggio italiano della trilogia Witchboard qui presa in esame, la pronuncia della parola “ouija” cambi essenzialmente da film a film, visto che nell’Italia post-Esorcista ce la siamo trovata tra capo e collo, con quello spelling strano e nessun parente degli anni ’20 appassionato di spiritualismo a cui chiedere.
Lo spirito di Evit vi detta la parola “OUIJA” ma la pronuncia rimane ignota
Leggenda vuole (e sottolineo leggenda) che il nome Ouija nasca dall’accostamento di “sì” in francese e “sì” in tedesco, quindi oui+ja. Questa almeno è la spiegazione che ci viene fornita nel primo film:
– Anch’io ne ho evocato qualcuno. – Come, con una tavola “ui-ii“? – Ui-ia. Si chiama “ui-ia”, non “ui-ii”, È l’unione del vocabolo “sì” in francese e in tedesco: oui… ja. “Ui-ia”. E questa… è una planchette. – Perché usi tante parole difficili, bello? È solo un gioco, come dama o scacchi.
(dal doppiaggio italiano di Spiritika, 1987)
Secondo questa spiegazione, la pronuncia italiana (che suona tanto come uìglia quando pronunciata da alcuni doppiatori nel film e uìa per altri) non fa una piega: uì+ja. Del resto la i lunga è stata a lungo presente nel nostro vocabolario, è quella di jella, jena, Jena Plissken, juta, fidejussione, etc… cioè una i semiconsonantica che si avvicina molto a “gl” ma che nello scritto è andata a perdersi in tempi più moderni, nonostante sia ancora prevista come alternativa dalla grammatica italiana (jena o iena). In lingua originale l’interlocutore che veniva corretto dall’appassionato di spiritismo nella scena sopracitata parla di “uìggi” e gli viene detto che si pronuncia “uigia”, non “uigi”.
Di chi fidarsi? Secondo il DiPI Online, il dizionario di pronuncia italiana del fonetista Luciano Canepari pubblicato da Zanichelli dal 1999, “ouija” si pronuncia uˈiʤa, cioè quello che avevo ignorantemente trascritto come “uigia”. Questa è la pronuncia sulla quale avranno fatto affidamento anche i doppiatori del film Le verità nascoste, visto che nel 2000 Michelle Pfeiffer diceva in italiano: “vuole che vada a comprare una di quelle tavole uìgia?”. Insomma, Zanichelli si affida alla pronuncia americana, o almeno ad una delle pronunce possibili ma gli altri dizionari? Il DOP (Dizionario italiano multimediale e multilingue d’ortografia e di pronunzia), la cui prima edizione risale al 1981, neanche riporta “ouija” tra le sue voci e a dir la verità questa parola non è riportata da nessuno dei principali dizionari italiani, probabilmente proprio perché è visto solo come marchio registrato di un gioco da tavolo. La pagina dedicata alla tavola ouija su Wikipedia Italia riporta questa come pronuncia inglese: [ˈwiːdʒə], ma la pronuncia anglosassone in realtà è lontana dall’essere così semplice. Basta andare sulla pagina Wikipedia in inglese infatti per trovarne almeno tre! /ˈwiːdʒə/, WEE-jə e /-dʒi, quindi approssimativamente: uiggia, uiigia e uiiggi.
L’unica traccia sonora che ho ritrovato online si trova sul Dizionario Olivetti datato 2003, che la legge “uii-ia” e che riporto direttamente qui nel caso possa scomparire o essere sostituito in futuro (sì, gliel’ho rubato il file! È questa la pirateria che ci piace!):
oui–jà pronuncia: /wiˈja/ sostantivo maschile
parapsicologia: tavoletta di legno a rotelle che, posta su un cartone recante le lettere dell’alfabeto, era utilizzata in passato dagli spiritisti per ricevere i messaggi dell’aldilà
E così la pronunciano nel film Spiritika, che Dio li maledika. Curioso che questo dizionario parli di sostantivo maschile visto che verrebbe naturale parlarne al femminile piuttosto, non solo per la a finale ma perché è facile associare questa strana parola all’idea di tavola o tavoletta, quindi latavoletta ouija… la ouija. L’esempio stesso del dizionario Olivetti poi ne parla al femminile quando dice “era utilizzata”. Boh, valli a capire. Ad ogni modo negli anni 2000 abbiamo due diversi riferimenti per quanto riguarda la pronuncia. Ma negli anni ’80?(??)
Ho il presentimento che nel decennio ’80 la ouija sia arrivata prima in forma scritta che parlata, e immagino che al momento di doppiare Spiritika – se ci giochi poi non sai mika – non avendo riferimenti italiani “storici” sulla pronuncia di questa parola avranno fatto tesoro della presunta origine del nome spiegata nel film stesso (dico presunta perché anche sulla sua origine le leggende non mancano), ottenendo così una pronuncia italiana che viene dall’unione del “uì” francese e il “jà” tedesco, quindi uì-ia, che è quasi uìglia. E come fargliene una colpa?
Spartito della canzone “Weegee Weegee”, del 1920
La scena iniziale del primo film, in cui viene spiegata la pronuncia della parola Ouija, serve uno scopo specifico per il pubblico americano: è il regista, dichiaratamente appassionato dell’argomento, che attraverso un personaggio educa il pubblico americano a non chiamarla “uìggi” (pronuncia più usuale negli USA) ma “uì-giah”, presumibilmente la pronuncia corretta, sempre secondo il regista. Un articolo molto divertente pubblicato nel 2016 sul sito Bloody-disgusting.com (‘Witchboard’ Turns 30 Today and It’s Still a Campy, Creepy Classic! di Daniel Kurlan) sottolinea come nell’intera trilogia di Witchboard tutti i personaggi chiameranno la nostra amata tavoletta sempre usando la sua pronuncia più inusuale “ui-giah”, anche nei due sequel dove nessuno dà alcuna giustificazione per questa scelta di pronuncia, bislacca e poco familiare per l’orecchio americano.
Nella versione italiana, tale coerenza interna alla serie, come spesso capita con i doppiaggi curati da aziende diverse e persone diverse, non esiste! Il doppiaggio di Spiritika 2 ad esempio se ne frega del precedente film e qui ouija viene pronunciata “ùgia” , con una bella g pronunciata alla fiorentina (chiedete a un fiorentino come si pronuncia “la giostra”, la “gente”… è quella “g” lì! È la J del nome francese Jean).
Non contenti di questa vasta gamma di pronunce, nel terzo capitolo della trilogia si parla di lo uìgia, al maschile, ma poi nello stesso film sentiamo anche parlare di “tavola ouìgia” e “oùgia“, pronunciati così come li ho scritti, quindi Spiritika 3 se ne frega della pronuncia della parola ouija addirittura all’interno dello stesso film!
Ma allora come si pronuncia OUIJA in italiano???
Visto la novità della parola nella lingua italiana e lo scarso impatto culturale che la Ouija ha avuto nel nostro paese, non penso si possa parlare di una pronuncia italiana “ufficiale” e per poter rispondere alla domanda “come si pronuncia ouija in italiano?” mi trovo costretto ad esprimere un’opinione personale, cioè che la parola in italiano possa essere pronunciata come “uìgia“, come diceva anche Emanuela Rossi diretta da Manlio De Angelis nel film Le verità nascoste (2000) e come propone anche l’autore della trilogia Witchboard in lingua originale, oppure che in alternativa si possa optare direttamente per riportare anche in italiano la pronuncia più comune e più familiare per il mondo anglosassone, quella di “uìggi“.
Come indicazione ai colleghi dialoghisti e adattatori del doppiaggio cinetelevisivo, se dovessi scegliere, io opterei per la prima, uìgia, che in ogni caso è contemplata tra le pronunce anglosassoni possibili ed è più facilmente accettabile dal pubblico di lingua italiana che, vedendo scritto “ouija” sulla tavola stessa o addirittura nel titolo del film, troverebbe più naturale accettarne una pronuncia che termina per -gia piuttosto di una che termina per -ggi. Ripeto e sottolineo, opinione personale.
Penso sia giunta l’ora di affrontare uno ad uno i film della serie Spiritika… che Dio la benedika.
Spiritika (Witchboard)
“Comincia con R. / Rinoceronte!” (cit. anni ’90)
Trama breve: ad una festa, Linda viene invitata a giocare con una tavola ouija, è attraverso questa che entra in contatto con lo spirito di un bambino, David. Nei giorni successivi continuerà a utilizzare la tavola da sola (e questo è male! cit.) ed è qui che amici e conoscenti cominciano a morire a destra e a manca mentre Linda, da ragazza a modo, diventa sempre più volgare: “Cristo santo, non farmi mai più uno scherzo del genere. Fottiti! Merda!” – dice alla prima persona che le compare silenziosamente alle spalle. ““Oddio” e “accidenti” erano le parole più forti che ti avevo sentito usare“, le dice il fidanzato. Sono i sintomi di un galoppante “intrappolamento progressivo” (progressive entrapment), o almeno così ci spiega il film senza usare la parola galoppante.
Ma Linda sta contattando solo lo spirito del piccolo David o c’è di mezzo qualche altra entità più malefica? Ovviamente è la seconda che ho detto. Lo spirito che si è intromesso è un qualche portoghese di inizi novecento che sembra la copia sputata di Giuseppe Ferlini [il tombarolo italiano che nell’800 fece saltare in aria tutte le 40 piramidi del Sudan e qualcuno ancora definisce “archeologo”. Come? Non sapete che il Sudan era pieno di piramidi? Ora sapete chi ringraziare], dotato di barba alla Capitano Nemo e che nella mia testa è letteralmente lo spirito di uno scaricatore di porto, questo spiegherebbe il linguaggio colorito di Linda e… sì, il nome della protagonista è solo un altro dei tanti riferimenti all’Esorcista. “Insomma mi stai dicendo che io vivo con Linda Blair?” è una vera frase del film, giuro!
A sinistra Malfeitor, il portoghese bestemmiatore. A destra quel farabutto di Giuseppe Ferlini. Dai che è lui!
L’adattamento italiano di Spirtika
Quello di Spiritika– spirito, non mi freghi mika – è indubbiamente un buon adattamento, datato 1987. Doppiatori adeguati e dialoghi naturali nonostante la sfida di scene in cui sentiamo lo spelling delle parole in inglese che gli spiriti dettano attraverso la tavola ouija. Questo ostacolo linguistico è superato facendo sì che i diretti partecipanti poi traducano al volo per noi queste parole dettate in inglese (evidentemente i personaggi sono tutti provetti traduttori!):
Di, erre, a, i, enne… “drain” … vuoi dire in un tubo? Il tubo di un lavandino?
Menomale che sapeva l’inglese sennò…
L’unica alternativa possibile a questo stratagemma sarebbe stata quella di leggere lettere diverse da quelle che vengono evidenziate sulla tavola ouija. Ovviamente si tratterebbe di un qualcosa di insensato e ancora più straniante. Lo stratagemma adottato invece nel doppiaggio italiano del film, cioè quello di far fare ai personaggi lo spelling a voce alta, leggere la parola completa in inglese e poi enunciarne la traduzione italiana, funziona meglio di quanto possa sembrare dall’esempio che ho trascritto.
Il resto del film non è degno di alcuna nota particolare riguardo l’adattamento italiano, eccezion fatta per una sequenza che coinvolge una medium new age chiamata Zarabeth; è da questa porzione del film che spuntano fuori battute che in italiano sono addirittura più sensate di quelle originali. Ad esempio il protagonista che dice della medium: “con quella testa sembra una gallina spennacchiata“, una frase che funziona molto meglio della battuta originale che qui traduco per voi: “ha i capelli color arcobaleno!“. Sì, i capelli di Zarabeth sono tinti ma siamo ben lontani dai capelli multicolore della Cyndi Lauper di quegli stessi anni.
Spennacchiata o color arcobaleno?
Diciamo che quella dei capelli color arcobaleno è un tipo di battuta che risuona di più nel pubblico di lingua inglese, così come noi troviamo più familiare il concetto di una capigliatura che possa far sembrare “spennacchiato” qualcuno. Anche in queste piccole cose si assaggia il vero significato di adattamento. Amanti delle traduzioni dirette al limite della traslitterazione fatevi da parte, questo film non è per voi.
Quando poi le viene chiesto se durante la seduta spiritica i partecipanti debbano tenersi per mano, la medium alla moda risponde che quello “succede solo nei psico-film brutti“, mentre in lingua originale diceva che succede “solo nei film di vampiri“. Eh? Nghe senso, scusa? (cit.). Non ricordo film di vampiri con sedute spiritiche in cui la gente si tiene per mano, ma se mi è sfuggito un intero sottogenere horror fatemelo sapere che vado a recuperare. La battuta italiana fa riferimento ai film in cui compaiono i medium (“psico-film”) e sottolinea quelli “brutti”, che poi era anche il senso della battuta originale, negli anni ’80 infatti i “film di vampiri” erano ancora associati all’idea di film spazzatura (trash diremmo oggi) dopo decenni di abuso di quel genere da parte della Hammer. Poche le eccezioni, la vera redenzione del genere vampiresco sarebbe arrivata a breve.
Le battute italiane di questa porzione del film hanno generalmente un po’ più senso e c’è anche lo slang anni ’80 alla quale in qualche modo si è voluto dare risposta: “bitchin’!” diventa “rimarchevole!“. Oggi forse rimarrebbe bitchin’ anche nel doppiaggio italiano, con buona pace di chi l’inglese non lo mastica.
Insomma un buon adattamento, da guardare in italiano senza timore e senza dubbi. Anche le battute più strambe tipo “ma che, per caso c’è scritto “spastico” da qualche parte” (indicando la maglietta che indossa) purtroppo sono anche nel copione originale (“oh, please, do you see “spaz” written on this anywhere?” ). Gli anni ’80… quando c’era un offesa proprio per tutti! [NOTA LINGUISTICA: In realtà nell’inglese americano “spaz” non è percepita come offesa, invece nel Regno Unito è il peggior insulto abilista dopo “retard” come spiegato in questo articolo in lingua inglese.]
Niente accettate di Evit questa volta.
Il cast di doppiatori di Spiritika
Sul web nessuna traccia del cast di doppiaggio di Spiritika – chi lo doppia non si sa mika – né alcun tipo di informazione su chi lo abbia diretto o adattato in italiano. L’azienda di Verdone e Cecchigori nei pochissimi anni in cui è stata attiva sembra essersi avvalsa dello studio di doppiaggio Open che faceva largo uso di doppiatori della CDC, quindi per un eventuale riconoscimento dei doppiatori bisognerebbe confrontarli probabilmente con quelli che solitamente lavoravano per la CDC. Per chi non conosce il nome, CDC è il sinonimo di un doppiaggio di alto livello. Tra le voci note troviamo un Michele Gammino sul personaggio del tenente Dewhurst e mi sarebbe piaciuto identificarne tante altre ma siccome sono una scarpa in queste cose ho chiesto ai soliti noti, le orecchie del blog Doppiaggi italioti per così dire, cioè il mio braccio destro Leo e il mio orecchio sinistro Francesco Finarolli che avevo già sfruttato per un’operazione simile su Il ritorno dei morti viventi), e così ancora una volta siamo riusciti a dare un nome alle voci. Ecco dunque il cast di doppiaggio di Spiritika – se ha coraggio lo ridika! – per la prima volta sull’internet!
Sandro Acerbo: Jim (riconosciuto da Leo) Serena Verdirosi: Linda (riconosciuto da Finarolli) Stefano Mondini: Brandon (riconosciuto da Finarolli, questo era arduo!) Massimo Corizza: Lloyd (riconosciuto da L.) Michele Gammino: tenente Dewhurst (riconosciuto da Evit) Anna Rita Pasanisi: la medium Zarabeth (F.) Manlio De Angelis: ospite baffuto alla festa, la prima voce che sentiamo nel film (F.) Francesco Pannofino: Roger, l’ospite alla festa seduto sul divano (L.) Franca Dominici: la signora Moses, la padrona di casa (F.) Vittorio De Angelis: il collega di cantiere di Jim che lo avverte di una telefonata (F.) Alessandro Rossi: la voce di Malfeitor (F.) Eleonora De Angelis: la nipote della padrona di casa (E.)
Rimangono ignoti per il momento: il prete che sposa i protagonisti (a 1h33m58s), l’ospite alla festa che dice “sì, ci sono stato anch’io” e l’altro ospite che subito dopo dice “dovevi vederla, era ubriaca fradiscia” (2m30s), la Dott.ssa Gelineau (a 1h2m39s e 1h14m35) e il giornalista che annuncia la morte della medium (54:34). I tempi segnalati si riferiscono ad una versione che gira su YouTube e finché dura il link la potete trovare qui. Legalmente potete vedere Spiritika in italiano su Amazon Prime e, in teoria, a breve dovrebbe tornare disponibile anche in DVD dopo anni di “fuori catalogo”.
Un sentito grazie al mio “gruppo di ascolto” di Doppiaggi italioti per l’identificazione di tutte queste voci.
AAAH! Ecco dov’era la mia accetta! Giusto in tempo per parlare del 2.
Spiritika 2 – Il gioco del Diavolo (Witchboard 2: The Devil’s Doorway)
Se Spiritika se la cava egregiamente con i suoi interpreti e con il suo adattamento italiano di cui c’è veramente ben poco da dire, è con Spiritika 2 – Il gioco del Diavolo (arrivato grazie a Medusa direttamente in VHS senza passare dal via cinema) che ci facciamo le grasse risate.
Oh, sveglia! Sei l’attore in un film.
Trama e adattamento italiano
Ritorna ovviamente la tavoletta ouija e l’intrappolamento progressivo, anche qui di una ragazza innocente, Paige (Amy Dolenz), appena trasferitasi in un loft in città per fare l’artista bohemienne (ma non era anche la trama di un Amytiville o mi confondo? Dai che è lui! È Amityville: A New Generation… pure dello stesso anno, 1993, quando a Los Angeles i loft te li tiravano dietro evidentemente). È in cima ad un armadio a muro del nuovo appartamento che Paige trova proprio la nostra amata tavoletta. Nessun legame con quella del precedente film anche se appaiono essere identiche. Ma dopotutto si ispira pur sempre ad un prodotto sfornato in serie in un impianto industriale del Massachusetts.
Se nel primo film capivamo dagli improperi fuori luogo che l’intrappolamento progressivo stava gradualmente trasformando la personalità di una ragazza latte-e-miele in quella di uno scaricatore di porto, nel corso del secondo film non abbiamo mai la sensazione che alcun cambiamento sia in atto, questo perché nel doppiaggio italiano la dolce e sorridente (ingenua quasi! cit.) Paige chiama PUTTANA chiunque! Anzi, per essere precisi, tutti i personaggi in Spiritika 2 dicono “puttana” gratuitamente a chicchessia, anche senza alcun intervento spiritico spiritiko… perché ovviamente si tratta della traduzione errata di “bitch” (stronza). Allora se una collega ti fa un dispetto nascondendoti il lavoro è subito “quella puttana!” e se il fantasma di una donna assassinata si impossessa del corpo di della tua amica, tu le dici “eri una puttana, e lo sei ancora“, anche se quella non era la sua professione da viva. Quanta misoginia interiorizzata! Spiritika 2, benvenuto nel mio catalogo di doppiaggi che odiano le donne!
Quella che chiama tutte le donne “puttana”
Mi sa proprio che chi ha tradotto e adattato Spirtika 2 in italiano lo abbia fatto sotto l’influenza dello spirito di uno scaricatore di porto, solo che non ho idea di chi possa averlo evocato. Infatti, anche in questo caso, dell’azienda che ha doppiato il film e dei suoi interpreti vocali non sembrano esserci tracce scritte da nessuna parte.
Lo spirito che si è impossessato del traduttore o della traduttrice di Spiritika 2, oltre a chiamare tutte “puttane” al posto di “stronze” (e c’è una bella differenza!) ogni tanto si dimentica dei congiuntivi, che vengono a mancare e poi ricompaiono anche a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Ad esempio scompare il congiuntivo da “volevo assicurarmi che tu stavi bene“, detto al citofono, per poi ricomparire al posto giusto nella stessa frase ripetuta dallo stesso personaggio appena 5 secondi dopo quando sale su in casa! Lo avrà ritrovato per le scale, il congiuntivo?
Prima di continuare con gli errori scemi di traduzione voglio ammettere qui ed ora che questo secondo film, scritto e diretto dallo stesso regista del primo Witchboard, non è poi così lontano in qualità e stile dal primo capitolo, se vi era piaciuto quello potreste apprezzare anche il secondo. Solo che intanto sono arrivati gli anni ’90 e quindi le capigliature sono meno epiche del precedente e anche il budget è ancora più risicato. Salta all’occhio però un uso virtuoso della cinepresa che si infila in spazi improbabili per gli anni ’90, come l’intelaiatura di una finestra o il parabrezza di un veicolo. Spazi in cui non ti aspetteresti possa passare una cinepresa dell’epoca. Piuttosto sorprendente per il 1993.
Tutto bello insomma (o, se non bello, accettabile) se non fosse per un doppiaggio che chiamarlo “da videocassetta” è fargli quasi un complimento. Gli interpreti vocali sono al più decenti, ma generalmente mediocri, e chiunque sia il doppiatore che dà la voce al personaggio di Russel è da codice penale, DA CO-DI-CE PE-NA-LE! (cit.) ed un bene che non conosca i loro nomi. A giudicare da certi momenti in cui scappa un’apertura sbagliata sulle vocali, posso dire con una certa sicurezza che si tratti di un doppiaggio del nord Italia, di una delle tante ditte che doppiavano a prezzi concorrenziali per il mercato delle videocassette e alle quali si affidavano spesso distributori come 20th Century Fox. Perché spendere di più quando puoi spendere meno, no? Beh, magari per non sentire “Mitch ha trovato il tuo corpo, ora sta andando sul pÒsto“, con una bella “o” aperta, fonica.
E-V-I-T… I-N-C-A-Z-Z-A-T-O
Ma fosse solo quello! L’adattamento dall’inglese all’italiano è dilettantesco.
– Da dove cominciamo? – Lei ha detto Park Wood 217, significa qualcosa. – Credi che troveremo un cartello con su scritto 217 con una grossa X che segna il posto?
Segna il posto? Che posto segna? X marks the spot è un’espressione di lingua inglese, nota nella cultura popolare, associata alla caccia al tesoro piratesca dove la X indica sempre il punto dove è nascosto il tesoro. È a tutti gli effetti un modo di dire, un idioma, e in quanto tale non è da tradurre alla lettera (regola base della traduzione da quando esiste la traduzione nella storia dell’umanità). Nel film Indiana Jones e l’ultima crociata, questa espressione diventa il fulcro di una gag dove a lezione il Professor Jones istruisce i suoi alunni sulla vera archeologia, dove la X non indica mai il punto dove scavare, salvo poi trovare l’accesso alle catacombe a Venezia proprio sotto una enorme X (il 10 in numeri romani) e si vede costretto ad esclamare “la X è il punto dove scavare“. Notare che in tutti questi casi viene chiarito cosa sia quel punto (spot), perché non essendo un idioma anche in italiano non ne possiamo dare per scontato il significato implicito. Chi ha adattato Indiana Jones (Roberto Rizzi, per la CDC, azienda seria) sapeva di non poterla tradurre direttamente in “la X segna il posto.” (il posto di che?), gli ignoranti invece si fermano alle traduzioni dirette e non scavano mai oltre. Piaciuta la battuta? “Scavano”? Vabbè.
Russel che vuole sparare al suo doppiatore
E perché tradurre “assuming that” con “assumendo che” quando abbiamo una cornucopia di traduzioni italiane più valide? Ipotizzando che, supponendo che, partendo dal presupposto che, posto che… tre le prime che mi vengono in mente; dobbiamo proprio ipotizzare che lo abbia tradotto qualcuno con poca familiarità con la lingua inglese… ma anche con quella italiana.
Ovviamente con cotanta dimestichezza nella traduzione, non è una sorpresa trovare in questo film anche battute in un italiano irreale, cose come “tu devi avere una dannata pila di multe non pagate” (helloooo-o, doppiaggese?) oppure ancora “Lo stesso tipo di dannata relazione che avevo con mio padre“. Chi era il padre, uno stregone? Quando poi si parla del distintivo di un poliziotto qualcuno deve aver proprio capito fischi per fiaschi: “Venticinque zero cinque, giusto? Il tuo numero di targa. Volevo assicurarmi di averlo visto bene“. Ma in italiano la targa è quella automobilistica, non certo la traduzione di “badge number“, cioè il numero di distintivo.
Malfeitor aiutami tu!
Anche in questo film torna lo stratagemma (l’unico veramente sensato) di leggere ad alta voce le parole che lo spirito detta in inglese attraverso la tavoletta per poi farle tradurre al volo in italiano per la nostra comprensione. Il livello di sfida linguistica però aumenta molto con questo secondo film e va ben oltre le capacità di chi già traduce “una X che segna il posto” e “numero di targa“.
La sfida è dovuta alla dislessia palese di cui soffre lo spirito in questo Spiritika 2 e quando detta parole attraverso la tavoletta ouija non ne azzecca mai una! Solo che, anche se le parole che vengono fuori durante la seduta spiritica non hanno uno spelling perfetto, lo spettatore italiano non ci fa caso perché vengono comunque tradotte dai protagonisti in un italiano corretto, e quando lo spirito detta parole incomprensibili, a noi spettatori italiani cominciano a sorgere seri dubbi. Com’è infatti che “riflecape” (parola inesistente che sembra composta di “rifle” e “cape” ) ci viene tradotta al volo come “minecatto“? Da dove viene fuori questa parola inventata?
Ciò che il fantasma voleva scrivere in realtà era FIREPLACE, cioè “camino”, o CAMINETTO, ma siccome lo spirito è dislessico è venuta fuori come RIFLECAPE, che la protagonista inizialmente pensa possa essere un nome o una parola di cui non conosce il significato. Ma se non lo capisce lei come può tradurlo al volo con una inesistente parola italiana (minecatto)… che per puro caso funzionerà perfettamente anche come anagramma? Boh. Chiaramente una sfida linguistica che andava ben oltre le possibilità del traduttore/traduttrice di questo secondo capitolo di Spiritika – cominci a stare un po’ antipatika – e possiamo dire che non ci hanno provato nemmeno.
Questa scemenza del “riflecape” (o “minecatto”) sarà alla base dell’anagramma più telefonato della storia del cinema. Driiin driiin, Spiritika? Mi dika!
Il cast di doppiatori di Spiritika 2
Laura Lenghi: Paige, la protagonista Giuliano Santi: Jonas, il padrone di casa Stefania Romagnoli: Elaine, moglie di Jonas Toni Orlandi: il sig. Morris, il negoziante esperto di occulto Sergio Luzi (?): il primo netturbino
Per quanto scarna, se questa lista esiste è merito dell’orecchio di Francesco Finarolli, di cui dovrei fare un action figure targato Doppiaggi italioti, del nostro Leo che per qualche oscuro motivo conosce molto bene la voce di Toni Orlandi (di Leo da anni ho già il soggettone appeso alla parete, la sua faccia ritagliata e appiccicata sul poster di Rambo 2, tanto per rimanere in area Carlo Verdone), e di chi ha contribuito nei commenti, come ‘Alex’ che ha riconosciuto nella protagonista la voce di Laura Lenghi, e Giacomo che potrebbe aver identificato Sergio Luzi sul primo netturbino sul finale del film. Mancano all’appello la voce di Mitch, il fidanzato della protagonista, quella del fotografo Russel, del fantasma di Susan, della collega gelosa e il secondo netturbino sul finale. Sono difficili da identificare perché alcuni di questi (e non starò a dire quali), mi dispiace dirlo, sono davvero al limite dell’incapace. Ma dico io… ci sono tanti pomodori da raccogliere al sud, perché insistere proprio nella carriera di doppiatori?
Finché dura potete trovare il film su YouTube a questo link. Il DVD della Cecchi Gori è invece fuori catalogo da anni e per comprarne anche una copia usata dovreste dissanguarvi. Quindi per il momento non c’è modo di vederlo legalmente.
Il titolo italiano: il gioco del Diavolo
Per finire, il sottotitolo italiano “il gioco del Diavolo”, così come quello originale (“The Devil’s Doorway”), fanno riferimento ad un Diavolo che in realtà non metterà mai piede nella trama. Lo spirito “possessore” (la conio io qui e ora) è quello di una donna morta, Susan, di cui non conosciamo le intenzioni ma siccome è un film di pauuuuva potete già immaginare che le sue intenzioni non siano benefiche. Per la titolazione di questo film, il Regno Unito si è buttato su un più generico ma forse più appropriato “il ritorno” (Witchboard 2: The Return). Il Diavolo con la D maiuscola sarà invece protagonista solo nel terzo film.
Spiritika 2 – Il gioco del Diavolo sarà anche l’ultimo capitolo a chiamarsi “Spiritika”, spavento non fai mika.
A letto con il demonio (Witchboard III: The Possession)
LU DIAVOLO!
Witchboard III: The Possession (del 1995) arriva in Italia in VHS nel 1998 per mano della Fox in combutta con la Eagle, queste due aziende di certo non avranno voluto far alcuna pubblicità ai precedenti due “Spiritika” che invece erano in mano alla concorrenza Cecchi Gori-Berlusconi e così questo terzo capitolo viene spacciato come film a sé con il titolo A LETTO CON IL DEMONIO. Qualche pubblicitario con ancora in testa “A letto con il nemico” del 1991 deve essersi compiaciuto molto di questa scelta. Anche le VHS però devono riportare il titolo originale da qualche parte sulla copertina e quindi l’acquirente italiano non si sarebbe poi accorto di quel numero romano in “Witchboard III” ? Presto fatto, togliamo il numero romano dalla copertina della videocassetta, et voilà:
Il terzo film non viene penalizzato realmente da questa dipartita tutta italiana dalla trilogia Witchboardvisto che comunque si distanzia sostanzialmente dai precedenti due capitoli, incluso il totale cambio di look della tavoletta ouija e anche della sua planchette accessoria (cioè quel puntatore di legno a forma di goccia con un foro al centro): adesso questi sono addirittura un qualche reperto maya! Seh, vabbè. “A letto con il demonio” è effettivamente un titolo molto appropriato per la trama del film visto che il protagonista viene posseduto nientepopodimeno che da lu diavolo in persona, ma in tempi moderni forse è ora di far tornare questo Witchboard a casa con un nuovo titolo italiano, dai che viene facile… Spiritika 3: A letto col demonio. Perché separare le famiglie? Non è una cosa bella (cit.). Se mai esisterà un cofanetto di questa trilogia, dovrebbero rititolarlo così.
Trama e adattamento italiano
L’introduzione del film parla subito di una “tavola della strega“, la traduzione diretta di “witchboard” (semmai delle streghe… al plurale, no?), perché si dice che “la tavola fosse usata dalle streghe“, insomma la stessa storia già sentita nel precedente capitolo. Qui in realtà la sparano anche più grossa: “lo o-uìgia esiste sin dai tempi di Pitagora“. Seh, vabbè, dall’uomo di Similaun!
fate partire la Unchained Melody di Ghost – Fantasma
La trama: Julie è una docente universitaria ed è l’unica che porta soldi a casa perché suo marito Brian è un “broke” broker, un broker finanziario rimasto senza lavoro che passa tutto il giorno in vestaglia, non si pettina, i colloqui gli vanno male, l’ufficio di collocamento non lo richiama nemmeno più… insomma vive come un trentenne italiano di oggi, solo che per i parametri anni ’90 Brian è in un momento molto brutto della propria vita. Il proprietario del palazzo in cui si sono appena trasferiti però lo invita nel suo appartamento dove, grazie a un’antica tavoletta ouija, gli dimostra che si possono sfruttare gli spiriti dell’aldilà per fare soldi in borsa. Oh, finalmente un’idea intelligente in tutta questa serie!
Vi chiederete: perché svelare ad uno sfigato il segreto del proprio successo? Perché il proprietario del palazzo è posseduto da LU DEMONIO!!! Ma lu demonio si è impossessato (spoiler eh) del corpo di un impotente (il suddetto proprietario) e non ha mai potuto generare un erede (i poteri del Diavolo non includono la fertilità maschile), quindi è ora di suicidarsi per passare nel corpo di Brian, che ha anche la moglie carina e in salute. Il vecchio dunque regala un anello merovingio a Brian e si getta con nonchalance giù dal balcone. È da questo momento che Brian ha libero accesso alla tavoletta che, come nella tradizione di questi film che copiano le dinamiche dell’Esorcista, inizialmente si dimostra di grande aiuto, così da portare Brian alla possessione. Al contrario dei precedenti però, questa possessione non avviene tramite “intrappolamento progressivo”, bensì Brian viene folgorato, il suo spirito attraversa l’occhio della planchette e da quel momento si ritrova intrappolato nel mondo degli specchi. Il corpo resuscitato invece è un nuovo Brian, più figo, che usa il gel per buttare i capelli all’indietro, che veste in pelle nera, mangia mele e fa ‘n sacco de sordi giocando in borsa. Ora vuole anche un figlio con Julie… LO FIGLIO DE LU DIMONIO! Mammamija!
Lo spirito del vero Brian cerca di avvertire Julie comparendo negli specchi di casa e berciando come un disperato ma lei non può vederlo né sentirlo, quindi il Brian intrappolato nella zona fantasma (se non è cit. questa non so cosa lo sia!) dovrà mettersi in contatto con lei attraverso la tavoletta ouija. Riuscirà Brian a salvarla dal lu demonio e riprendere possesso del proprio corpo???
Dei tre film, Witchboard III è quello che più facilmente svanisce dalla memoria, forse per una trama non freschissima, dal diavolo che vuole un figlio (da quando esiste questo tòpos? Dall’anno 1000 almeno!) all’idea di un doppelgänger, cioè il sosia malvagio che minaccia di sostituirsi al protagonista, in questo caso si tratta di una possessione ma il concetto è lo stesso. Witchboard III potrebbe ricordare qualcuno degli episodi più noiosi di X-Files che andava in onda in quegli stessi anni, sia per le tematiche sia per il look del film. Si fa guardare e si fa anche dimenticare, sopravvivendo nella sua mediocrità da produzione televisiva, ma la sua esistenza non offende. Se il link perdura, lo potete vedere su YouTube seguendo questo link.
LU DIAVOLO IN CGI!
Cast di doppiaggio
Francesco Prando: Brian Antonella Baldini: Julie Barbara De Bortoli: Lisa, l’amica di Julie Germano Longo(?): Francis, il proprietario Romano Ghini: l’usuraio Sig. Finch [riconosciuto da Giacomo nei commenti] Alberto Caneva: reporter in TV Alberto Caneva: secondo paramedico / l’amico Hank al telefono (a 22:36) / l’annunciatore televisivo (a 25:50)[segnalati da Giacomo] Alessandra Grado: Dora / paramedico donna / reporter in TV [segnalati da Giacomo]
Ancora una volta è Francesco Finarolli che ha aiutato nel riconoscimento di molti interpreti, con l’aggiunta delle buone orecchie di un lettore (‘Giacomo’ nei commenti). Rimangono dubbi su Francis che potrebbe non essere Germano Longo bensì Antonio Colonnello, secondo Giacomo. Sempre secondo il lettore Giacomo dovrebbe essere di Alessandra Grado la voce della vedova Dora (nel film a circa 17 minuti), della donna paramedico che consola Julie (a 34:37 min) e anche della reporter in TV (a 26:02). Ignote le voci su altri brevissimi ruoli di poche parole come quelli della cronista Ginny Rogers (a 25:52), del tirapiedi del Sig. Finch, Ronald, e di uno dei due paramedici maschi, che è la stessa sentita su Ronald (e al momento sconosciuta).
Come nella tradizione di questa trilogia, ignoti sono il direttore, l’adattatore e l’azienda di doppiaggio (in base ai nomi potrebbe essere la Tecnosound o Cast Doppiaggio Srl) ma posso affermare con sicurezza che A letto con il demonio sia stato doppiato e adattato decisamente meglio di Spiritika 2. Rimane comunque un prodotto quasi televisivo nel quale non riconosco nessun interprete vocale (se non era per il Finarolli e per le altre gentili orecchie, boh!) ma neanche palesi errori di traduzione. L’unica nuova stramberia rimane la pronuncia di ouija che qui diventa ouìgia e oùgia, a volte al maschile e a volte al femminile… ma il capitolo veramente comico rimane comunque il secondo Spiritika – recensire questa trilogia è stata una fatika.
Se il primo episodio era stato scritto in fretta e furia, all’ultimo momento prima della data di inizio delle riprese, questo episodio II non è certo da meno.
La seconda gravidanza isterica di George Lucas
Nella gravidanza isterica (o pseudociesi) una donna crede di essere incinta malgrado non sia avvenuto un reale concepimento. Nella gravidanza isterica di George Lucas, George ha creduto di essere il creatore di un nuovo episodio di Star Wars nonostante non abbia mai concepito una reale sceneggiatura.
Su Wikipedia è ben riassunto il secondo travagliato parto immaginario di Lucas (ho controllato le fonti, è tutto vero):
Nel marzo 2000, appena tre mesi prima dell’inizio delle riprese, Lucas riuscì a completare una bozza preliminare dell’Episodio II. Il regista continuò poi a lavorarci su, producendo una prima ed una seconda bozza definitive [NdA: cosa ci sarà di “definitivo” in una seconda BOZZA che poi ne richiede una terza? Boh. Qui qualcuno su Wikipedia non sa tradurre l’inglese]. Per avere un aiuto con la terza bozza, che sarebbe poi diventata la sceneggiatura vera e propria, Lucas chiamò Jonathan Hales, che aveva scritto per lui diversi episodi della serie televisiva Le avventure del giovane Indiana Jones, ma aveva limitata esperienza di scrittura di film cinematografici. Lo script finale fu completato solo una settimana prima dell’inizio delle riprese.
Quando si dice partire col piede giusto. Potremmo sorprenderci davvero di trovarci dentro le peggiori frasi da telenovelas inserite in scene di gente seduta in salottini vuoti? Quella definizione di “space opera” non è mai stata più vicina a “soap opera” prima di episodio II. Chissà chi di loro (Lucas o Hales) avrà scritto “tu mi sei entrata nell’anima… che si tortura per te!” oppure ha messo in bocca al generale Yoda perle di strategia militare come “concentrate tutto il fuoco sull’astronave più vicina“. Lawrence Kasdan, sceneggiatore della trilogia classica, era troppo impegnato per tornare a lavoro sui nuovi episodi della saga oppure non voleva avere niente a che fare con Lucas e i suoi prequel?
George Lucas che racconta balle… spaziali.
È Kasdan stesso che riconferma ciò che avevo già raccontato per Episodio I, cioè che George non ha mai avuto una storia per tutta la saga come invece va raccontando in giro, a stento aveva 15 paginette di appunti scritte nel 1976 riguardanti il passato dei personaggi e che poi ha deciso di ignorare completamente quando è andato a scrivere i prequel. In un’intervista, Kasdan riassume con poche frasi la figura di George, Grande Procrastinatore, e le sue —è proprio il caso di dire— leggendarie sceneggiature prequel che nelle interviste di fine anni ’90 diceva di stare scrivendo già dal 1994, mentre nei documentari autocelebrativi degli anni 2000 queste quattro paginette diventano addirittura una saga di 12 film già scritta per intero da prima di girare Guerre stellari nel 1976! (leggende che sento già dal 1999, prima che uscisse Episodio I al cinema). Qui a Firenze uno come Lucas lo avremmo subito soprannominato i’ bomba. La dura realtà dei fatti è che a due settimane dall’inizio delle riprese Lucas non ha ancora finito di scrivere un bel niente (niente che si possa portare davanti ad una cinepresa almeno) e si affida a sceneggiatori televisivi per aiutarlo, perché i veri professionisti, suppongo, non vogliono averci niente a che fare.
Riguardo ai prequel, infatti, il 30 maggio 2018, Kasdan al New York Times dichiarò [e qui ve lo traduco]:
Volevo andare avanti. Stavo girando molti film e lo facevo regolarmente. Negli anni seguenti ci sono state molte volte in cui George mi ha chiesto di essere coinvolto in tutti e tre i prequel. Mi diceva: “Ehi, ti piacerebbe scrivere questa o quella cosa?”. Gli dissi: “George, ma le riprese non iniziano tra due settimane in Australia?” e lui: “Sì, ma non è troppo tardi“. Ero alla prima proiezione di “La minaccia fantasma” ed era così diverso [dai precedenti film] che non sapevo davvero cosa pensare al riguardo. Non aveva alcun legame, secondo me, con quello che avevamo creato. Mentre lo guardi pensi: aspetta, come? Ma che c’entra?
Dove eravamo rimasti con il doppiaggio italiano della saga?
La storia della nascita di La minaccia fantasma narrata in quel mio primo articolo era semplicemente un prologo per arrivare poi all’analisi completa del suo adattamento italiano, forse il più indegno di tutta la saga, strapieno di errori di traduzione, mancati riferimenti e scelte linguistiche dubbie. Sarà un caso che al momento di doppiare Episodio II questo non sia stato assegnato agli stessi di Episodio I? O meglio, cambia la società di doppiaggio, cambia il direttore di doppiaggio, cambia il dialoghista, restano invariati invece i doppiatori. Chissà che vorrà dire!
Il sito antoniogenna.net riporta tra le curiosità di Episodio I questo stralcio.
Il doppiaggio italiano ha suscitato molte polemiche, soprattutto per alcuni errori di traduzione. Nel gennaio 2002 è stata persino organizzata una petizione per richiedere una cura maggiore per l’episodio successivo.
Sebbene non sia citata la fonte dell’informazione (e quando mai!), il riferimento è ad una petizione del 12 dicembre 2001 avallata da Cloud City Italian Star Wars Fan Club e Guerre Stellari.Net. La pagina web per la petizione non esiste più ma potete trovare una copia del testo originale su Internet Archive [un grazie a chi nei commenti mi ha aiutato a ripescarla]. I fan se ne sono lamentati, e anche duramente, sottolineando che gli appassionati e persino gli spettatori occasionali hanno trovato imperdonabili i gravissimi errori in lingua italiana presenti nel doppiaggio, indegni di un adattamento professionale. L’adattamento di Episodio I ha problemi innegabili, addirittura nella pronuncia dei nomi… alla faccia dei doppiaggi moderni che dovrebbero essere iper-controllati dal committente estero! In quel caso Fox o Lucasfilm evidentemente erano completamente assenti oppure troppo impegnati nell’imporre il ritorno ai codici originali dei robot R2D2 e C3PO (fu-C1P8 e fu-D3BO), tanto da non esprimere dubbi quando il senatore Palpatine veniva chiamato “Pàlpatain” in italiano, invece del corretto “Pàlpatin”, né quando Jar Jar si esprimeva in europanto che mischia in modo insensato inglese, spagnolo e francese. Ma per tutto questo e molto altro si rimanda all’articolo su Episodio I.
L’adattamento italiano di Star Wars Episodio II
Con questo doppiaggio si vola
Come se l’è cavata questo secondo episodio con il suo adattamento italiano? Meglio. Molto, molto meglio. La direzione e dialoghi vengono dati adesso a professionisti distinti (già questo un buon segno): Claudio Sorrentino come direttore del doppiaggio, Mauro Trentini dialoghista [scomparso pochi anni dopo, nel 2006], e se paragonato alla qualità delle traduzioni degli episodi più recenti, quelli in mano alla Disney per intenderci, ci sarebbe quasi da urlare al miracolo per questa versione italiana di Episodio II. Nonostante la qualità alta però, degli appunti da fare ci sono.
Voci robotiche, quanto ci piacciono!
L’assassino in subappalto, ovvero l’alieno mutaforma ingaggiato per assassinare la senatrice Amidala, in italiano parla in maniera quasi robotica, spezzata, elemento inesistente in lingua originale e che per un breve momento dà al film quel gusto da doppiaggio commissionato nell’Europa dell’est. Una cosa simile l’avevamo vista proprio su Boba Fett nel film L’impero colpisce ancora (1980), al suo personaggio era stata data, senza un vero valido motivo, una voce robotica. Era il primo anno degli ’80, Boba Fett era interamente mascherato e quindi, per quanto ne sappiamo, poteva anche essere un robot, o un cyborg; in più all’epoca il doppiaggio aveva libertà creative oggi impensabili. Se la scelta di una voce robotica completamente inventata è criticabile in un film del 1980, è del tutto inaccettabile in un film del 2002, e paradossale in un doppiaggio dove la regola numero uno è “tutto deve essere come Lucas(film) comanda”. Oh, però i nomi dei robot sono tornati ad essere quelli originali, vuoi mettere?
Ti conosco, mascherina!
La pronuncia dei nomi
Nella scena in cui il conte Dooku fa visita a Obi Wan imprigionato in un campo magnetico abbiamo questa sua frase (la trascrivo così com’è pronunciata):
È un gran peccato che le nostre strade non si siano mai incontrate, Obi Wan. Quai Guun parlava sempre con molta stima di te.
Non sappiamo chi sia questo nuovo cavaliere Jedi, Qui-Goon, mai sentito prima, ma ricorda molto quel Qui-Gon interpretato da Liam Neeson in Episodio I! Sono ironico, si tratta ovviamente proprio di Qui-Gon, che nel precedente episodio era pronunciato correttamente come Quaigòn. Certo che per essere una serie che ci tiene a riportare i nomi dei robot ai nativi R2-D2 e C-3PO anche a costo dell’incoerenza con gli altri (precedenti) film, il controllo qualità è barzellettistico. I robot devono tornare ad avere i codici originali, ma la pronuncia dei nomi rimane al gusto personale dei doppiatori? È chiaro che non sto dando la colpa né ai doppiatori né al direttore di doppiaggio, le sviste capitano. Fa solo sorridere tanta fissazione sull’adattamento dei nomi (Han/Jan, R2-D2/C1-P8, Leia/Leila…), da parte della Lucasfilm e dei nuovi fan della serie, quando poi nessuno si preoccupa di tutto il resto.
In Episodio I c’era “Palpatain“, adesso c’è “Quai Guun“. Non ci possiamo aspettare che i doppiatori, professionisti che nel corso della loro carriera forniscono la propria voce a centinaia, che dico, migliaia di film(!), abbiano la stessa attenzione maniacale che potrebbero avere i fan di Star Wars, ma i supervisori Fox/Lucasfilm che fanno, dormono? Dove sono quando c’è davvero bisogno di loro? [Ironie e frecciatine a parte, quella di “Palpatain” in Episodio I era un errore “sistemico”, tutti i personaggi lo chiamavano così quindi è evidente che non si tratta della svista di un singolo doppiatore in una singola battuta (come invece è Qui-Guun), bensì di un’imposizione di chi ne ha diretto il doppiaggio e una scelta deliberata di inventarsi una pronuncia inedita, quindi di ben altra gravità per un’analisi come la mia e, scherzi a parte, è bene dare il giusto peso alle giuste cose.]
Per finire di prendere un po’ in giro il conte Dooku, è sempre Dooku che in quella scena parla del pianeta “Gìonosis” ma poi quando nomina i suoi abitanti li chiama geonosiani. Il pianeta Geonosis in inglese si pronuncia “gìonosis”, è vero, ma in italiano che senso ha questa pronuncia estera quando poi gli abitanti sono (correttamente) chiamati geonosiani? Boh.
Piccola nota aggiuntiva: potremmo contestare che il nome della regina Jamillia venga pronunciato dal capitano Typho come “Jamilla” (a 8 minuti e 28 secondi di film, segnalatomi da Giovanni De Bonis, autore su Star Wars Libri & Comics ed esperto del mondo di Star Wars) ma a dir la verità viene pronunciato così anche in inglese, quindi possiamo supporre che in sala doppiaggio andassero più dietro alla pronuncia originale che al nome scritto sul copione. Quindi diciamo… errore sulla carta. Un po’ meno comprensibile il fatto che il cacciatore di taglie Jango Fett venga chiamato “gengo” da Obi Wan e non “giango”, visto che non è “gengo” neanche in inglese, quindi perché dovrebbe esserlo in italiano? A maggior ragione vista la sua italica origine (quel Django di Corbucci).
Spaccacervelli e altri trucchi grammaticali Jedi
– Vuoi comprare dei spaccacervelli? – Tu non vuoi vendermi dei spaccacervelli. – Io non voglio venderti dei spaccacervelli.
Molto carino quel “death sticks” (letteralmente “bastoncini della morte”) adattato in “spaccacervelli“, un qualche tipo di droga che viene offerta a Obi Wan sotto forma di bastoncini fosforescenti… la grande domanda qui è perché, sia lo spacciatore sia Obi Wan, debbano dire dei spaccacervelli e non deglispaccacervelli? Può sembrare una cosa da poco ma la grammatica italiana esige che si usi “degli” in questo caso e mi sembra anche più faticoso e innaturale dire “dei spacca-“, così come risulterebbe più faticoso e innaturale dire “dei squali”. Poco importa che la parola composta finisca con “-cervelli” e che normalmente diremmo “dei cervelli”, la scelta tra dei e degli viene determinata dalle prime lettere della parola successiva a “degli”, nel nostro caso quel “sp” di “spacca-“.
UN, DEI, DEGLI: si usa un davanti ai nomi maschili che cominciano per consonante (un bambino, un gatto, un triangolo, …) o per vocale (un amico, un insetto, un oste, …). Davanti alle consonanti il plurale corrispondente è dei (dei bambini, dei gatti, …), mentre davanti alle vocali è degli (degli amici, degli osti, …).
UNO, DEGLI: si usa uno davanti ai nomi maschili comincianti con s impura [NdA cioè una s che precede un’altra consonante], z, x, pn,ps, gn, sc. i semiconsonante (uno screzio, uno zufolo, …). Il corrispondente plurale è degli (degli screzi, degli zufoli, …).
Spaccacervelli è una parola composta maschile che inizia con s impura, quindi si deve dire “degli spaccacervelli” e non “dei spaccacervelli.
Un’ulteriore considerazione: la parola italiana sceglie di perdere il riferimento al contenitore di questo stupefacente (quei bastoncini della morte, death sticks del testo originale) e punta piuttosto sul nome dello stupefacente contenuto in essi, lo spaccacervelli, non avrebbe più senso fargli dire “vuoi comprare dello spaccacervelli? / Tu non vuoi vendermi dello spaccacervelli. / Io non voglio venderti dello spaccacervelli“. Volendo poteva essere anche al femminile dando per sottinteso che ci si riferisca ad una droga chiamata spaccacervelli, la spaccacervelli. È una delle tante soluzioni possibili, tutte valide tranne “i spaccacervelli”, che non si può proprio sentire.
Una curiosità sullo spacciatore di spaccacervelli che ci viene ancora una volta da Giovanni De Bonis, esperto dell’universo di Star Wars: il nome ufficiale dello spacciatore (mai pronunciato nel film per fortuna) è Sleazebaggano, dall’espressione americana di “sleazebag”, cioè un debosciato o depravato, di solito anche intrallazzone. Uno di quei nomi scemissimi che popolano l’universo espanso di Star Wars, come del resto lo sono anche i “death sticks”. Per intenderci, è come se in italiano lo avessero chiamato “Intrallazzonio”. Proprio dei testi aulici! Spaccacervelli è un ottimo adattamento, sembra effettivamente il nome di una droga pur rimanendo allo stesso livello di semplicità dei “bastoncini della morte” e se vi lamentate di questo nell’adattamento di Episodio II vi siete proprio bevuti dei spaccacervelli. Ma vedete come suona male!?
A proposito di strane cose offerte a Obi Wan, nella tavola calda di Dexter Jettster la cameriera robot offre a Obi Wan un boccale di “ardis”, o almeno così pare di sentire nella versione italiana, mentre in lingua inglese si parla di “Jawa juice“, succo di Jawa. Non so se a Coruscant spremano i poveri Jawa visti su Tatooine così da farne un succo o si tratta semplicemente di una ricetta Jawa (ovviamente scherzo, è la seconda che ho detto), e quella del boccale di “ardis” potrebbe sembrare un’invenzione bella e buona del copione italiano finché non scopriamo su Wookiepedia che “Jawa juice” è anche chiamato “Ardees“, apparso per la prima volta con questo nome ben 13 anni dopo l’uscita del film, sul libro Star Wars: Absolutely Everything You Need to Know (DK Children, 2015), così almeno sostengono persone sicuramente più esperte di me. Quindi il nome Ardees era certamente nel copione originale, poi cambiato per gli americani in “succo Jawa” durante le incisioni post-produzione ma lasciato inalterato per i copioni di doppiaggi esteri, o perlomeno quello italiano. La mia è una supposizione ma non vedo altre spiegazioni.
Passando ai gingilli, nel film abbiamo un dardo introdotto prima genericamente come “dardo avvelenato” (toxic dart) e successivamente identificato con più precisione come “saberdardo di Kamino“. Saberdart in inglese è una parola composta (saber+dart) che fa pensare a un dardo con lame incorporate. Che sia un “dardo con lame” risulta evidente anche a occhio nudo, il film lo mostra chiaramente per ben due volte. “Saber” in inglese vuol dire sciabola ma nella mente di Lucas chiaramente non è una parola da prendere alla lettera visto che la “lightsaber”, la sciabola laser, non è nemmeno una spada curva, né il dardo è in qualche modo associato ad una “spada” propriamente detta. Se a Lucas piace il suono di una parola la usa anche se non ha molto senso, questa è una cosa ben nota agli americani già dai tempi di THX-1138 dove nei dialoghi compare un “wookie” senza che questo già intendesse un gigantesco cane alieno che pilota navi da carico, e nel suo universo stellare “saber” è l’equivalente di “lama”, per estensione questo diventa anche l’equivalente di “spada” (nel caso delle spade laser). Sull’argomento ritornerò in occasione di Episodio IV. In italiano “saberdart” è stato tradotto a metà, lasciando “saber” in inglese (che in italiano non significa niente) ma traducendo “dardo”. Quindi per il copione italiano è essenzialmente un “coso-dardo di Kamino”, mentre in lingua originale entrambe le parole hanno senso immediato. Immagino che non si fosse riuscito a trovare un valido equivalente che traducesse anche “saber” (lama-dardo? Forse già pensate ad un lama che sputa un dardo. O, ancora più buffo, “spadadardo”) e ci teniamo questo curioso misto inglese-italiano. Poteva andarci peggio, poteva essere una “droide armata” .
Le cose positive: il rispetto dei riferimenti
Dopo un Episodio I adattato ignorando qualsiasi riferimento ai precedenti film (tanto da far sparire persino la parola “iperguida” che qualunque appassionato conosce, o frasi come “ho un gran brutto presentimento”) è un piacere ritrovare l’attenzione per i piccoli dettagli nei dialoghi di Episodio II.
“Power couplings” ad esempio è una parola esistente nella saga già da L’impero colpisce ancora e torna ad essere tradotta per coerenza come “giunti di potenza“, così com’era comparsa nel doppiaggio di Impero. In Episodio Iinvece era un altro dei tantissimi riferimenti alla vecchia saga completamente ignorato dall’adattamento italiano che lo traduceva arbitrariamente come “accoppiatore di energia” (e forse questo dettaglio mi era anche sfuggito quando ho scritto l’articolo su Episodio I).
Ritorna anche radiofarocome traduzione di homing beacon. Dettagli oggi non scontati visto che si tende a non tradurre più niente (esemplare il blaster lasciato in inglese nei nuovi film della Disney)
Vaporatori di condensa nello sfondo
C’è un caso però dove forse si poteva fare un passettino in più (e qui vado a spaccare il proverbiale capello). Quando Watto rivela ad Anakin di aver venduto la madre anni addietro dice “io venduta a estrattore di umidità di nome Lars“, in originale “I sold her to a moisture farmer named Lars“. Con “farmer” stiamo parlando del lavoro da “contadino” che abbiamo già incontrato in Guerre stellari nel 1977, dove lo Owen Lars, lo zio di Luke, estraeva condensa (quindi acqua) usando quelli che chiamava “moisture vaporators” e che nell’adattamento italiano erano stati tradotti come “vaporatori di condensa” (“Quello di cui ho bisogno è un droide che conosca il linguaggio binario dei vaporatori di condensa“, da Guerre stellari, 1977). È chiaro che sarebbe molto strano tradurre quel “farmer” alla lettera trasformandolo in “contadino di condensa”, sembrerebbe un contadino di una città chiamata Condensa, né ha senso “contadino” in generale perché l’acqua non si coltiva né si alleva, e l’idea di usare “estrattore” come equivalente di farmer è particolarmente azzeccata visto che il primo significato di “estrattore” è proprio: “Chi è addetto a lavori o operazioni di estrazione (minerali o prodotti chimici, alimentari, ecc.)” (fonte Treccani).
Per avere un legame con i già noti “vaporatori di condensa” però, avremmo forse preferito “estrattore di condensa“. “Estrattore di umidità” non è sbagliato, è ciò che fanno questi “vaporatori di condensa” nell’universo di Guerre stellari, però un rimando più diretto al primo adattamento del ’77 sarebbe stato ideale. Del resto il personaggio che parla è animato in computer-grafica quindi i problemi con il labiale sono irrilevanti. Dopo si parlerà di “funghi che crescono sui vaporatori” quindi non penso che quel “vaporatori di condensa” del 1977 fosse ignoto come riferimento.
Come dicevo, stavo a spaccare il capello e niente toglie da tutto il resto!
Potrebbe sembrare un errore o almeno un’incongruenza C3PO (ex-D3BO) che chiama Anakin “signorino Ani” (“Master Ani“, in originale) invece di “padron Ani”, cioè così com’era stato “padron Luke” in Guerre stellari del 1977, ma l’uso di “signorino” è altrettanto storico e accurato perché fa riferimento a L’impero colpisce ancora dove, appunto, compariva anche il simpatico “signorino Luke”. Del resto, a quel punto della storia, Luke non era neanche più il suo legittimo proprietario, così come non lo è Anakin adesso che C3PO appartiene ai Lars. Infatti la frase successiva è “Padron Owen?” (Master Owen? in inglese), ed è intuibile la distinzione tra legittimi proprietari e tutti gli altri. Il copione italiano in questo senso è molto più chiaro di quello originale.
Errato invece Episodio I (e quando mai!) che usava “mastro Anakin“, ovviamente un altro dei tanti errori di traduzione di quell’adattamento in quanto l’appellativo mastro (definizione Treccani) non era usato né per sottolineare la qualifica professionale del piccolo Anakin né come “titolo generico di rispetto riferito a persone di media condizione” (Anakin era uno schiavo!). È uno dei piccoli dettagli che forse mi erano anche sfuggiti nell’articolo su La minaccia fantasma, che invece si riconferma l’adattamento peggiore di tutta la serie.
Sì, ce l’ho con te Jar Jar!
Ovviamente giustissimo che si parli di “cloni” e non di “quoti” in questo Star Wars Ep. II L’attacco dei cloni, dal momento che con Episodio II quei cloni hanno assunto un significato tangibile. Non si creda dunque che io non abbia alcuna critica all’adattamento italiano del capostipite del 1977. Ma anche questa storia è per un’altra volta.
Le cose positive: i dialoghi
Considerati gli esempi di bei dialoghi come questi (e non sono ironico), mai tradotti alla lettera, attenti quanto basta al labiale ma anche al significato…
We live in a real world. Come back to it ⇒ Non viviamo nel mondo dei sogni. Guarda in faccia la realtà.
Is she dead yet? ⇒ È morta o non è morta?
Now I am complete ⇒ Ora mi sento appagata.
You’re impossibly outnumbered ⇒ Siete pochi, vi schiacceremo. / I don’t think so. ⇒ Dovrai ricrederti.
…ci tengo a sottolineare che, al netto delle “annotazioni” (in molti casi chiamarli “errori” sarebbe un’esagerazione) elencate in questo articolo, non solo l’adattamento risulta estremamente curato nella resa italiana, ma anche la direzione dei doppiatori e le loro stesse interpretazioni diventano un valore aggiunto per il film (tranne la voce robotica dell’assassino, quella è scema); un esempio tra tutti lo abbiamo nella celeberrima scena del “Non mi piace la sabbia. È granulosa e ruvida, e irrita la pelle” che risulta molto meno ridicola recitata in italiano. Il testo è identico, ma i doppiatori (Francesco Pezzulli in questo caso specifico) la “vendono” molto meglio di quanto non faccia Hayden Christensen nella sua lingua nativa. Opinione personale.
Conclusione
Forse dieci anni fa sarei stato più duro nei confronti di questo adattamento ma sapendo che oggigiorno, nei nuovi film di Star Wars della Disney (e purtroppo non solo in quelli), molti dialoghi suonano spesso come terribili traslitterazioni dirette fatte da chi non riesce proprio a creare dialoghi che sembrino nati in lingua italiana, come posso non dare punti di merito in più ad Episodio II quando, ascoltandolo, ci ritroviamo davanti ad un testo con dialoghi naturali, invisibili, creati da qualcuno che lo fa di professione? E non indugerò sull’argomento direttori di doppiaggio che si improvvisano traduttori/dialoghisti (oggi pratica fin troppo comune), perché certamente non riguarda questo film.
Tornando a Episodio II e concludendo, è curiosa la scelta di riadattare solo parte dei nomi: se i robot Ciunopiotto e Ditrebiò devono tornare alla loro versione originale di R2-D2 e C-3PO senza se e senza ma, perché così vuole Lucas, va bene invece ripescare “sprinter” come traduzione italiana di “speeder” ? È importante capire la logica di un adattamento, peccato che questa logica dopo il 1983 sia cambiata da film a film, per le ragioni più diverse. Una cosa la possiamo supporre però: se non fosse stato per quel disastroso, irrispettoso e, francamente ignorante adattamento di Episodio I, adattato come se prima non fosse mai esistito alcun Guerre stellari, alcun L’impero colpisce ancora o Il ritorno dello Jedi (questi sì con un loro coerente adattamento italiano), non ci saremmo certo ritrovati con un Episodio II che eredita suo malgrado nomi diversi per i droidi, in forte contrasto con un rispetto quasi assoluto di tutti gli altri riferimenti “storici” (incluso sprinter per speeder)… e come poteva non farlo a questo punto? La strada nel 2002 era ormai aperta ad una serie di incongruenze mai sanate [è stato tentato con Episodio III ma Lucasfilm disse di no], anzi, esasperate poi con i sequel Disney.
Tra le tante, ancora non è chiaro perché Ciubecca sia rimasto sempre Ciubecca e non Chewbacca, pronunciato “ciubàca”, (sia chiaro, la mia è solo una provocazione, la pronuncia all’americana in un film in italiano non ha mai molto senso) ma siamo ancora all’Episodio II e il tappeto ambulante più amabile della galassia ancora non è comparso nella serie prequel. Ricomparirà per mettersi in imbarazzo solo con Episodio III ma questa è una storia per un’altra volta.
e ora botte da orbi da Jedi nella sezione commenti!
In attesa dell’articolo sull’adattamento di Episodio III (magari se ne riparla per l’anno prossimo, troppi prequel tutti insieme fanno male), vi lascio con l’episodio della nostra serie di svago cinematografico “i videocommentatori” che raccoglie i commenti tra me e l’amico di visione (Petar) durante Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni. Non c’entrano niente con il doppiaggio ma fanno parte dell’auto-imposta tortura maratona “Star Wars come Lucas comanda” dove andiamo alla scoperta di tutti i film di Star Wars nell’ultima versione autorizzata da Lucas. Quella rispettosa della visione del creatore, finché al creatore non gli viene in mente di cambiarla ancora.
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